Читать книгу Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni - Massimo d' Azeglio - Страница 10

CAPITOLO VII.

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La sala ove Malatesta avea costume di tener consiglio, ed accogliere chi veniva a visitarlo, che noi diremmo sala di ricevimento, era un gran stanzone verso strada, ornato di pitture a fresco del Francia e di Pietro Perugino: riceveva la luce da sei finestre, e sotto il parapetto d’ognuna sorgean di qua e di là due sedili di mattoni coperti d’una lastra di marmo; nel mezzo della parete in fondo era una specie di zoccolo, o basamento di legno nel quale stava fitta la bandiera di Malatesta, di qua e di là v’eran disposte a guisa di trofei molte sue armature, mirabili soprattutto per la tempra, e per la leggerezza, qualità necessaria onde le potesse indossare un uomo cotanto indebolito dalle infermità.

Era l’uso che ogni mattina a levata di sole i capitani di guardia alle porte della città mandassero a Malatesta uno de’ loro ufficiali, a riferirgli se vi fosse stato nulla di nuovo durante la notte, e ad intender gli ordini per la giornata. A quest’ora si trovavan costoro già tutti radunati nell’anticamera, e come appunto in quel frattempo eran cominciati gli spari dell’artiglieria del campo, s’eran affacciati alle finestre che guardano verso Ponte alle Grazie ragionando tra loro di questi rumori.

Non dubitando che, se vi fosse nulla di grave dovesse tosto giungere un qualche messo a darne l’avviso, badavano attenti ora dalla parte di S. Niccolò, ora dal Ponte se ne comparisse alcuno. Ma in tutta la piazza per quanto potea correr l’occhio, non v’era anima viva: pioveva, e fra il tempo, la solitudine, il gusto di far anticamera, e quel brontolamento cupo e lontano delle artiglierie era di quelle mezz’ore che mettono l’uggia addosso ad ognuno.

A un tratto ecco sboccare dal Ponte alle Grazie un frate di S. Marco che a vedere come menava la gamba per la melletta, si dovea dire che la tonaca poco gli desse impaccio.

I soldati di tutti i tempi e di tutte le nazioni (almeno così crediamo) hanno avuto sempre una decisa vocazione per dar la baja e farsi beffe del prossimo. Tra loro un frizzo costa alle volte una buona stoccata, perciò prima di parlare ci pensano; ma se incappano in uno che non sappia e non voglia rispondere agli scherzi cogli stocchi, allora lascia far a loro.... Tanto poco è vero che l’uomo sia per natura animale generoso.

Visto adunque appena quel benedetto Frate, tutti a ridere e schiamazzare.

—Ecco la nuova!—Ecco il corriere. Ecco il corriere della scomunica!—E il Frate avanti. Quando poi fu sotto alle finestre e che invece d’andar al suo viaggio infilò il portone, crebber le risa e l’allegrezza, e di più pensarono, per far ora intanto che Malatesta ci fa aspettare, e per passar la seccaggine, ci sollazzeremo a dar la baja a questo frate. Ma il frate poteva star alla barba a tutti loro poichè egli era il nostro amico Fanfulla.

Entrato in cortile, e veduto ragazzi di stalla che strigliavan cavalli sotto il portico, soldati di qua, archibusi e picche di là, e respirando quell’atmosfera soldatesca s’era sentito come ad allargare il cuore. Qualche risata alle sue spalle s’era bensì potuta notare, e qualche piacevolezza sulla sua tonaca gli era pur giunta all’orecchio: ma in quel momento, contento com’era e pieno del suo disegno, non si sarebbe volto se gli fosse scoppiata una mina alle spalle. S’aggiunga poi che, strada facendo, non aveva perduto il tempo, ed era venuto combinando un pezzo d’eloquenza, col quale potesse farsi onore, e degnamente esporre la sua domanda al capitano de’ Fiorentini; e questo lavorìo gli teneva troppo occupata la mente perchè potesse curarsi d’altro.

