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DELLE ODI BARBARE. LIBRO I
ALESSANDRIA

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A GIUSEPPE REGALDI QUANDO PUBBLICÒ «L’EGITTO»

Ne l’aula immensa di Lussor, su ‘l capo

roggio di Ramse il mistico serpente

sibilò ritto e ‘l vulture a sinistra

volò stridendo,


e da l’immenso serapèo di Memfi,

cui stanno a guardia sotto il sol candente

seicento sfingi nel granito argute,

Api muggío,


quando da i verdi immobili papiri

di Mareoti al livido deserto

sonò, tacendo l’aure intorno, questo

greco peana.


– Ecco, venimmo a salutarti, Egitto,

noi figli d’Elle, con le cetre e l’aste.

Tebe, dischiudi le tue cento porte

ad Alessandro.


Noi radduciamo a Giove Ammone un figlio

ch’ei riconosca; questo caro alunno

de la Tessaglia, questa bella e fiera

stirpe d’Achille.


Come odoroso läureto ondeggia

a lui la chioma: la sua rosea guancia

par Tempe in fiore: ha ne’ grand’occhi il sole

ch’ a Olimpia ride:


ha de l’Egeo la radïante in viso

pace diffusa; se non quando, bianche

nuvole, i sogni passanvi di gloria

e poesia.


Ei de la Grecia a la vendetta balza

leon da l’aspra tessala falange,

sgomina carri ed elefanti, abbatte

satrapi e regi.


Salve, Alessandro, in pace e in guerra iddio!

A te la cetra fra le eburnee dita,

a te d’argento il fulgid’arco in pugno,

presente Apollo!


A te i colloqui di Stagira, i baci

a te co’ serti de le ionie donne,

a te la coppa di Lieo spumante,

a te l’Olimpo.


Lisippo in bronzo ed in colori Apelle

ti tragga eterno: ti sollevi Atene,

chete de’ torvi demagoghi l’ire,

al Partenone.


Noi ti seguiamo: il Nilo in vano occulta

i dogmi e il capo a la possanza nostra:

noi farem pace qui tra i numi e al mondo

luce comune.


E se ti piaccia aggiogar tigri e linci,

Bacco novello, noi verrem cantando,

te duce, in riva al sacro Gange i sacri

canti d’Omero. —


Tale il peana de gli achei sonava.

E il giovin duce, liberato il biondo

capo da l’elmo, in fronte a la falange

guardava il mare.


Guardava il mare e l’isola di Faro

innanzi, a torno il libico deserto

interminato: dal sudato petto

l’aurea corazza


sciolse, e gittolla splendida nel piano:

– Come la mia macedone corazza

stia nel deserto e a’ barbari ed a gli anni

regga Alessandria. —


Disse; ed i solchi a le nascenti mura

ei disegnava per ottanta stadi,

bianco spargendo su le flave arene

fior di farina.


Tale il nipote del Pelíde estrusse

la sua cittade; e Faro, inclito nome

di luce al mondo, illuminò le vie

d’Africa e d’Asia.


E non il flutto del deserto urtante

e non la fuga de i barbarici anni

valse a domare quella balda figlia

del greco eroe.


Alacre, industre, a la sua terza vita

ella sorgea, sollecitando i fati,

qual la vedesti, o pellegrin poeta,

ammiratore,


quando fuggendo la incombente notte

di tirannia, pien d’inni il caldo ingegno,

ivi chiedendo libertade e luce

a l’orïente,


e su le tombe di turbanti insculte

star la colonna di Pompeo vedesti

come la forza del pensier latino

su ‘l torbid’evo.


Deh, le speranze de l’Egitto e i vanti

nel tuo volume vivano, o poeta!

Oggi Tifone l’ire del deserto

agita e spira.


Sepolto Osiri, il latratore Anubi

morde a i calcagni la fuggente Europa,

e avanti chiama i bestïali numi

a le vendette.


Ahi vecchia Europa, che su ‘l mondo spargi

l’irrequïeta debolezza tua,

come la triste fisa a l’orïente

sfinge sorride!


Odi barbare

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