Читать книгу Alla finestra - Enrico Castelnuovo - Страница 15

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Era altrettanto facile di guarire la Gegia, quanto di far passeggiare per la piazza il campanile di San Marco; nondimeno la ciarlatana si guardò bene dallo scoraggiare la inferma; la rimproverò anzi di non aver fatto nulla da un paio d'anni, ma le soggiunse che ciò non rendeva punto disperata la cosa e che perseverando nei rimedi ella avrebbe potuto ricuperar pienamente l'uso delle sue gambe. Indi le ordinò certi empiastri di sua recente invenzione, che s'erano chiariti efficaci in casi più gravi del suo. E la Gegia sperò e ubbidì ciecamente alle prescrizioni della ciarlatana, dando fondo per pagarla a poche lire ch'ella aveva risparmiate in più anni. Non toccò per altro il napoleone d'oro che le era stato regalato tanto tempo addietro dalla Lotte; questo napoleone, che le rimordeva di quando in quando la coscienza, ella aveva destinato di serbarlo ad un'opera buona, di farlo servire a vantaggio di qualchedun altro.

A Carletto la Gegia non disse nulla della cura intrapresa. Bensì a lunghi intervalli si lasciava sfuggir qualche parola che accennava all'idea della guarigione, faceva qualche progetto per quando fosse guarita.

Così pure, da pochi giorni e precisamente dacchè Carletto le aveva riferito il colloquio avuto con sua madre intorno a lei, ella aveva ripreso ne' suoi ritagli di tempo un'occupazione smessa da un pezzo: quella dei fiori di carta.

Un dì Carletto se ne accorse e le chiese: — Anche i fiori sa fare con quelle sue manine?

— Sono inezie.... Ho imparato da una signorina tedesca che abitava costì....

— Come son belli!

— Le piacciono?

— Tanto. E lavora per commissione?

— Sì — rispose la Gegia abbassando gli occhi e sorridendo.

— Lo sa, signora Gegia — disse Carletto alcuni giorni dopo — che mi son fatto fare il ritratto?

— Mi canzona? Il ritratto?

— In fotografia.... C'è un mio amico che s'è messo a fare il fotografo e ha voluto usarmi questa cortesia. Me ne diede sei copie.

— Davvero? — soggiunse la Gegia e non osava chiedergliene una. Poi, sforzandosi di parer disinvolta. — Sarà una sorpresa che vorrà fare alla sua amorosa....

— Ma se non l'ho, io, l'amorosa.

La povera Gegia non osava sperare di esser lei la preferita; pur le era un gran conforto il sentire che il cuore di Carletto fosse libero. E si fece coraggio a dire:

— Già che ne ha sei copie, potrebbe darmene una?

— Sicuro che gliela darò.

— L'ha con sè?

— No, la porterò domani.

— Si ricordi, sa — disse la Gegia a Carletto, quando questi alla solita ora si mosse per andarsene.

— Oh non dubiti.

Di lì a un'ora si bussò alla porta della Gegia.

— Chi è? — disse la ragazza.

— Sono io, sono Carletto che le porto oggi stesso il ritratto. Posso entrare?

— Vengo, vengo — disse la Gegia tutta confusa di questa visita che le metteva addosso uno strano turbamento.... Non ch'ella potesse temere della sua riputazione. Prima di tutto c'era nella camera attigua la zia Marianna: poi chi si sarebbe sognato di attribuire un intrigo galante a lei, la storpia, la paralitica? Ella pensava invece che Carletto non l'aveva vista sino allora che dalla finestra; egli poteva crederla impedita nei movimenti, non rattratta com'era.

Depose in fretta sopra il tavolino che le stava allato la ciotola di perle e gli aghi, si ravvolse le gambe in una coperta di filo, tanto per nascondere alla meglio la parte inferiore della persona; quindi tirò la funicella che girava tutto intorno alla parete e di cui uno dei capi pendeva vicino allo stipite della finestra, a portata della sua mano, l'altro era legato al saliscendi dell'uscio.

Carletto entrò.

— Perdoni la libertà, signora Gegia — egli disse — ma ho pensato che domani debbo andare al tribunale per conto dell'avvocato e trattenermivi forse tutto il giorno. Così volli anticipare e farle oggi una visitina.... Eccole il ritratto.

E le porse una fotografia molto mediocre, che per vero dire non adulava l'originale, nè faceva un grande onore all'artista.

Carletto aveva stimato opportuno di farsi ritrarre in piedi, locchè dava maggior risalto al taglio disgraziato del suo soprabito e alla cortezza fenomenale de' suoi calzoni, dono generosissimo del principale, ch'era nomo di statura al disotto della mezzana. Inoltre per la paura di mandar a male la grand'opera col più piccolo movimento, il suo corpo aveva perduto ogni morbidezza di contorni ed era rigido e stecchito come quello di un assiderato. Le braccia tese scendevano fino all'altezza dell'anca, facendo un leggiero angolo acuto col busto, e le mani aperte a ventaglio parevano preoccupate sovra ogni cosa di persuadere il mondo ch'esse avevano il numero giusto di dita, tanto un dito era discosto dall'altro. Ad aggiunger grazia all'insieme contribuiva il fondo che figurava un giardino. — Giacchè debbo viver sempre tra quattro muri, voglio stare almeno all'aperto in ritratto — aveva detto il giovine al fotografo, e questi, per compiacerlo, lo aveva addossato ad un paravento su cui erano dipinte due magnifiche palme.