Giacchè siamo su questo discorso, faremo sapere al lettore che Fanfulla era sottoposto anch’esso a quella fatalità che sembra portar tutti gli uomini da qualcosa a pretender poco nell’arte che sanno e molto in quella che non sanno. Ed egli appunto che era buon soldato, pretendeva invece d’esser bel parlatore, soltanto perchè durante la vita fratesca a furia d’udir sermoni, di leggere libri d’ogni materia, conversar coi frati, e con quanti capitavano in convento, s’era mobiliata la memoria di qualche centinajo di frasi, di sentenze, di periodi bell’e fatti; ma mobiliata, s’intende, come può esserlo una bottega d’uno stipettajo o d’un rigattiere.

Salì le scale, entrò nell’anticamera salutando la brigata ed accostandosi all’usciere gli disse:

—In grazia, quando si possa, vorrei dire due parole a S. Mag.—

—Il vostro nome?—

—Fra Giorgio da Lodi di S. Marco.—

—Aspettate. Ma vi so dir che ci sarà tempo... vedete quanta gente è in anticamera.—

Fanfulla senza risponder altro si mise a sedere accanto ad una tavola, e v’appoggiò un braccio, distese le gambe, e dimenando piano piano la punta de’ piedi col mento all’aria, senza guardar in faccia a nessuno, rimase tutto assorto nel pensiero della sua arringa. Non era malcontento tutt’insieme del modo col quale l’aveva combinata, ma avrebbe ancora voluto farvi entrare qualche parte di filosofia, come scrive di aver fatto il Cellini, quando parlava con Paolo III, del modo di tingere un diamante: ognuno s’avvede quanto in ambedue i casi la filosofia venisse a proposito; e tanto più quella di Fanfulla che consisteva in qualche idea di fisica, vera o falsa non importa, ed in qualche sogno d’astrologia.

Mentre egli durava questa fatica, gli ufficiali che eran prima affacciati, avevan volte le reni alle finestre, squadrato ben bene il Frate, e trovandolo d’altra faccia e d’altri modi che non s’aspettavano, si guardavano in viso l’un l’altro.

—Che te ne pare? diceva uno, di quella faccia di servo di Dio? non istarebbe male sul collo d’un birro.—

—Diavolo! diceva un’altro, senz’un’occhio!... un taglio in faccia! bisogna dire che quand’hanno a creare il priore, si dilettino a far volar le scodelle, questi reverendi.—

—E’ si sarà azzuffatto colla gatta in refettorio....—-

—O sarà cascato per la scala di cantina.—

—O avrà creduto che qualche marito volesse chiudere un occhio, ed il marito invece l’avrà fatto serrare a lui.—

E nel dir codeste pazzie, con molto sghignazzare, tutti avean gli occhi addosso a Fanfulla.

Questi dapprincipio non badava loro nè punto nè poco, come colui che aveva un pensiero importante pel capo che l’occupava, e che non essendo mai stato uso a sentirsi uccellare, non s’immaginava vi potesse essere chi si prendesse tanta sicurtà con esso lui. Pure alla fine messosi in sospetto e dato retta un momento conobbe che l’avean proprio colla persona sua: girando l’occhio vide non esservi altro frate in anticamera; sentì quel certo moto del pericardio che si prova quando salta la stizza; ma fresco ancora del sermone di Fra Benedetto, e dei propositi formali di non tornare alle usanze antiche, disse in cuor suo, soffiando pure un poco, e raccogliendo le gambe sotto la tonaca:

—Animo, Fanfulla, non ricominciar da capo colle tue!....—

Ed abbassati gli occhi s’ingegnò di prender un’aria modesta, che stava bene a quel suo viso, come starebbero bene due baffi da granatiere sul volto d’una Madonna di Raffaele.

Ma la beffa, il ridere, e le parole di scherno seguitavano: in tutta la persona di Fanfulla non appariva altra dimostrazione di ciò che provava nel suo interno, fuorchè un dimenar frequente delle ginocchia che andavano in su e in giù col moto di un asinello che trotti: ma dentro il sangue gli faceva come l’acqua d’una pentola che stia per levare il bollore.

