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XII.

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Senonchè, fino dalla mattina di quel lunedì atteso con tanta impazienza ella s'accorse che per quel giorno almeno le era forza rinunziare alla visita del convalescente. La temperatura s'era abbassata da un punto all'altro; pareva tornato l'inverno. Veniva giù un'acqua fitta, spirava un vento freddo che soffiando di tratto in tratto più forte faceva sbatter le imposte e moveva in giri capricciosi il fumo dei camini. Oppressa da una malinconia tetra, invincibile, la Gegia non trovava il verso di mettersi al lavoro. Ella stava immobile a sentir lo scroscio della pioggia, a guardar le goccioline che si formavano dietro i vetri della sua finestra chiusa e colavano a guisa di lagrime. E pensava a Carletto che aveva tanto bisogno del sole e a cui forse una giornata come questa ritardava di qualche settimana la guarigione... Forse egli era rimasto a letto, forse contemplava anch'egli mestamente il cielo color della cenere e si ravvolgeva entro le povere coltri per ripararsi dall'aria umida che penetrava nella sua camera attraverso le imposte sconnesse.

Assorta nelle sue tristi fantasie, la ragazza non sentì bussare una prima volta alla porta. Quando si bussò di nuovo:

— Chi è? — ella chiese in sussulto.

— Amici. Non istà qui una signora Gegia?

— Sì — ella rispose e tirò il cordone.

Entrò un ometto di bassa statura con un pastrano che gocciolava da tutte le parti e sotto il quale pareva ch'egli nascondesse qualche cosa. La fisonomia non era nuova alla Gegia, ed ella che vedeva così poca gente, non tardò a riconoscerlo per la persona a cui la serva dell'avvocato Galeni aveva consegnato il vaso d'erbarosa. Egli veniva senza dubbio da parte di Carletto, ed è facile immaginarsi come battesse in quel momento il cuore della povera paralitica.

— Ah! Ho avuto il piacere di vederla un'altra volta — soggiunse il nuovo arrivato, levandosi il berretto e scuotendolo in modo da spruzzar d'acqua i mattoni del pavimento. — Sant'Antonio Abate! Che brutto tempo... Basta; ho un incarico poco allegro per questa signora Gegia... È lei, non è vero?

— Sono io!... Che c'è mai?

— Un incarico di Carletto.

— Di Carletto! — esclamò la ragazza impallidendo. — E come sta?

— Eh, sta meglio di noi adesso.

— Ma si spieghi... per carità... non mi faccia credere...

— Cara la mia tosa, ci vuol pazienza... Il Signore lo ha chiamato a sè.

— Morto? — gridò la Gegia. — Morto?

— Pur troppo. Stamattina alle 9.

— Oh Dio!

— È morto come un santo...

— Ma non istava meglio?

— Era spedito dal medico da un pezzo, ma son di quei mali!... Ancora ieri s'è provato ad alzarsi.... Iersera poi si sentiva più debole e ha voluto confessarsi e comunicarsi.. Io che sono il sacrestano della parrocchia avevo seguito il prete, e quando Carletto s'accorse ch'ero là, mi disse: — Girolamo, più tardi, di qui ad un'ora, passate da me. — Così ho fatto... Il poverino stentava a respirare, ma appena mi vide mostrò una gran consolazione e mi disse: — Girolamo, dovete farmi un piacere. — Mille, viscere mie, io gli risposi. — Figuriamoci, l'ho visto nascere, e suo padre ed io eravamo come due fratelli. — Ebbene — egli ripigliò dopo aver preso fiato — di facciata al portone dell'avvocato Galeni ci sta una povera tosa di nome Gegia, ch'io vedevo ogni giorno dalla finestra dello studio e che ha sempre mostrato molta premura per me. Quando sarò morto, e ormai sento che non passerò la giornata di domani, portatele quel vaso d'erbarosa ch'è lì sul balcone e che siete andato a riprendere poche settimane or sono... povero Girolamo, tant'era che non vi facessi fare che un viaggio solo... portateglielo per memoria mia, e salutatela tanto, e ditele ch'io pregherò il Signore e la Madonna perchè la facciano guarire delle sue infermità... e che si ricordi qualche volta di me...

— Oh me ne ricorderò sempre, sempre — proruppe la Gegia in mezzo ai singhiozzi.

L'altro intanto aveva deposto sopra una sedia la pianta d'erbarosa e si soffiava romorosamente il naso con un fazzoletto blù.

— Si dia pace... non faccia disperazioni... Tanto ha finito di patire... Se avesse visto com'era ridotto...

— Povero giovine! Povero giovine! Così buono!

— Oh buono sì... E timorato di Dio, sa... Non come tanti... Egli veniva sempre alle funzioni... Don Agostino, quando lo ha lasciato iersera, disse a me: — Quello lì va in Paradiso dritto.

— E la sua mamma?

— Oh le mamme, si sa, stentano a rassegnarsi... Ma anch'ella stamattina mi disse asciugandosi gli occhi: — Vi raccomando di eseguir la commissione del mio Carletto... E la saluterete anche per me, quella tosa.

— Grazie, grazie... oh come pagherei a potermi muovere e a venirla a trovare!... Ma è inutile!... E come vivrà adesso?

— C'è una sua sorella maritata con un orefice, e quella si è obbligata a passarle un tanto... Poi ha ancora quei quattro stracci di suo marito.

— O senta — replicò la Gegia — io sono una poveretta, ma se la mamma di Carletto dovesse trovarsi nella miseria, io darei tutto quello che ho per sollevarla... Glielo dica, sa, per l'amore che portava a quel giovine... glielo dica... E adesso, scusi, mi dia qui quel vaso.

Ella prese e guardò quella pianta come si prende e guarda un bambino; poi la depose dolcemente ai suoi piedi, si frugò nelle tasche e trattone un biglietto da due lire, lo porse al sacrestano.

— Giacchè è tanto buono; faccia dire una messa al nostro defunto anche per me... Lo hanno già portato in chiesa?

— Oh no, lo porteremo domani... E sia tranquilla che si faranno le cose per bene... Le ripeto che tutti lo amavano... e ci sarà un funerale da povera gente... ma decoroso...

Sono trascorsi alcuni anni, e la Gegia passa ancora le giornate al solito posto. Non sorride mai, non canta più, ha già qualche cappello bianco e qualche ruga sul fronte. Guarda spesso verso la finestra dirimpetto e i suoi occhi si bagnano di lagrime. Ella non sa persuadersi che un dì o l'altro non debba tornare Carletto a quella finestra e dirle:

— Buon giorno, signora Gegia.

Alla finestra

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