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DELLE ODI BARBARE. LIBRO I
ALL’AURORA

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Tu sali e baci, o dea, co ‘l rosëo fiato le nubi,

baci de’ marmorëi templi le fosche cime.


Ti sente e con gelido fremito destasi il bosco,

spiccasi il falco a volo su con rapace gioia;


mentre ne l’umida foglia pispigliano garruli i nidi,

e grigio urla il gabbiano su ‘l vïolaceo mare.


Primi nel pian faticoso di te s’allegrano i fiumi

tremuli luccicando tra ‘l mormorar de’ pioppi:


corre da i paschi baldo vèr’ l’alte fluenti il poledro

sauro, dritto il chiomante capo, nitrendo a’ venti:


vigile da i tuguri risponde la forza de i cani

e di gagliardi mugghi tutta la valle suona.


Ma l’uom che tu svegli a oprar consumando la vita,

te giovinetta antica, te giovinetta eterna


ancor pensoso ammira, come già t’adoravan su ‘l monte

ritti fra i bianchi armenti i nobili Aria padri.


Ancor sovra l’ali del fresco mattino rivola

l’inno che a te su l’aste disser poggiati i padri.


– Pastorella del cielo, tu, frante a la suora gelosa

le stalle, riadduci le rosse vacche in cielo.


Guidi le rosse vacche, guidi tu il candido armento

e le bionde cavalle care a i fratelli Asvini.


Come giovine donna che va da i lavacri a lo sposo

riflettendo ne gli occhi il desïato amore,


tu sorridendo lasci caderti i veli leggiadri

e le virginee forme scuopri serena a i cieli.


Affocata le guance, ansante dal candido petto,

corri al sovran de i mondi, al bel fiammante Suria,


e il giungi, e in arco distendi le rosee braccia al gagliardo

collo; ma tosto fuggi di quel tremendo i rai.


Allora gli Asvini gemelli, cavalieri del cielo,

rosea tremante accolgon te nel bel carro d’oro;


e volgi verso dove, misurato il cammino di gloria,

stanco ti cerchi il nume ne i mister de la sera.


Deh propizia trasvola – cosí t’invocavano i padri —

nel rosseggiante carro sopra le nostre case.


Arriva da le plaghe d’orïente con la fortuna,

con le fiorenti biade, con lo spumante latte;


ed in mezzo a’ vitelli danzando con floride chiome

molta prole t’adori, pastorella del cielo. —


Cosí cantavano gli Aria. Ma piàcqueti meglio l’Imetto

fresco di vénti rivi, che al ciel di timi odora:


piàcquerti su l’Imetto i lesti cacciatori mortali

prementi le rugiade co ‘l coturnato piede.


Inchinaronsi i cieli, un dolce chiarore vermiglio

ombrò la selva e il colle, quando scendesti, o dea.


Non tu scendesti, o dea: ma Cefalo attratto al tuo bacio

salía per l’aure lieve, bello come un bel dio.


Su gli amorosi venti salía, tra soavi fragranze,

tra le nozze de i fiori, tra gl’imenei de’ rivi.


La chioma d’oro lenta irriga il collo, a l’omero bianco

con un cinto vermiglio sta la faretra d’oro.


Cadde l’arco su l’erbe; e Lèlapo immobil con erto

il fido arguto muso mira salire il sire.


Oh baci d’una dea fragranti tra la rugiada!

oh ambrosia de l’amore nel giovinetto mondo!


Ami tu anche, o dea? Ma il nostro genere è stanco;

mesto il tuo viso, o bella, su le cittadi appare.


Languon fiocchi i fanali; rincase, e né meno ti guarda,

una pallida torma che si credé gioire.


Sbatte l’operaio rabbioso le stridule impòste,

e maledice al giorno che rimena il servaggio.


Solo un amante forse che placida al sonno commise

la dolce donna, caldo de’ baci suoi le vene,


alacre affronta e lieto l’aure tue gelide e il viso:

– Portami —, dice, – Aurora, su ‘l tuo corsier di fiamma!


ne i campi de le stelle mi porta, ond’io vegga la terra

tutta risorridente nel roseo lume tuo,


e vegga la mia donna davanti al sole che leva

sparsa le nere trecce giú pe ‘l rorido seno. —


Odi barbare

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