Sul suo capo stava fisso nel muro alto cinque braccia da terra un di quegli oriuoli che si fanno movere coi contrappesi, e questi penzolavano appunto a quattro dita dal naso di Fanfulla, che li vagheggiava, come uno scolare vagheggia un grappolo d’uva al quale non può aggiungere, e diceva tra i denti:

—Guardate se non pare che mi vengano sotto mano per dispetto, e per uccellarmi anch’essi, ora che sanno che fo il santo e non li posso adoperare! Fosse dieci anni fa! Cari i miei piacevoli, vedreste come ve ne manderei un pajo sul groppone ad insegnarvi la creanza.—

E mentre con un sospiro dava a conoscere quanto a quel punto, l’impegno di far il santo gli riuscisse malagevole, la sua mano quasi da se si sollevava verso que’ bei cilindri di piombo, che avrebbero potuto servir così mirabilmente di projettili in quella circostanza, e gli accarezzava facendoli girar tra le dita. Che tentazione tremenda!.... ma il lettore non si sgomenti, Fanfulla n’uscì vincitore.

I suoi avversarj intanto fatti più sicuri dal suo silenzio seguitavano: la cosa cominciava a puzzar d’indiscrezione. Un soldatello giovanetto smilzo e sbarbato volle anch’esso dir la sua sull’occhio del Frate; che sentendosi pungere da un pazzarellino di quel taglio non la potè mandar giù. Balzò in piedi, ridivenuto a un tratto il Fanfulla di una volta, e movendosi lentamente verso il gruppo degli ufficiali, disse col modo di chi proprio n’ha piene le tasche:

—E’ vi dovrebbe ricordare, cari miei signori, di quel bel proverbio, che ogni bel giuoco dura poco; e questo se non isbaglio principia a durare assai..... E voi bel zittello (volto al giovanetto che avea parlato l’ultimo) ingegnatevi di campare e di mettervi in corpo un po’ di ben di Dio, che a voler far il soldato con quelle spalle d’attaccapanni, vi vedo e non vi vedo, tanto mi parete tisicuzzo, e tristanzuolo.... e del resto poi sappiate che quest’occhio me l’ha fatto schizzare la punta d’una picca spagnuola alla battaglia di Ravenna; quando a voi la balia tirava su le brache...., che questa tacca che porto nella memoria, la toccai per voler difendere quel valoroso signore del re Francesco alla giornata di Pavia, quando la balia dava a voi la pappa e le sculacciate.... che queste due dita sono state seminate a Marignano per opera d’uno spadone a due mani d’uno Svizzero d’Undervald, quando a voi la balia.... Ma l’ultima impresa di questa benedetta balia se la disse Fanfulla, noi la lasceremo nella penna, per brevità.

—Ora, seguiva, per non tenervi a disagio, vi dirò tondo come la bocca d’un pozzo, che se non fossi frate, ed avessi ancora la mia pelle d’una volta, già v’avrei chiamati qui fuor dell’uscio per dirvi una parolina come s’usa tra soldati: ma trovandomi con questa tonaca indosso, almen per ora, vi pregherò di farmi tanta finezza di lasciarmi pe’ fatti miei, che non son uso ad essere il trastullo delle brigate, e la pazienza[17] l’ho soltanto sopra la tonaca.

A quest’intemerata costoro (ed il giovanetto più degli altri) rimasero goffi ed isconfitti, come accade sempre a chi cerchi di sonare, e invece sia sonato. Presero il partito che deve prender sempre in simil caso chi ha un filo di giudizio, si diedero il torto, scusandosi il meglio che poterono, ed il solo di tutti loro che non avea mai aperto bocca sin allora, ed era uomo già innanzi cogli anni, disse ridendo:

—Quando stavo cogli spagnuoli ho imparato il proverbio che tal va.... o tal cree tosar, y vuelve trasquilado[18].

