Читать книгу Alla finestra - Enrico Castelnuovo - Страница 7
III.
ОглавлениеEra venuta ad abitar Cà Dareni una ricca famiglia tedesca e il gabinetto di fronte alla cameruccia della Gegia serviva di abbigliatoio ad una ragazza di tredici anni, già alta di statura e in via di acquistare proporzioni matronali. La chiamavano Lotte (Carlotta), aveva occhi azzurri, capelli castani, di cui le scendevano due lunghe treccie giù per le spalle; le rosee guancie davano l'immagine della salute. Con un po' di tempo sarebbe certo divenuta una bella ragazza. Quando vedeva la Gegia le sorrideva. Ma la vedeva poco, perchè era d'inverno, ed essa sollevava di rado le cortine, e più raramente ancora apriva la finestra.
La buona stagione non portò alla Gegia alcun miglioramento. I fanciulli del vicinato ripigliarono i loro giuochi nella calle, le rondini tornarono a far sentire i loro trilli armoniosi, ma ella era inchiodata nella sua sedia a infilar perle. Un dolore inatteso le aveva poi recato lo strano contegno di suo padre verso di lei. Nei primi tempi della sua malattia egli le aveva prodigato ogni sorta di cure; adesso, non isperando più ch'ella guarisse, era freddo, ingrugnato, le teneva il broncio. Gli è che Filippo, nel fondo, era un grande egoista. Aveva amato sua figlia finchè la bellezza di lei, gli elogi che le venivano diretti, lusingavano il suo orgoglio; adesso la commiserazione ch'ella destava negli antichi conoscenti muoveva la sua stizza, gli pareva un'offesa; adesso sarebbe stato lieto di poter dimenticare che aveva una figlia. Aveva amato il suo sorriso, non amava la sua mestizia e le sue lagrime; l'aveva amata ritta, svelta della persona, vispa delle movenze; non sapeva più amarla così rattratta, così pallida, così diversa insomma da quella ch'ella era. E cercava ogni pretesto per venire a casa meno che fosse possibile. Finalmente disse un giorno che d'ora in poi doveva passar la notte nel palazzo dei padroni, ed era vero, ma era vero altresì che aveva sollecitato egli stesso questo favore e che per ottenerlo s'era offerto di far la guardia al padrone vecchio, il quale contava più di settant'anni, e aveva bisogno che qualcheduno gli dormisse nell'anticamera. Presa questa risoluzione, Filippo lasciava trascorrere anche una settimana senza veder la sua figliola e credeva di adempir largamente a' suoi doveri di padre pagando la pigione di casa, e dando a sua sorella un piccolo peculio per mantenere sè e la Gegia. Ma queste poche lire non avrebbero bastato nemmeno a toccar la metà del mese, se non vi si fossero aggiunti i quattrini che la fanciulla continuava a guadagnarsi anche dopo la malattia col suo mestiere di infilatrice di perle. E l'ottimo signor Menico le portava in persona ogni sabato il suo salario, e non poteva capacitarsi che la più vispa delle sue operaie fosse ridotta così. Ma in cospetto di lei si mostrava pieno di fiducia, le discorreva dei miglioramenti introdotti nella fabbrica, dei nuovi locali che si erano aperti, e del posto ove la si sarebbe messa, quando fosse guarita. Ella stava intenta ad ascoltarlo, e sperava, e rinfrancata dalle sue visite, subiva con animo paziente l'abbandono del padre e gli umori bisbetici della zia Marianna. Costei non era cattiva ma brontolona, ed era affetta da una sordità che cresceva ogni giorno. Diceva che la Gegia non aveva voce affatto, ma s'arrabbiava poi s'ella gridava un po' forte, come se avesse da discorrere con una sorda. E nella sua stizza si chiudeva in cucina e faceva al gatto lunghe e feroci requisitorie contro la nipote, che sentiva benissimo le impertinenze a lei dirette, e sospirava.
Nell'aprile di quel primo anno di malattia, una bella mattina, la Lotte spalancando le imposte si affacciò al davanzale della sua finestra. Aveva un bianco accappatoio sulle spalle e doveva ancora pettinarsi.
Ella vide la Gegia nel solito posto.
La Lotte aveva imparato un po' d'italiano, e raccogliendo tutte le sue cognizioni, chiese:
— Come ti chiami?
— Gegia, signora.
— E stai sempre a quella finestra?
— Sempre.
— O perchè non ti muovi?
La poveretta arrossì, e sentì venirsi le lagrime agli occhi.
— Sono malata — rispose.
— È vero. Sei un po' pallida. O che cosa hai?
— Ho male alle gambe.
— Da un pezzo?
— Da sei mesi.
— Oh, ma guarirai certo.
— Sì, spero, quest'estate.
Da quel giorno le conversazioni fra le due finestre si rinnovarono spesso. La Lotte era riconoscente alla fanciulla della buona cera ch'essa le faceva. In quel tempo (era nel 1862) i Tedeschi non erano avvezzi in Venezia ad esser trattati con cordialità.
— Che cosa fai? — domandò un dì la forestiera alla Gegia, vedendola occupata in un lavoro diverso dall'ordinario.
— Faccio un sottolume di perle a colori.... tanto per distrarmi.
— Dovresti vendermelo.
— Oh! Venderglielo, no.
— Perchè?
— Perchè vorrei regalarglielo.... se non si offende....
— Poverina! No, che non m'offendo.... Ma tu non sei ricca.
— Oh questa roba qui non val nulla.
— Senti, Gegia, accetto il tuo regalo ad un patto.
— Quale?
— Che tu mi permetta ch'io t'insegni un lavoro che ti distrarrà ancora di più.
— Oh magari? E sarebbe?
— Vedrai.
