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CAPITOLO XI

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Come la penitenzia e gli altri exercizi corporali si debbono prendere per strumento da venire a virtú e non per principale affecto. E del lume de la discrezione in diversi altri modi e operazioni.

—Questi sonno e’ fructi e l’operazioni che Io richieggio da l’anima: la pruova delle virtú al tempo del bisogno. E però ti dixi, se bene ti ricorda giá cotanto tempo, quando desideravi di fare grande penitenzia per me, dicendo:—Che potrei io fare che io sostenesse pena per te?—E Io ti risposi nella mente tua, dicendo:—Io so’ colui che mi dilecto di poche parole e di molte operazioni;—per dimostrarti che non colui che solamente mi chiamará col suono della parola:—Signore, Signore, io vorrei fare alcuna cosa per te;—né colui che per me desidera e vuole mortificare il corpo con le molte penitenzie, senza uccidere la propria volontá, m’era molto a grado. Ma Io volevo le molte operazioni del sostenere virilmente e con pazienzia, e l’altre virtú che contiate t’ho, intrinseche de l’anima, le quali tucte sonno operative, che aduoperano fructo di grazia.

Ogni altra operazione, posta in altro principio che questo, Io le reputo essere chiamare solo con la parola, perché elle sonno operazioni finite. E Io, che so’ infinito, richieggio infinite operazioni, cioè infinito affecto d’amore. Voglio che l’operazioni di penitenzia e d’altri exercizi, e’ quali sonno corporali, siano posti per strumento e non per principale affecto. Ché se fusse posto el principale affecto ine, mi sarebbe data cosa finita, e farebbe come la parola che, escita che è fuore della bocca, non è piú; se giá la parola non escisse con l’affecto de l’anima, il quale concipe e parturisce in veritá la virtú; cioè che l’operazione finita (la quale t’ho chiamata «parola») fusse unita con l’affecto della caritá. Alora sarebbe grata e piacevole a me, perché non sarebbe sola ma accompagnata con la vera discrezione, usando l’operazioni corporali per strumento e non per principale capo.

Non sarebbe convenevole che principio e capo si facesse solo nella penitenzia o in qualunque acto di fuore corporale, ché giá ti dixi che elle erano operazioni finite. E finite sonno: sí perché elle sonno facte in tempo finito, e sí perché alcuna volta si conviene che la creatura le lassi, o che elle gli sieno facte lassare. Quando le lassa per necessitá di non potere fare quello acto che ha cominciato, per diversi accidenti che gli vengono, o per obbedienzia che sará comandato dal prelato suo, che facendole, non tanto che egli meritasse, ma egli offendarebbe. Sí che vedi che elle sonno finite. Debba dunque pigliare per uso e non per principio; ché, pigliandole per principio, di bisogno è che in alcuno tempo le lassi, e l’anima alora rimane vòta.

E questo vi mostrò il glorioso Pavolo mio banditore quando dixe nella epistola sua che voi mortificaste il corpo e uccideste la propria volontá: cioè sapere tenere a freno il corpo, macerando la carne, quando volesse inpugnare contra lo spirito; ma la volontá vuole essere in tucto morta e abnegata e sottoposta a la volontá mia. La quale volontá s’uccide con quello debito che Io ti dixi che la virtú della discrezione rendeva a l’anima: cioè odio e dispiacimento de l’offese e della propria sensualitá, il quale acquistò nel cognoscimento di sé.

Questo è quello coltello che uccide e taglia ogni proprio amore fondato nella propria volontá. Or costoro sonno quegli che non mi dánno solamente parole ma molte operazioni. Dicendo «molte» non ti pongo numero, perché l’affecto de l’anima fondato in caritá, che dá vita a tucte le virtú, debba giognere in infinito. E none schifo però la parola, ma dixi ch’Io volevo poche parole, mostrandoti che ogni operazione actuale era finita, e però le chiamai «poche»; ma pure mi piacciono quando sonno poste per strumento di virtú e non per principale virtú.