Con questa barzelletta la cosa si volse in riso. Ma lo sbaglio preso destò in tutti gran curiosità di saperne più in là sul fatto d’un uomo così strano. Lo pregarono però umanamente a voler palesare chi egli fosse, ed alcuni, che s’eran trovati ai fatti d’arme accennati da lui, instavano più degli altri attorniandolo.

Fanfulla, come tutti gli uomini attempati e che n’hanno passate di molte alla vita loro, amava narrare e parlar di sè: onde senza farsi pregare disse di dove egli era, nominò i suoi parenti, e quando finalmente, dopo aver detto il suo nome aggiunse:

—Però tra soldati fui sempre chiamato Fanfulla...—

Scoppiò un Oh! generale di maraviglia e d’allegrezza; chè in quel tempo insino i fanciulli sapevano della famosa disfida vinta dagl’Italiani ventisei anni innanzi, e conoscevano i nomi degli uomini d’arme che avevano combattuto in essa, i quali tra soldati erano tenuti in grandissimo onore.

Fra i caporali che si trovavan costì ve n’era uno che avea militato nell’esercito spagnuolo sotto Consalvo: era stato spettatore del combattimento a Barletta, ed avea nome Boscherino. Aperse le braccia, le gittò al collo di Fanfulla, dicendo:

—E chi diavolo t’avrebbe riconosciuto con questo fodero bianco e nero.... Fanfulla frate! Oh! oh! oh! Prima di morire posso sperar di vedere il Soldano cardinale! Ma abbi pazienza, lasciatelo dire, stavi meglio colla daga sulle reni... E così non mi riconosci?... Si vede bene che se non ho mutato pelle ho però mutato pelo. Boscherino?.... ci siamo invecchiati, ma ancora le gambe ci portano.—

—Ci portano anche troppo, almeno parlo per me, rispose Fanfulla raffigurando l’antico camerata e facendogli festa, se non mi portassero tanto me ne sarei stato zitto e quieto in convento; e quando c’entrai, fanno due anni, mi pensavo che mi fossero usciti per sempre i ruzzi dal capo, chè con tanti malanni, e quell’ultima nespola del sacco di Roma soprammercato, mi sentivo crocchiare come un tronco di lancia fesso... Che vuoi? con due anni di quiete e ogni giorno tavola imbandita, son tornato polledro.—

E qui cominciò tra i due amici un dialogo tanto pieno di ti ricordi di questo, ti ricordi di quest’altro, che non la finivano più. Disse alfine Boscherino dopo aver rammentati molti antichi compagni:

—E quel povero Ettore! Ti ricordi? Quel pazzo malinconico, si pensava esser al tempo di Tristano e della regina Isotta!... far quella fine! Ma se l’è proprio cercata col lanternino... Non voleva bere, figurati! Io glielo dicevo, quando lo vedevo con quella faccia d’ammazzato.... Ettore, andiamo da... da... come diavolo avea nome quell’oste del Sole? Ah! mi ricordo, Arsenico. Andiamo da Arsenico, gli dicevo: aveva un trebbian di Dio, di quello che ci si schioppa la frusta.... che vuoi, era come dirgli vola.... E tu non bere, dicevo io, e te n’avvedrai.... e difatti non dubitare che non mi ha voluto far bugiardo. E poi, a chi dich’io? tu eri con lui nella compagnia, lo sai...—

—Lo so anche troppo, interruppe Fanfulla riprendendo la faccia modesta e compunta, non me ne parlare. Io, pazzo da catena, fui allora causa di tutto il male.... io indussi in errore quella povera donna....—

—Come? come?—domandò con premura Boscherino.