La Gegia ch'era artista per istinto avrà notato senza dubbio queste stravaganze, ma non volle contristare con le sue critiche il buon Carletto, e lo ringraziò molto della sua premura. Senonchè, mentr'ella parlava, non potè a meno di osservare nel suo interlocutore un certo che d'impacciato, una preoccupazione non naturale, una singolare inquietudine dello sguardo. Parve ch'egli stesso trovasse necessario di giustificarsene, perchè, quando i suoi occhi s'incontrarono in quelli della Gegia egli divenne rosso e balbettò: — Guardavo quei fiori lì sul tavolino.

La ragazza ben s'accorse non esser questa se non una scusa; tuttavia volle accettarla per buona, stese il braccio a prendere i fiori ch'erano ancora sciolti e se li pose in grembo.

— Oh la bella rosa — esclamò Carletto. — Verrebbe voglia di odorarla.... E questo gelsomino!...

— Oh il gelsomino è facile; cinque pezzettini di carta bianca, guardi il garofano piuttosto.

— Ma davvero! Com'è brava!

— È affar di pratica.

— Che lavoro c'è! Almeno glielo compenseranno bene.

La Gegia sorrise e disse: — Sa per chi preparo questo mazzolino?

— No in verità. Come potrei saperlo?

— Ebbene, spero che la sua mamma non avrà difficoltà ad accettarlo.

— La mia mamma? — esclamò Carletto.

— Sì — soggiunse la Gegia con accento commosso — da quando ho sentito che discorrono qualche volta di me con la sua mamma, m'è venuta l'idea di regalare a quella povera vecchia un lavoro mio.... Non ci vedremo mai; ella non si muove più di casa, io non mi muovo di questa camera, ma almeno.... io che sono la più giovine.... io che se fossi sana dovrei andarla a trovare.... pregherò questi fiori di far le mie veci.

Mentre diceva così, annodava rapidamente il mazzolino con un sottile filo di ferro, e con la manica del vestito si asciugava due grosse lagrime che le colavano giù per le gote.

— Oh Gegia, com'è buona! com'è gentile! — disse Carletto, volendo prenderle la mano.

Ella si schermì con uno di quegli atti istintivi della donna che nega per consentire, e con un movimento un po' brusco della persona lasciò scivolare la coperta che teneva sulle gambe.

— Oh perdoni — disse il giovine. E raccolse la coperta da terra e gliela stese addosso amorevolmente. Pur non potè a meno di avvertire, meglio che non avesse fatto sino allora, la sproporzione del corpicino di lei; onde le parole gli morirono sulle labbra e restò lì imbarazzato, confuso.

— Dunque li accetta questi fiori perla sua mamma? — ripetè la povera Gegia macchinalmente, tendendogli il mazzolino e senza osar nemmeno di guardarlo in viso.

— Oh se l'accetto! Sì, con tutta la gratitudine — egli rispose prendendoglielo dalla mano, che questa volta, egli strinse davvero nella sua.

— Vada via adesso — ella replicò tenendo il capo voltato verso la finestra e accennando con la mano che le restava libera. — Vada via, potrebbe venire la zia Marianna.

Egli esitò ancora un istante; poi disse: — Grazie ancora una volta, Gegia, e a rivederci. — E se ne andò.

Oh se la Gegia fosse stata una ragazza come tutte le altre, certo egli non le avrebbe ubbidito così presto!

Appena egli ebbe chiusa la porta, la giovine appoggiò i gomiti al tavolino, nascose il viso fra le palme e ruppe in un pianto dirotto.

Il pingue gatto soriano ch'era in cucina e durante questo colloquio aveva cacciato più volte il muso attraverso lo spiraglio dell'uscio e s'era sempre tirato indietro alla vista di un estranio, ora si avanzò adagio adagio sulle sue zampe vellutate, venne fino alla Gegia, si fermò un momento a guardarla; poi le saltò sulle ginocchia.

— Povera bestia! — esclamò la Gegia. — Povera bestia! — E lo accarezzò con una tenerezza assai maggiore dell'ordinario, tantochè il micio non si mosse di là, finchè la zia Marianna non venne in persona a prenderselo.

In quel giorno la Gegia aveva capito due cose: ch'ella amava Carletto, e che non avrebbe mai potuto essere amata come sono amate le altre donne.

Carletto le aveva detto — A rivederci — ma c'era da scommettere ch'egli non aveva in animo di tornarla a visitare; certo egli intendeva dire soltanto che si sarebbero riveduti dalla finestra.

Dalla finestra egli le porse infatti i ringraziamenti di sua madre pel dono dei fiori, ma non le fece altre visite, ed ella non cantò più; nè egli le chiese perchè non cantasse. Capiva forse di essere andato troppo avanti e non gli pareva onesto di lusingare la passione ch'egli aveva creduto scoprire nella Gegia. Così il primo colloquio intimo che i due giovani avevano avuto era stato anche l'ultimo, e il primo scambio di cortesie successo tra loro aveva contribuito a rallentare anzichè a stringere le loro relazioni.

Poi sopraggiunse l'inverno coi suoi freddi, le sue nevi, le sue pioggie, e Carletto e la Gegia non si videro per più mesi che attraverso i vetri.

Alla finestra

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