Читать книгу Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni - Massimo d' Azeglio - Страница 4

CAPITOLO PRIMO

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I fatti che stiamo per narrare accaddero circa il tempo in cui Firenze era assediata dall’esercito di Carlo V, il quale per mandare ad effetto il trattato di Barcellona conchiuso con Clemente VII, voleva costringere i Fiorentini a sottomettersi al dominio de’ Medici.

Il popolo di Firenze negava di riceverli pure come privati e si difendeva, fatto animoso dalla memoria di que’ Medici stessi tanto facilmente cacciati nel 1527; dalle profezie di fra Girolamo Savonarola; dal desiderio del viver libero; dall’armi e dalle fortezze ond’era munito per cura della parte detta de’ Piagnoni, i quali s’avvedevano non esser l’Imperatore ed il Papa per contentarsi che i Medici tornati in patria cogli altri sbanditi Palleschi vi stessero quali privati cittadini, ma sotto tal modesta domanda aver in animo di farneli signori.

Era una mattina sul finir d’ottobre dell’anno 1529, e l’alba pareva penasse più del solito a comparire, penetrando a stento la densa nebbia che copriva Firenze. Cadeva una pioggia fitta, cheta e congelata, che quasi si poteva dir neve, e per le strade, tranne qualche soldato, e le compagnie degli uffiziali di notte che tornavano in Palagio intirizziti, serrati ne’ mantelli, co’ becchetti de’ cappucci avvolti intorno al viso, non s’incontrava anima viva.

Le porte e le finestre tutte chiuse, le imposte serrate, mostravano che la maggior parte de’ cittadini era ancora immersa nel sonno. S’andavano aprendo le chiese, ma non vi si trovava se non gli scaccini occupati a spazzare, e qualche sagrestano attendendo a preparar gli altari.

In S. Marco soltanto, de’ frati Domenicani, le campane che suonavano a morto da un’ora innanzi giorno avean già radunato un piccol numero di fedeli.

L’interno di questa chiesa non era ornato in quel tempo dalle colonne d’ordine composito, e dagli altari che v’eresse poi Gian Bologna, ma si conservava semplice e severo quale fu edificato per opera di Cosimo il vecchio.

Davanti all’altar maggiore, tra quattro grossi candellieri di ferro, era posata in terra una bara, nella quale giaceva il cadavere d’un giovane che mostrava non passare i venticinque anni: tra le sue mani giunte sul petto era acconcio un crocifisso, ed il suolo, come pure il cataletto sparsi, secondo il costume di Firenze, di foglie e di fiori di melarancio. Sul guanciale che gli reggeva il capo erano due candele benedette accese, colle quali i devoti usavano segnare il defunto.

Quantunque avesse indosso l’abito di S. Domenico, si poteva supporre che gli fosse stato posto per divozione soltanto dopo morto, ma che non l’avesse usato in vita: e ciò che lo faceva credere era una spada ed una rotella col giglio rosso in campo bianco (impresa del comune di Firenze) che erano appese a’ piedi del defunto.

Non essendo ancora uscita la messa, un solo candelliere ardeva. La sua luce rossiccia illuminando un gruppo di persone che erano state le prime a giungere, e pregavano in ginocchio raccolte intorno al cadavere, lumeggiava le figure più vicine (come soventi usò Rembrandt) con frizzi vibrati di luce, la quale cadendo sempre più debole sugli oggetti a misura che si trovavan più lontani, finiva perdendosi in fondo alla chiesa in una totale oscurità. In alto soltanto le tenebre venivano diradate dai gran finestroni della volta, i quali cominciavano a potersi discernere per la tinta pallida e cilestrina che veniva nascendo col giorno sulle invetriate.

Non passava minuto senza che a uno, a due, a tre per volta non entrassero uomini che ai passi gravi, al suonar delle stellette degli sproni, ad un luccicare ottenebrato di corsaletti e giachi si conoscevano per soldati. Venivano avanti e giungendo alle spalle di chi si trovava già in chiesa posavano a terra il calcio o della picca, o della ronca, o di un grosso archibugio, chè tutti avevano l’una o l’altra di queste armi, e rimanevano con viso mesto e contegno tutto raumiliato.

Poco stante comparve, accompagnato da venti uomini ben armati, il Gonfalone del Leon d’oro del quartiere di S. Giovanni. Era una bandiera quale usa la fanteria anche in oggi, con suvvi dipinto un leon d’ oro in campo bianco. L’uomo che la portava si fermò a metà della chiesa, e vi rimase, messo in mezzo da’ suoi.