—Oh quanto poi al come, rispose l’altro, già t’ho detto che di tutto questo fatto non ne voglio discorrere. Già son cose vecchie, ed al fatto non c’è rimedio.—

—Sia per non detto, rispose sorridendo con un po’ di stizza Boscherino. E di quella Saracina se ne può discorrere? Come avea nome quella bella moretta, con que’ panni attorcigliati in capo?—

—Zoraide, rispose Fanfulla. Quanto a questa te ne dirò tanto che sarai contento: ti ricordi al principio del pontificato di Giulio II quando il Valentino era sostenuto in castello?.... Bene, allora....—Ma qui l’usciere fatto un cenno a Fanfulla, che tutto infervorato in sul raccontare non gli dava retta, se gli accostò, e tiratolo per la manica gli disse, alzandogli un panno d’arazzo che pendeva avanti alla porta della sala di Malatesta:

—Entrate Fra Giorgio.—

Con ciò fece due mali: Boscherino e i suoi compagni rimasero, come qualcun altro, colla voglia in corpo di sentir che cos’era stato di Zoraide; ed il buon Fanfulla, al quale per la quistione avuta con que’ caporali, e pe’ discorsi fatti in appresso era uscita di mente la sua parlata, non ebbe tempo a riordinare le idee e prepararle a mostrarsi con un po’ di grazia. Messo all’improvviso alla presenza del capitano generale gli accadde all’incirca come accadrebbe ad un cocchiere che, guidando quattro polledri bizzarri, avesse, o per sonno o per sbadataggine, lasciato loro le redini sul collo; se a qualche improvvisa cagione quelli si cacciano di carriera, gli tocca a dipanar mezz’ora prima di giungere a far giocare i freni; e nella confusione, credendo tirar a destra, tira a manca, e se una gran fortuna non l’ajuta è certo di rompere il collo.

Ma Fanfulla fece esperienza che le gran fortune capitan di rado. Sentendo che la sua arringa gli era andata in fondo alle calcagna, si fece avanti col cuore d’un uomo che dovesse andare a combattere disarmato. Pure, fatta di necessità virtù, e senza perdersi d’animo interamente, salutò Malatesta con modo ossequioso ma disinvolto, e disse, tossendo così un poco ogni tanto per acquistar tempo:

—Magnifico capitano, s’io ho preso il disagio di venirvi.... dirò meglio, s’io son venuto a tenervi a disagio, n’è cagione un desiderio che vi parrà forse disforme da questi panni ch’io vesto; ma s’egli è vero ciò che affermano gli astrologi, non poter l’uomo sottrarsi a quell’influsso col quale le stelle, o vogliam dire i pianeti, dan norma sin dal suo nascere, e conducono con immutabil legge gli atti e le operazioni della vita sua.... ovvero, come insegnano i filosofi ed i fisici, non potersi cavar buon frutto dal legare a un giogo le tigri cogli agnelli, chè ogni animale ha a fare il verso suo, e non è se non stoltezza grandissima il voler ch’egli vada contro la sua natura, e chi l’intende altrimenti, come dicon gli uomini volgari, dà a guardar la lattuga al papero.... e per questo, com’io dicevo,.... son venuto.... perchè conoscendomi ancora molto atto, per amore della robusta complessione mia, ad esercitare quest’arte per la quale sola m’hanno inclinato i cieli, e visto il bisogno che in queste strettezze può avere questa città, d’uomini che conoscano la nostra professione,.... che di detta professione se ne troverà talvolta di più esperti che non son io, ma non mai chi l’abbia esercitata con maggior fede.... e forse s’io non temessi di darvi noja potrei anche mostrarvi che quanto all’esperienza.... e vi potrei narrare....—

Malatesta dava retta a Fanfulla, e l’avea fatto passare prima di molt’altri, in grazia dell’abito di S. Marco che avea indosso, chè allora in Firenze bisognava aver molti rispetti a questo convento; ma vistolo poi con quel viso che a dir il vero aveva un po’ del pazzo, ed accorgendosi da quella sua strana filastrocca ch’egli doveva averne qualche ramo, non ebbe tanta pazienza che lo lasciasse venir alla conclusione, e, per levarselo dinanzi, gli tagliò la parola dicendogli, con voce nella quale era minor cortesia di quel che fosse nelle espressioni:

—Per esser voi di S. Marco, ed anche per la persona vostra, farò molto volentieri ove possa.... quando però sappia quello che volete.... qual è questa vostr’arte? che ancora me l’avete a dire.... forse siete il padre cerusico del convento, e volete adoprarvi pe’ nostri feriti?.... Ve ne saprò il buon grado....—

