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DELLE ODI BARBARE. LIBRO I
DINANZI ALLE TERME DI CARACALLA

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Corron tra ‘l Celio fosche e l’Aventino

le nubi: il vento dal pian tristo move

umido: in fondo stanno i monti albani

bianchi di nevi.


A le cineree trecce alzato il velo

verde, nel libro una britanna cerca

queste minacce di romane mura

al cielo e al tempo.


Continui, densi, neri, crocidanti

versansi i corvi come fluttuando

contro i due muri ch’a piú ardua sfida

levansi enormi.


– Vecchi giganti, – par che insista irato

l’augure stormo – a che tentate il cielo? —

Grave per l’aure vien da Laterano

suon di campane.


Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,

grave fischiando tra la folta barba,

passa e non guarda. Febbre, io qui t’invoco,

nume presente.


Se ti fûr cari i grandi occhi piangenti

e de le madri le protese braccia

te deprecanti, o dea, da ‘l reclinato

capo de i figli:


se ti fu cara su ‘l Palazio eccelso

l’ara vetusta (ancor lambiva il Tebro

l’evandrio colle, e veleggiando a sera

tra ‘l Campidoglio


e l’Aventino il reduce quirite

guardava in alto la città quadrata

dal sole arrisa, e mormorava un lento

saturnio carme);


Febbre, m’ascolta. Gli uomini novelli

quinci respingi e lor picciole cose:

religïoso è questo orror: la dea

Roma qui dorme.


Poggiata il capo al Palatino augusto,

tra ‘l Celio aperte e l’Aventin le braccia,

per la Capena i forti omeri stende

a l’Appia via.


Odi barbare

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