Crebbe così a poco a poco la folla, serrandosi intorno al feretro ed al gruppo che vi stava dappresso, il quale mostrava essere composto de’ più stretti parenti del defunto.

A due passi da’ suoi piedi era un vecchio molto innanzi cogli anni. Aveva indosso il lucco, abito usato nella repubblica fiorentina, dalle persone gravi specialmente, che era una vesta di saja nera foderata di pelli, sparata dinanzi e dai lati dove si cavan fuori le braccia, ed increspata in alto ove s’affibbia alla gola: in capo il cappuccio, composto di un cerchio di borra coperto di panno, e si chiamava il mazzocchio: una parte dell’istesso drappo cadeva a guisa di pendone sull’orecchio sinistro ed era detta la foggia; il becchetto poi era una striscia che andava sino a terra, si ripiegava sulla spalla destra e spesso s’avvolgeva al collo.

L’aspetto di questo vecchio, largo di spalle, grande della persona, era valido e robusto. Gli stava ancor sulle guance quella tinta vegeta che nasce da un’ottima complessione, non mai logorata da vizj.

Nella barba, che era lunga e folta, e nei pochi capelli che uscivano di sotto il cappuccio, non era pelo che non fosse bianchissimo, le sopracciglia sole conservavano ancora in parte il color bruno: ed una frequente contrazione di muscoli che le avvicinava contribuiva a dare a’ suoi occhi neri una molto fiera guardatura.

Il nome di questo vecchio era Niccolò di ser Cione, di ser Lapo de’ Lapi, di famiglia popolana, uno de’ capitudini[2] dell’arte della seta, il quale poteva vantarsi d’essere giunto ad 89 anni, chè tanti ne aveva, sempre integro, sempre amante della patria e dello stato popolare, a pro del quale avea messo in molte occasioni la persona e l’avere. Ma il vantarsi di tal modo di vivere neppure gli sarebbe caduto in pensiero, tanto era nella natura sua, e pareva a lui il solo possibile.

Tra i primi ed i più devoti seguaci di Fra Girolamo Savonarola mentre viveva, lo piangeva morto, venerandolo come un martire; studiando di osservare in ogni sua azione ed in ogni tempo, senza aver rispetto a cosa del mondo, le severe massime del frate, le quali, dobbiam confessarlo, lo portavano talvolta a convertire la mansueta legge del vangelo in una legge tirannica ed impraticabile.

Ser Cione, padre di Niccolò, s’era trovato intinto nella congiura, che diretta da Rinaldo degli Albizzi, riuscì a cacciar per un anno, di Firenze, Cosimo, detto Padre della Patria, onde al ritorno di questi andò con molti altri banditi a finir la vita in esiglio.

Niccolò, nato in una terra di Puglia, ov’era il confino del padre, testimonio della sua miseria negli ultimi anni, e della morte oscura, circondata da tutti i travagli dell’esiglio, avea colle prime impressioni dell’infanzia concepito, quasi fatale necessità, un odio orrendo contro i Medici e le parte Pallesca.

Come poi mettesse d’accordo quell’odio col vangelo che professava, lo potrà intendere chi sa quale sia la logica degli uomini di parte.

Dopo molt’anni gli era venuto fatto di tornare a Firenze, Avea riaperto il fondaco del padre, e fattovi grossi guadagni, coi quali soccorse la città nel 1494, quando per la calata di Carlo VIII, e per la dappocaggine di Piero de’ Medici, lo stato di Firenze corse così grave pericolo. In quell’occasione s’era visto quanto il popolo minuto, i lavoratori di seta, e tutti gli operai in genere gli fossero divoti, chè nella notte antecedente al giorno in cui Pier Capponi stracciò i capitoli in faccia a Carlo, n’ebbe a sua posta più di seimila.

Quest’affetto della moltitudine, nato dalla riverenza che ispirava la sua virtù, dal saperlo amatore sincero e costante del ben pubblico, che in lui non era mai stato pretesto onde cercar l’utile privato, s’era sempre fatto maggiore, e quando i Medici tornarono nel 1512, il solo timore dell’opinion pubblica era bastato a salvarlo dalle persecuzioni. La sua fama sola bastò nell’istesso tempo a preservarlo dalle lusinghe e dalle seduzioni colle quali la parte Pallesca mai non cessava d’adescare i suoi avversarj; e dal 12 al 27, anno dell’ultima cacciata dei Medici, fu tenuto bensì in sospetto da questi, ma pur lasciato stare, e dagli amatori dello stato popolare considerato come uno de’ loro capi, nel quale, più che in ogni altro, ponevan speranza, ove nascesse occasione favorevole alla libertà.