Fanfulla mezzo in collera disse tra denti:

—Oggi è il giorno che nessuno m’ha ad intendere.—

Poi ad alta voce:

—Io vi servirò molto bene, se voi volete, a darne delle ferite, e non a medicarle... e, per finirla in una parola, sappia la V. Magnif: ch’io son Fra Giorgio da Lodi adesso, ma una volta ero Fanfulla da Lodi, e son per ridiventarlo quando che sia, basta che la medesima si voglia servir di me, e spero di farle vedere, che due anni di convento non m’hanno tanto mutato ch’io non sia ancor buono da qualcosa.... ed ecco qui (traendosi di petto un foglio) ecco l’attestato del sig. Prospero Colonna.... e poi credo che la V. Magnificenza non mi senta mentovare per la prima volta.—

Esclamò ridendo Malatesta:

—Oh impiccato, chè nol dicesti al primo tratto senza avvilupparmi la Spagna con tante novellate di fisici e d’astrologi, che mi parevi un predicatore. Oh quand’è così, e che l’animo tuo sia riprender la lancia, io molto volentieri t’accetto, e t’adoprerò... e, a pensarla bene, credo abbi ragione, chè dovrai, da quel che ho udito, riuscir meglio per uomo d’arme che per predicatore.—

Letto poi il benservito di Prospero Colonna, disse restituendoglielo:

—E’ non bisogna... chè senza questo già mi sapevo che sei un valentuomo.—

Malatesta mosso dalla novità del caso, volle però conoscere per quali accidenti un così rinomato soldato fosse andato a finir frate, e Fanfulla molto volentieri gli soddisfece. Udito ch’egli ebbe il tutto, si volse ad Amico d’Arsoli capo d’una delle bande di cavalli ch’erano a servigi de’ Fiorentini, e che si trovava costì con altri ufiziali, dicendogli:

—In mio servigio, sarete contento torre costui nella compagnia.... Ma a proposito, dico io.... Fanfulla, come si sta ad arnese ed a cavallo soprattutto? che non vorrai cominciar ora a far il mestiere a piede, suppongo.—

—In arme, rispose Fanfulla, sto bene.... quanto poi al cavallo, a dir il vero è un po’ sulle spalle, ma se piacerà a Dio potrà accadere, vedendoci in viso con uno di questi tedeschi di fuori, ch’io me ne procacci uno migliore, e glielo paghi col ferro della lancia.—

—Al nome di Dio, rispose Malatesta. A ogni modo avrai una paga subito, se mai t’occorresse pe’ tuoi bisogni: ora va, prendi le tue armi, e torna, che presto darò da fare a ciascuno.—

Fanfulla uscì che non capiva nella pelle per l’allegrezza, ed in un lampo fu in convento.

Colà era già sparza la voce che Fra Bombarda, come lo chiamavano, se n’andava, e sapendone tutti anche la cagione, molti frati, e laici eran pel chiostro curiosi di vederlo partire trasformato in uomo d’arme. Esso appena giunto avea sellato e condotto in cortile il suo cavallo: salito poscia in cella, s’era messe indosso ed accanto le sue armi, e sulla corazza a guisa di sopravvesta, la pazienza di saja nera dell’ordine di S. Domenico che la cintura della spada gli teneva ristretta alla vita. Per conservar del frate quanto potesse, tolse inoltre la corona, e l’appese ad un suo grandissimo pugnale che portava dal destro lato, ed in quest’ordine s’avviò alla cella di Fra Benedetto, chè non gli parve onesto partirsi senza toglier commiato. Udite modestamente le sue ultime ammonizioni, e baciatagli la mano scese in cortile ove trovò i frati che l’aspettavano per dargli la ben andata. Dopo aver salutato gli uni, abbracciato gli altri e stretta la mano a parecchi (questi non furono i più fortunati; tra ch’egli era gagliardo, e tra ch’egli aveva il guanto di ferro, fu lo stesso diletto che sentirsi prender le dita da una tanaglia) si dispose a salire in sella.

