Читать книгу Alla finestra - Enrico Castelnuovo - Страница 9

V.

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Il panierino tragittò più d'una volta fra le finestre lungo la cordicella. I bimbi della calle, ne ridevano e salutavano questi passaggi aerei coi loro frizzi; le donnicciuole facevano i loro comenti, tanto più ch'esse avevano visto una femmina ignota salire replicatamente della Gegia. Nondimeno le cose sarebbero andate liscie se un bel giorno il paniere non si fosse piegato troppo da una parte e non avesse lasciato cadere il suo prezioso carico nella via sottoposta. Il carico, che consisteva in una semplice letterina scritta in carta sottile, fece parecchie leggiadre giravolte prima d'arrivare in istrada, ma alla fine andò a terminare in grembo ad un monello che giuocava sullo scalino di una porta. Si può immaginare l'agitazione delle due ragazze. L'una, la Lotte, spintasi fuori con mezza la persona dalla finestra, seguiva collo sguardo il volo del suo biglietto; l'altra, la Gegia, che non poteva muoversi dalla sedia, lo seguiva col pensiero e non era la meno inquieta. — Ps! Ps! — fece la Lotte al ragazzo, vedendo che in quel momento non c'erano altri nella calle. E avvicinate le mani alla bocca in modo da raccogliere il suono, gli disse: Vieni subito al portone che scendo io. — Lasciò la finestra e fu presto sulle scale. Il fanciullo, cui non pareva vero di prendersi una mancia dalla signorina, aveva prontamente obbedito e, tenendo delicatamente fra le dita il biglietto, aspettava che il portone si aprisse. Volle sfortuna che in quel momento arrivasse dalla strada nientemeno che Herr Graf von Rheinstadt, il padre della Lotte. Come costui vide il garzoncello all'uscio di casa sua, gli domandò brusco che cosa volesse. L'interrogato, tra pella confusione, tra pel dubbio di non farsi intendere in veneziano, si spiegò a gesti segnando prima la finestra della Gegia, poi quella del palazzo e sforzandosi a descrivere con la mano la caduta della lettera. Ma prima che la spiegazione fosse compiuta, la porta si aprì, comparve la Lotte, la quale rimase pietrificata alla vista del suo maestoso genitore. Herr Graf credette d'aver capito abbastanza, strappò il biglietto dalle dita del ragazzo e a titolo di mancia gli amministrò uno scappellotto. Indi, spingendo avanti di sè la figliuola, entrò in casa e si tirò dietro il portone con gran fracasso. Di lì a poco la cameriera tedesca, che, mesi addietro, aveva accompagnata la Lotte in casa della Gegia, venne alla finestra del gabinetto della sua padroncina, rivolse alla povera inferma uno sguardo velenoso e le gridò due volte Unverschämte! Unverschämte! (svergognata). Indi chiuse le imposte. Nello stesso tempo il ragazzo ch'era stato così mal ricompensato dei suoi servigi pensò di sfogar la sua stizza andando sotto al balcone della Gegia e urlando: — Tutto per colpa tua, brutta storpia! brutta....! E qui c'era una parola brutta davvero che il lettore mi dispenserà dal ripetere.

Quando la cosa si divulgò nel vicinato, le femminuccie della calle si mostrarono tutte piene di scrupoli virtuosi. Il giudizio meno ostile alla Gegia fu quello di siora Veronica. Poverazza! Bisogna compatirla. Non la pol far ela e la tien terzo ai altri. E il barcaiuolo Filippo, informato della faccenda, s'infiammò di un sdegno veramente magnanimo. — Quella lì, vedete — egli disse, parlando della Gegia — dopo una roba simile, io non la conosco quasi più per mia figlia. — Onde gli spiriti timorati convennero che Filippo era un uomo giusto un uomo il quale, in materia d'onore, non guardava in faccia nemmeno alle sue creature. In quanto alla zia Marianna, ella aveva subodorato qualche novità. Ma siccome nessuno voleva perdere il fiato con lei, così alle sue interrogazioni si rispondeva gridandole nell'orecchio: — Domandate a vostra nipote. Era un altro martirio per la Gegia che diceva con voce supplichevole: — Mi lasci stare. Ma mi lasci stare. E la sorda si ritirava in cucina sbuffando e ripetendo su tutti i tuoni: — Mi par d'essere in una gabbia di matti.