L’amicizia poi che l’avea unito sì strettamente a Fra Girolamo, l’osservar con fedeltà sì scrupolosa le sue massime, e soprattutto la fede cieca che prestava alle sue profezie, facevano, per dir così, sopravvivere in suo favore tra il popolo quella specie di culto che avean professato pel celebre Domenicano. Gl’istessi frati di S. Marco l’aveano in gran concetto, lo tenevano come uno dei loro, ed avean per le sue parole quasi altrettanta deferenza, quanta ne aveano avuto già per quelle del Savonarola.

Due anni prima dell’epoca di quest’istoria, quando per la partenza del cardinal di Cortona, e d’Ippolito e d’Alessandro de’ Medici, Firenze tornò a reggersi a popolo, s’era adoperato con Niccolò Capponi e Filippo Strozzi onde salvar la città che ondeggiava travagliata da tanti umori, da tante parti diverse.

Era stato de’ signori, de’ Dieci di libertà e pace; ma più che sui magistrati la sua autorità si fondava sulla fiducia che metteva in lui la moltitudine.

Cominciò a bisbigliarsi dell’assedio, e Niccolò confidando nella famosa profezia di fra Girolamo

«Florentia flagellabitur, et post flagella renovabitur»[3]

tenne sempre per la parte che rifiutava ogni accordo co’ Medici, e pose in opera quant’era in poter suo per accendere il popolo alla difesa.

Comparì l’esercito condotto da Filiberto di Chalons, principe d’Orange, pose il campo sui colli che sono a mezzogiorno di Firenze il 24 ottobre 1529, e Niccolò, nei pochi giorni scorsi dacchè era cominciato l’assedio, aveva già assistito all’esequie d’uno de’ suoi figliuoli morto combattendo sotto le mura. Ora assisteva all’esequie del secondo, colla fronte alta, la faccia serena e la mente tutta assorta in Dio, al quale offeriva non solo la vita di questi due figli, che teneva per martiri, ma quella degli altri ancor vivi, e la sua, purchè salvasse Firenze.

Di madonna Fiore, sua moglie, morta pochi anni prima, avea avuto cinque maschi e due femmine; i tre superstiti erano con lui intorno alla bara: due di loro avevano indosso il giaco o il corsaletto, che in quel tempo, si può dire, la gioventù fiorentina non se lo cavava mai. Il minore aveva nome Bindo, ed era un bel giovanetto di quattordici anni, ma alla statura si poteva dargliene almeno diciotto, e non aveva indosso giaco, nè arme accanto come i suoi fratelli.

La bella struttura delle sue membra, in perfetta armonia tra loro, la tinta bruna e robusta della sua carnagione, gli occhi neri, mobili, vivacissimi, e che avean la fierezza di quelli del padre, temperata dalla grazia dell’adolescenza, facean pensare che gli sarebbe stato troppo bene una spada accanto ed una corazza sul petto: ma il gran core soprattutto ed il mirabile ardire che avea mostrato fin dall’infanzia, lo facean degno di portare ormai l’armi anch’esso in difesa della patria.

Niccolò si trovava riprodotto in questo suo figliuolo parte per parte nelle forme del corpo come nelle doti dell’animo, perciò, benchè non lo volesse mostrare nè concedere, l’amava con maggior tenerezza degli altri.

Questa tenerezza l’aveva impedito sin’ora di condiscendere alle istanze di Bindo, che si struggeva di combattere anch’esso cogli altri giovani fiorentini.

Niccolò gli diceva spesso—Saresti un bel soldato a quattordici anni!.... sei fanciullo, Bindo! lascia andar innanzi i più vecchi, verrà anche troppo il tuo tempo.—

Poi finalmente per racquetarlo gli avea promesso che, ove alcuno de’ suoi fratelli venisse ucciso, gli concederebbe di prender l’armi in vece sua. Il tempo d’attener la promessa era giunto, e Niccolò non era uomo che potesse mancarvi.