Ma s’egli avea sperato che anche al cavallo fossero tornati gli spiriti marziali, dovette presto accorgersi che avea fatto torto alla sua costanza.

Anticamente, non c’era verso di tenerlo fermo alla staffa, ed appena sentiva l’uomo in sella, partiva come uno strale. Ora in vece lasciò che il suo signore salisse molto a suo bell’agio, senza far altro moto che piegarsi tutto sul lato manco ove sentiva il peso. Vi volle un pajo di discrete spronate per farlo muovere, e ve ne vollero delle più gagliarde, affinchè s’avviasse al portone che mette in Piazza, invece di avviarsi alla stalla, come procurava ostinatamente di fare malgrado la briglia che gli torceva il capo alla parte opposta. Pure, come a Dio piacque, dagli, ridagli, tira, alla fine infilò l’androne ed andò al suo cammino, mentre Fanfulla, non restando di punzecchiare, s’andava volgendo salutato, e salutando, finchè potè vedere ed esser veduto.

Pochi giorni dopo, circa alle 6 ore di notte, egli girava per Firenze alla testa di sei alabardieri, cercando e ricercando tutte le strade e tutti i chiassi del quartiere di s. Giovanni, e facendo ciò che ora si direbbe la pattuglia o la ronda, e che allora veniva detta la scolta. Era un tempaccio rotto, come spesso ne porta il novembre a Firenze; freddo, vento, ed acqua a catinelle. Fanfulla non se ne curava; e, per intrattenere la sua brigata, che era di soldati giovani di nuova leva, (anche pensando d’esser egli cagione che facessero un po’ di bene) faceva dir loro la corona così strada facendo. Egli innanzi il primo, e gli altri dietro alla sfilata muro muro per bagnarsi meno.

Non creda però il lettore che i soldati d’allora fossero altrettanti cappuccini, poichè nemmeno i compagni di Fanfulla non pregavano se non pel timore del manico d’un gran partigianone ch’egli aveva in ispalla col quale avea già fatto l’atto di voler spolverare le spalle d’uno di loro che s’era immaginato di far l’ésprit fort.

Persuasi dunque da quest’argomento che, se le regole della versificazione l’avessero permesso, si poteva benissimo includere cogli altri in quel bel verso de’ trattati di logica

Barbara, celarent, dario, ferio, baralipton

camminavano già da un’ora con quel diletto che conosce chi ha dovuto talvolta portar il nome in una brutta nottata d’inverno a sette o otto corpi di guardia.

Alla fine voltando la cantonata d’Or S. Michele per andar in porta Rossa, videro, al lume di un torchio che avean con loro, come un viluppo di panni in terra vicino al muro; perchè accostatisi e considerato attentamente s’accorsero che era una donna accovacciata: per difendersi dall’acqua s’era tirati i panni in capo, e a veder com’era tutta inzuppata e lorda di fango si capiva che doveva essere costì da un pezzo. Se fosse stata a giacere si sarebbe potuto sospettarla vittima di qualche violenza, ma era seduta.

—Che diavolo.... che domin sarà—disse Fanfulla fermatosi co’ suoi uomini a considerarla.

—Qualche pazza fuggita—disse uno.

—Pare una figura dell’inferno di Dante—disse un altro che voleva far il letterato.

—Fosse la notte di S. Giovanni, soggiunse un terzo, si potrebbe credere fosse... avesse a essere...—

—Sì proprio! una strega! rispose sorridendo con disprezzo l’ésprit fort della compagnia, non vedi che non ha il piede di capra!...... ignorante che tu se’!—

—Vediamo insomma—disse Fanfulla, e fattosele dappresso le diceva:

—Quella giovane!... Ohe, quella giovane, quella donna! dico a voi! Ohe.—

Ma l’altra non si movea. Ripetè ancora due o tre volte la sua chiamata, poi, sollevando i panni che la nascondevano, la prese pel braccio, la scosse, ed essa alzando allora lentamente il capo mostrò un viso che si capiva dover essere stato bello; ma in quel momento appariva affilato e livido come quello d’un cadavere. Gli occhi spalancati, ma stravolti e spenti, s’affissavano sugli astanti senza mostrar di vedere. In grembo aveva un bambino di poco tempo tutto ravviluppato in una coperta di lana; dormiva riposato, con certe gote tonde tonde tutte latte e sangue, perchè la madre facendogli tetto colle braccia e col capo, era riuscita a difenderlo dall’acqua e dal freddo.