Così dicendo la Lotte si ritirò dalla finestra e scomparve.
Di lì a pochi minuti la Gegia sentì bussare all'uscio della scala, chè quanto alla porta di strada essa soleva rimaner socchiusa gran parte del giorno.
Tirò il cordone ch'era a portata della sua mano ed aperse.
Quale fu la sua maraviglia allorchè si vide dinanzi la Lotte in persona accompagnata dalla cameriera, che per dir la verità aveva un'aria scura ed uggita!
— Non c'è in casa nè il babbo nè la mamma — disse la ragazza — e ho voluto prendermi un po' di vacanza. — Poi rivoltasi alla cameriera, soggiunse in tedesco. — Dà qui. — La donna tolse, brontolando, un involto enorme di sotto il braccio, e lo consegnò alla sua padroncina che lo posò sopra il tavolino, e lo aperse. C'erano fogli di carta di tutti i colori, forbici, fili di ferro, ecc., ecc. La Gegia guardava esterrefatta.
— Non capisci? Voglio insegnarti a fare i fiori di carta?
— Oh! — esclamò la Gegia, battendo le mani per la contentezza.
— Non c'è da sedersi in questa camera? — ripigliò la tedesca. E in pari tempo andò in cucina, ove la zia Marianna stava attizzando il fuoco, prese due seggiole di paglia, una per sè, l'altra per la sua cameriera, e senz'aggiunger parola tornò dalla Gegia.
La sorda, sbalordita da quell'apparizione, le corse dietro col ventolo gridando: — Ehi chi è là? Chi è là?
La Lotte diede in una risata sonora.
Quando la donna riconobbe la signorina dirimpetto cominciò una filza di scuse e di complimenti. La ragazza le rispose qualche cosa, ma visto che l'altra intendeva a rovescio non si occupò più di lei, e si consacrò tutta alla sua lezione.
— To' — diss'ella ad un tratto picchiandosi il fronte. — Ci manca il meglio. — E con un ordine breve e con un gesto imperioso mandò la cameriera a prendere quello che le mancava. Costei uscì borbottando e in un paio di minuti fu di ritorno con un mazzolino di fiori. C'era una camelia bianca cinta di violette.
— Ecco — osservò la Lotte pigliando il mazzolino — gli esemplari dipinti e gli stampi sono belli e buoni, ma quando non s'abbiano i fiori vivi davanti non se ne fa nulla.
La Gegia mostrava una singolare attitudine ad imparare, e la sua maestra la lasciò dopo un paio d'ore assai soddisfatta.
— E questa roba? — chiese timidamente la Gegia.
— Che roba?
— Questa carta, questi modelli?
— Ti regalo tutto, diamine.
— Oh, ma è troppo....
— Ti ripeto che ti regalo tutto, e basta. Non sono avvezza a sentirmi contraddire. Del resto anche tu mi regali il sottolume.... Via, non vo' sentir altro, — e le pose la mano alla bocca, — ripiglieremo la nostra lezione domani, posdomani, quando vuoi. — Le carezzò i capelli e senza lasciarle tempo a rispondere fu fuori della porta.
La Gegia era tra commossa e confusa. Pur pensava che non poteva trascurare troppo il suo mestiere, e che avrebbe quindi dovuto rallentare un po' la foga della sua amica. Ma non ce ne fu punto bisogno; la Lotte era stranamente volubile, e corsero parecchi giorni prima ch'ella riparlasse dei fiori di carta. Intanto la Gegia faceva singolari progressi da sè, e non ci volle molto prima ch'ella ne sapesse quanto la maestra.
Una volta la Lotte comparve con un signore vestito di nero.
— Ho condotto qui il nostro medico, — ella disse, — voglio ch'egli ti veda.
La Gegia arrossì.
— C'è quella noiosa di tua zia?
— No, è fuori.
— Tanto meglio.
Il medico non sapeva una parola d'italiano, onde la Lotte doveva servirgli d'interprete. Fu un interrogatorio in tutte le regole sulle origini del male, sui sintomi, sulle sofferenze, ecc., ecc. All'interrogatorio succedette un esame. Il dottore fece uno sproloquio alla Lotte in tedesco, indi si ritirò con lei.
Per quel giorno la Lotte non si lasciò vedere alla finestra del gabinetto. Il dì appresso ella ritardò a sollevar la cortina.
E la Gegia aveva tanta impazienza di saper da lei che cosa aveva detto il dottore!
Finalmente, quando le due fanciulle si videro, la Lotte pareva imbarazzata.
— Dunque? — chiese la Gegia, — il medico?....
— Ah! Il medico disse che.... guarirai... con un po' di tempo.
E la Lotte finse che qualcheduno la chiamasse per poter allontanarsi subito dalla finestra.
Fatto si è che il medico aveva giudicato la malattia della fanciulla non esser guaribile. Se fosse stata ricca, se avesse avuto i mezzi da fare una cura lunga e regolare, ci sarebbe stato da tentar qualche cosa, ma nelle condizioni in cui ell'era bisognava rinunciarvi. La Lotte se ne dolse vivamente, ma ella non poteva pretender che la sua famiglia sostenesse per un'estranea le spese d'una cura come quella che il dottore reputava necessaria; così era forza ch'ella si rassegnasse. Del resto si finisce sempre col rassegnarsi ai mali degli altri.
Quanto alla Gegia, ella non poteva a meno di dare un triste significato alle parole mozze della sua protettrice. Si disperò e pianse. Ma ella era in una età nella quale le illusioni ripullulano facilmente; aveva sperato nella primavera e poi nell'estate, e adesso andava via via persuadendosi che la primavera era stata troppo rigida e che l'estate era troppo soffocante.... Forse in autunno, chi sa? o, in ogni caso, a un'altra primavera.