La mattina prima d’uscir di casa non avea potuto a meno, malgrado la sua natura austera, di far carezze al figliuolo; e tiratoselo in camera gli avea detto—Bindo mio, sin’ora fosti fanciullo, dacchè ti basta la vista d’esser uomo d’ora in poi, siilo al nome di Dio. Verraine con esso noi.....gli è bene che tu conosca tosto come vadan le cose di quaggiù. Prega Iddio che ti faccia un valentuomo... egli sia quello che t’ajuti, come io ti dò la mia benedizione.—

Il vecchio un po’ mutato negli occhi e nella voce baciò il figliuolo, e vennero in S. marco. Quel fremito interno, quel batter di polsi più rapido che nasce da una forte commozione d’animo, agitarono il petto di Bindo quando si trovò accanto alla bara ove giaceva il suo povero Baccio (così avea nome) che avea sempre veduto così vegeto, così vispo, col quale s’era trastullato per tant’anni, ora pallido, immobile, colla morte sul viso, ed all’età di Bindo, il morire par cosa tanto impossibile!

Vedeva sotto il cappuccio, in mezzo alla fronte, un buco tondo, largo come uno scudo, fatto dalla palla d’uno de’ grossi archibusi che s’usavan nel 1500. Avea sin a quel giorno parlato, ed udito parlar più volte di fatti d’arme, di ferite, di morti, s’era acceso in quei discorsi ed ardeva di trovarsi all’atto ancor esso, ma ora ne vedeva sotto gli occhi proprio veri e reali i terribili effetti, e non v’è piccol divario!

Due calde lagrime stavano per cadergli dalle palpebre, e si sentì il cuore scosso in un modo che gli riusciva nuovo affatto.

Sbigottì di se medesimo un momento, e si domandò—avrei io paura?—

Preghiamo il lettore a non voler rispondere affermativamente alla semplice interrogazione di Bindo poichè s’ingannerebbe.

Il senso che provava non era timore, era un misto di stupore, d’afflizione, di smania di gloria, di indegnazione; e non è maraviglia che alla sua età non fosse in grado di rendersene ragione.

Degli altri figliuoli di Niccolò, il maggiore, uomo sui quarant’anni, avea nome Averardo, il secondo Vieri.

Le due giovani inginocchiate, sedute sulle calcagna, s’eran poste a qualche distanza dai maschi.

La maggiore si chiamava Laldomine o Laudomia, la minore Lisa.

Intanto il frate sagrestano aveva accese quattro candele all’aitar maggiore. S’accostò alla bara tenendo la canna che aveva attorcigliato in cima un pezzo di stoppino, e dopo aver acceso i tre candellieri, trovandosi presso a Niccolò, gli disse sotto voce accennando il morto:

—Egli era de’ Lapi, messer Niccolò, e non ha tralignato punto! Pace all’anima sua.—

Amen, rispose il vecchio, ed il frate con un sospiro s’avviò verso la sagrestia.

Un momento dopo uscì la messa. Il celebrante era fra Benedetto da Faenza superiore del convento, vecchio venerabile che mostrava sentir tutto il peso degli anni.

Il laico che serviva in rocchetto, aveva un viso che non si poteva lasciarvi cader su un’occhiata, e poi volger lo sguardo altrove senza più curarsene, come si fa colla maggior parte de’ visi che s’incontrano. Costui invece aveva una fisonomia, un portamento così nuovo, ed un non so che di dissonante e di disarmonico in tutta la persona, che, veduto una volta, pareva non fosse possibile perderlo d’occhio nè finir di considerarlo.

Mostrava una cinquantina d’anni, piuttosto alto e magro, ma nerboruto e diritto come un giovanotto. L’occhio ardito, ed in questo caso l’espressione dev’essere presa ad literam, poichè ne aveva un solo; la guancia destra segnata da una lunga cicatrice. Poi in ogni suo moto, in ogni atto, un fare disinvolto che riusciva curioso coll’abito che portava. Nell’istesso tempo era impossibile d’apporgli nulla di sconvenevole, o che sapesse d’irriverenza: anzi avea lo sguardo basso, il contegno raccolto, rispondeva a tempo con voce ragionevole senza mangiar le parole, come fanno per lo più i chierici nel servir la messa.

Tuttavia non andò molto, che si potè conoscere esser per lui in quel momento uno sforzo non indifferente il seguir la massima dell’Age quod agis.

Le artiglierie piantate dagl’imperiali a Giramonte fecero sentir qualche sparo. Ma non se ne faceva caso come di cosa giornaliera: però i colpi a poco a poco divenivan più numerosi e più frequenti, e molti de’ soldati che si trovavano in chiesa per assistere ai funerali del loro compagno, cominciarono a bisbigliare parlandosi all’orecchio, vergendo gli sguardi verso la porta con moto involontario e sicuramente inutile, poichè non vi trovavan certo la spiegazione d’un fatto che accadeva in tanta distanza. I loro discorsi erano di questo genere:

—Comincia a soffiar per tempo la chimera[4] questa mattina—Eh! saran fuochi d’allegrezza per qualche altro malanno che ci viene addosso.—Possiate morir quanti siete!—(s’udì uno scoppio più forte). Senti, senti! Dev’essere l’archibuso di Malatesta[5]—Senti che nespola!—Che mattinata senza liuto!—Oggi in guerra, doman sotterra—Malann’aggia chi rimane—Oh che vorrà dir questo! Vuol dir panicco pesto.... ec. ec.—

Queste parole ed altre simili che uscivano di mezzo alla turba che era in fondo alla chiesa, formavano un susurro che, unito agli spari, cagionava una gran distrazione al povero laico.