E però non debba veruno dare giudicio di ponere maggiore perfeczione nel grande penitente, che si dá molto a uccidere il corpo suo, che in colui che ne fa meno; però che, come Io t’ho decto, none sta ine la virtú né il merito loro; però che male ne starebbe chi non può fare, per legiptime cagioni, operazione e penitenzia actuale; ma sta solo nella virtú della caritá, condita col lume della vera discrezione, però che altrimenti non varrebbe. E questo amore la discrezione il dá senza fine e senza modo verso di me, però che so’ somma e etterna veritá; non pone legge né termine a l’amore col quale egli ama me, ma bene il pone con modo e con caritá ordinata verso el proximo suo.

El lume della discrezione, la quale esce della caritá, come decto t’ho, dá al proximo amore ordinato, cioè con ordinata caritá che non fa danno di colpa a sé per fare utilitá al proximo. Ché se uno solo peccato facesse per campare tucto il mondo de lo ’nferno, o per adoperare una grande virtú, non sarebbe caritá ordinata con discrezione: anco sarebbe indiscreta, perché licito non è di fare una grande virtú e utilitá al proximo con colpa di peccato. Ma la discrezione sancta è ordinata in questo modo: che l’anima tucte le potenzie sue dirizza a servire me virilmente con ogni sollicitudine, e il proximo ama con affecto d’amore ponendo la vita del corpo per salute de l’anime, se fusse possibile, mille volte; sostenendo pene e tormenti perché abbi vita di grazia. E la substanzia sua temporale pone in utilitá ed in sovenimento del corpo del proximo suo.

Questo fa el lume della discrezione che esce della caritá. Sí che vedi che discretamente rende e debba rendere, ogni anima che vuole la grazia, a me amore infinito e senza modo, e al proximo (col mio amore infinito) amare lui con modo e caritá ordinata, come detto t’ho, non rendendo male di colpa a sé per utilitá altrui. E di questo v’amuní sancto Pavolo quando disse che la caritá si debba prima muovere da sé; altrimenti non sarebbe utilitá altrui d’utilitá perfecta. Ché quando la perfeczione non è ne l’anima, ogni cosa è imperfecta: e ciò che aduopera e in sé e in altrui. Non sarebbe cosa convenevole che per salvare le creature, che sonno finite e create da me, fussi offeso Io, che so’ Bene infinito; piú sarebbe grave solo quella colpa, e grande, che non sarebbe il fructo che farebbe per quella colpa.

Sí che colpa di peccato in veruno modo tu non debbi fare; la vera caritá il cognosce, perché ella porta seco el lume della sancta discrezione. Ella è quello lume che dissolve ogni tenebre, e tolle la ignoranzia, e ogni virtú condisce; e ogni strumento di virtú actuale è condito da lei. Ella ha una prudenzia che non può essere ingannata; ella ha una fortezza che non può essere venta; ella ha una perseveranzia grande infino al fine che tiene dal cielo a la terra, cioè dal cognoscimento di me al cognoscimento di sé; da la caritá mia a la caritá del proximo. Con vera umilitá campa e passa tucti e’ lacciuoli del dimonio e delle creature con la prudenzia sua. Con la mano disarmata, cioè col molto sostenere, ha sconficto el dimonio e la carne con questo dolce e glorioso lume, perché con esso cognobbe la sua fragilitá, e cognoscendola le rende il debito de l’odio. Ha conculcato el mondo e messoselo sotto e’ piei de l’affecto. Spregiandolo e tenendolo a vile n’è facto signore, facendosene beffe.

E però gli uomini del mondo non possono tollere le virtú de l’anima; ma tucte le loro persecuzioni sonno acrescimento e provamento della virtú. La quale prima è conceputa per affecto d’amore, come decto è, e poi si pruova nel proximo e si parturisce sopra di lui. E cosí t’ho mostrato che, se ella non si vedesse e rendesse lume al tempo della pruova dinanzi da l’uomo, non sarebbe veritá che la virtú fusse conceputa. Perché giá ti dixi e hotti manifestato che virtú non può essere, che sia perfecta, che dia fructo, senza el mezzo del proximo. Se non come la donna che ha conceputo in sé il figliuolo, che se ella non il parturisce che venga dinanzi a l’occhio della creatura, non si reputa lo sposo d’avere figliuolo; cosí Io che so’ sposo de l’anima, se ella non parturisce il figliuolo della virtú nella caritá del proximo, mostrandolo, secondo che è di bisogno, in comune e in particulare, sí come Io ti dixi; dico che in veritá non avará conceputa la virtú in sé. E cosí dico el vizio che tucti si commectono col mezzo del proximo.

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