In quale stato d'animo fosse la Gegia è facile immaginare. Il rimprovero che la sua coscienza le aveva già diretto faceva sentir più acerba la sua puntura dopo che la disgraziata ragazza trovava intorno a sè la riprovazione degli altri. Perchè così nel biasimo come nella lode che l'uomo dà a sè medesimo accade ben di rado che si astragga affatto dal giudizio altrui, e la coscienza dell'individuo, per altera, per illibata che sia, muta i suoi responsi col mutar dell'ambiente in cui vive. Ma la Gegia, in mezzo alla sua mortificazione, aveva un altro pensiero che la crucciava. Era il pensiero della sua amica alla quale ella non sapeva che punizioni si fossero inflitte. A veder sempre chiusa la finestra, ove la bella giovinetta soleva venir così spesso a conversare con lei, ella sentiva stringersi il cuore. Certo la Lotte era stata mandata via di casa, forse la si era cacciata in un ritiro, povera creatura! La Gegia se la figurava già vestita di saio, coi capelli corti, come, da bambina, aveva visto le monache nel convento delle Terese. E anche lei, anche la Lotte, doveva dunque rinunziare al mondo, doveva rinunziare all'amore! Anche lei! Chi può assicurarci che nel pronunziar questa frase le Gegia non provasse in cuor suo quell'amaro conforto che è pur nella certezza del dolore diviso? Chi può assicurarci che ella non fosse in preda a quella strana contraddizione, che, mentre sveglia in noi tutto lo spirito di sacrifizio necessario a toglier di pena un amico, di farebbe accogliere come un disinganno la notizia che l'amico non ha nulla sofferto?

Questo disinganno, se era tale, la Gegia non tardò a subirlo. Pochi giorni dopo l'avvenimento della lettera, ella sentì salir dalla strada la voce della Lotte, il fruscio della sua vesta, lo scoppiettar del suo riso. Cò presto la ghe xè passada! dissero le comari della calle vedendola vispa, ilare, elegante. Il romanzo della Gegia era andato in fumo, la sua amica era sempre felice, ed ella piangeva a lagrime dirotte.

Col chiudersi della finestra di facciata s'era chiusa per la Gegia una gran parte del suo piccolo mondo. Ella passava intere giornate senza scambiare una parola, chè con la zia Marianna era inutile discorrere e le sue vicine non capitavano che di rado a visitarla. E poi queste visite erano quasi sempre una fonte di mortificazioni per lei. Ogni momento le si diceva: — Sai, la tale si marita a Pasqua e la tal'altra fa l'amore con questo o con quello. — E qualche volta era la fidanzata stessa che veniva a darle la buona nuova. Veniva tutta in fronzoli, fresca, rosea, ridente, mostrando le buccole che le aveva regalato el novizzo, vantando, col freddo egoismo dei felici, la buona ventura che l'era toccata e descrivendo in lungo e largo i suoi piani per l'avvenire.

Povera Gegia! E pensare che queste ragazze erano, da bimbe, men belle di lei. Pensare che suo padre, il quale allora l'amava, non si stancava di ripetere: — Come la mia figliuola non ce n'è una in tutta la parrocchia! — Adesso ella conservava ancora un pallido ricordo di quel suo profilo di vergine, conservava i suoi bei capelli biondi, i suoi grandi occhi bruni. Ma quegli occhi erano scemi dell'usato splendore, e giravano intorno null'altro esprimendo che una mestizia quasi rassegnata; ma le guancie avvizzite avevano ormai la tinta giallastra della cera. Nel suo complesso aveva il curioso aspetto di una bambina vecchia. La statura, la sottigliezza delle braccia, la curva appena visibile del seno, le avrebbero fatto dare tredici anni al più, ma guardandola in viso, specialmente se vinta dalla stanchezza ella chiudeva un istante gli occhi, si sarebbe detto: È una donna di trenta. Nel fatto, al momento di cui parliamo, non ne aveva che sedici.

Alla finestra

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