Tutto a un tratto la meschina, come svegliandosi e riscotendosi da quel torpore, si scosse, ed il primo moto fu stringersi al petto il bambino, ricoprendolo colle mani e co’ panni, mentre Fanfulla le diceva:

—Oh! che domin fate voi qui a quest’ora, a codesto modo? Animo, su, alzatevi.... che è stato? che v’è succeduto?.... diteci dove state di casa, vi ci meneremo....—

—Dove sto di casa? soggiunse la giovane dando in uno scoppio di pianto, io non ho più casa.... eccola, casa mia è questo fango.... questo è il mio tetto... la culla di questo povero figlio mio sventurato.—E così dicendo stampava sulla bocca al fanciullo certi baci disperati che lo destarono; e svegliarsi e cacciarsi a piangere fu tutt’uno.

—Bel gusto di svegliare e far piangere quel povero innocente, che non ci ha che far niente, disse Fanfulla, che alla fine aveva poi buon cuore, come l’hanno in genere tutti gli uomini valorosi, ed un po’ latini di mano, per un curioso capriccio della umana natura.

—Ma non avete parenti, marito, padre... madre almeno?.... male che vada, madre se non altro l’abbiamo tutti.—

E la donna piangeva sempre più forte senza dar altra risposta.

—Oh insomma, disse Fanfulla, qui ci vuol altro che piangere e disperarsi; è notte, piove, e fa freddo, e questo fanciullo non sarebbe mai vivo domattina, onde levatevi di qui; al coperto intenderemo il fatto.... andiamo.—

E con amorevoli parole, usando così pure un poco di forza, sollevò di terra la donna, e s’avviò con essa a lento passo non restando di reggerla e confortarla, e portandole alla fine anche il bambino, che faceva un bel vedere in collo a Fanfulla, finchè l’ebbe condotta al palazzo de’ Signori nelle camere terrene, occupate dalla guardia del portone, ove almeno non piovea, e v’era anche acceso un buon fuoco.

Colà appoco appoco, rasciutta e ristorata alquanto, cominciò la donna a parlare. Sul primo stava come in sospetto, vedendosi attorno molti soldati che la consideravano senza cerimonie, nè tralasciando pur anche ognuno di dir ciò che gli veniva bene sul fatto di essa: ma Fanfulla, accortosi che quell’investigazione e que’ discorsi l’offendevano, li fece ritrarre in una stanza vicina, parte con buone parole, parte mostrando di adirarsi, e di voler usare quel tal argomento, accennato di sopra, che i maestri di logica hanno scordato di mentovare.

Non sapeva perchè, ma sentiva premura per quella sconosciuta, e non è cosa che non avesse fatto per farle piacere: la donna anch’essa, rassicurata un poco e rincorata dal buon cuore che traspariva dai modi un po’ ruvidi, è vero, ma pure amorevoli del vecchio soldato, si lasciò persuadere ad aprirsi a lui, e raccontargli le sue vicende. Ma considerando che questo racconto riuscirebbe per avventura interrotto e mal connesso, quale si dovrebbe aspettare da una persona posta in tanta agitazione d’animo, e confusione di pensieri, crediamo bene di tralasciarlo: essendo però necessario che il lettore sappia chi era costei, e conosca i suoi casi, ci giova per questo riprender le cose indietro un po’ alla lontana, e riferir molti particolari appartenenti alla famiglia di Niccolò, ai quali non abbiam fin ora saputo trovar luogo nel nostro racconto.

Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni

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