Non ardiva voltarsi del tutto, ma non si vedeva più star immobile all’ufizio suo come prima: tendeva l’orecchio, e talvolta gettava così sopra la spalla ed alla sfuggita un’occhiata verso la porta.

A Niccolò non piacque udir in chiesa un tal bisbiglio, e voltando appena il capo verso chi ne era cagione, disse con voce ferma e chiara quantunque sommessa:

—E’ pare che siamo in piazza!

Un maestro di scuola temuto che comandi il silenzio con voce burbera ad una trentina di fanciulli, non è obbedito più pienamente, ne più presto, di quel che lo fu Niccolò da quella turba, composta d’uomini che però non si sarebbero lasciati dar sulla voce da altri così facilmente. Il silenzio fu a un tratto generale e perfetto: cosicchè il prete che diceva le segrete all’altare appena a mezza bocca, si potè udire da un capo all’altro della chiesa. Ma questa quiete dovea durar poco.

Unitamente ad uno scoppio più forte delle artiglierie del campo, i vetri, i piombi ed il legname d’una delle maggiori finestre, infranti in minutissimi pezzi caddero in chiesa, sfracellandosi e rimbalzando pei cornicioni, per le mura e per tutti gli sporti che venivan trovando, con tanto calcinaccio e polverio e ragnateli che parve rovinasse la volta.

Per fortuna gran parte de’ rottami cadde su un altare chiuso da un balaustro, onde nessuno venne offeso.

V’era il costume in que’ tempi tra i soldati che campeggiavano una terra ogni volta che, venissero loro sborsate le paghe, o fosse la festa del Sovrano che li pagava, nelle occasioni infine, ove parea loro da mostrare allegrezza, di abbassar d’un palmo le culatte de’ pezzi d’artiglieria piantati per batter i bastioni, poi dar fuoco sparando all’impazzata senza torre la mira, onde le palle dando loro quest’arcata passavano al di sopra delle mura ed andavano a cadere in mezzo alla città ove storpiavano ed uccidevano Dio sa quanti, che ci avevano che fare quanto la persona che ci usa la cortesia di tener questo libro tra le mani. E questa bella allegria (tutto sta intendersi) si chiamava far gazzarra.

Il campo del principe d’Orange si trovava appunto in uno di questi tali impeti di buon umore, e facendo gazzarra quella mattina, una palla colse la chiesa di S. Marco, un’altra ferì in piazza S. Giovanni, uno de’ migliori soldati del capitano Sandrino Monaldi, ed in altre parti della città furon fatti molti inaspettati danni.

Questo caso non alterò gran fatto nè i soldati nè Niccolò nè i suoi figli. Le due giovani un poco si sbigottirono, ma visto non era altro, presto si dettero pace.

Quello che si mostrò meno ardito di tutti, e gli servan di scusa lo stato e l’età cadente, fu il padre che diceva messa.

Il senso del timore superò in lui in quel momento ogni altro rispetto, e per dir il vero tanto rovinìo e tanto fracasso a chi non se l’aspettava, dovea fare un certo senso: fe’ gobbe le spalle, abbassando il capo, e coprendosele colle mani disse—Dio mio, misericordia!—E se il robusto laico non l’avesse afferrato sotto l’ascella forse cadeva.

Fin qui però v’era poco male, ed il laico avea meritato bene anzi chè no dal suo superiore.

Il male fu, che nel reggerlo, vistolo tanto sgomentato per un accidente che a lui pareva assai leggiero, gli venne una tal voglia di ridere, che a malgrado de’ suoi sforzi per vincerla alla fine pur gli convenne lasciarsi andare, e scoppiò in una risata la più sonora e sgangherata del mondo, ed avendo le mani impedite nel sostenere il buon vecchio, che ancora tremava a verga a verga, non potè nè volgere il capo altrove, nè porsi una mano sulla bocca, nè soccorrer se stesso con que’ rimedi che s’adoprano in cotali casi.

Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni

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