Читать книгу Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni - Massimo d' Azeglio - Страница 8
CAPITOLO V.
ОглавлениеPrimieramente per partito vinto fu condotta divotamente in Firenze la Vergine Maria dell’Impruneta e la tavola di S. Maria Primerana di Fiesole che collocarono in S. Maria del Fiore nella cappella di S. Zanobi.
Poi soldarono molti capitani nuovi, massimamente di quelli delle bande nere[12], accrescendo le compagnie, onde fatta una rassegna generale si trovarono soltanto in Firenze, senza contare il contado, meglio di ottomila fanti pagati sotto sei colonnelli, e circa ottanta capitani, de’ quali ve n’erano diciassette Fiorentini.
In oltre i quattro quartieri ne’ quali si divideva Firenze, cioè S. Spirito, S. Croce, S. Giovanni e S. Maria Novella avean ciascuno quattro gonfaloni, sotto i quali era scritta la gioventù in modo che veniva a formare sedici bande di quattrocento in circa per banda, ognuna delle quali eleggeva colle più fave nere capitano, luogotenente, banderajo, sergente, e capi squadra. Queste bande armate di picche, corsaletti ed archibusi, ben ordinate ed ottimamente in arnese, eran composte d’uomini tutti dai diciassette ai 40 anni. Dovean ragunarsi una volta al mese ognuna su una piazza del proprio quartiere, ove facevano evoluzioni, e tiravano al bersaglio cogli archibusi, ed esercitandosi così in tutti gli uffici della milizia giunsero ben presto a potere stare a paragone delle fanterie pagate. Di più, era istituito che ogni anno quattro di quei giovani facessero in una delle principali chiese un’orazione ciascheduno, che trattasse della libertà[13]. Non piacque a Dio che quest’istituzione avesse lunga vita.
Oltre questi, che eran tutti soldati a piede, Amico d’Arsoli e Jacopo Bichi sanese stavano a servigi del Comune co’ loro cavalli che in tutto non sommavano a quattrocento.
A D. Ercole d’Este primogenito del duca di Ferrara era destinato il comando della milizia pagata, come capitan generale de’ Fiorentini. I Dieci gli fecero significare dovesse mettersi in ordine per cavalcare, e gli furon al tempo stesso sborsati tremila cinquecento ducati, quali eran tenuti somministrargli a’ termini della condotta per soldar mille fanti di guardia alla sua persona. Ma il duca Alfonso malgrado la fede data, o dubitando del papa o temendo inimicarsi l’Imperatore, trovò pretesti, e non volle nè mandare il figliuolo, nè restituire i danari.
Per questo tradimento dovettero i Fiorentini commettere il comando generale al sig. Malatesta Baglioni, figlio di Gio. Paolo, soldato della repubblica: gli mandarono a Perugia Bernardo da Verazzano oratore, che lo vezzeggiasse con tutte le maniere di carezze e d’onori, per mantenerlo in fede, onde non si lasciasse corrompere dal papa che era intento a ciò continuamente.
Malatesta accettò ed assunse il comando per disgrazia de’ Fiorentini.
Viene in mente alla prima il domandare perchè questi si fidassero tanto d’un uomo che per molti motivi dovevano aver in sospetto? Prima il tempo stringeva, e non era facile così subito trovar un altro che nelle cose della guerra valesse quanto Malatesta. Poi gli ordini della milizia in quel secolo eran talmente instabili, e la disciplina così corrotta, che i diversi capi delle bande che costituivan l’esercito non si sarebbero piegati mai ad ubbidire ad un loro eguale innalzato dalle sue virtù al comando supremo, e comportavano appena di star soggetti a chi poteva dirsi principe indipendente.
Acciocchè non mancassero i danari per pagare queste genti, vennero eletti sedici ufficiali detti di Banco, i quali tra tutti avessero a servire il Comune d’ottantamila fiorini. Fissandosi per loro utile a ragione di dodici per cento. Si creò un magistrato di quattro cittadini il quale dovesse porre un accatto che non s’avesse a rendere; e nel tempo stesso fu ordinato che si restituissero i residui delle imposizioni passate. Si vendettero all’incanto tutti i beni di ciascuna delle ventun’arti, e quelli delle fraternità e compagnie così della città come del contado. Clemente VII, con suo breve aveva conceduto che questi beni ecclesiastici si potessero vendere quando in Firenze erano ancora i Medici, onde il danaro che se ne ricavasse fosse adoperato da questi per mantenersi nello stato. Non s’era fatto uso in allora di questa licenza, che fu messa ora a profitto in difesa della libertà.
Prima del 1526 le mura erano difese da innumerabili torri, che i Medici fecero abbattere per consiglio di Pietro Navarro. Ora Michelangelo Bonarroti, che avea bensì mostrato tentennare scostandosi da Firenze quand’era minacciata, ma poi tosto tornato in se vi s’era condotto per far il dovere di buon cittadino, diede opera di fortificare d’ogni parte le mura. Chiuse nel loro circuito il colle che sta fra Porta S. Niccolò e S. Miniato, circondandolo con un bastione, e mettendo in fortezza il convento, la chiesa, ed il campanile di S. Miniato. Condusse molti altri bastioni dove gli parean bisognare, coi loro fianchi e fosse, e bombardiere secondo insegnava l’arte in quel tempo.
La corteccia di fuori di tali bastioni era di mattoni crudi fatti di terra pesta mescolata col capecchio trito: di dentro era di terra e stipa molto bene stretta e pigiata.
Nel consiglio degli ottanta fu vinta una provvigione «che i borghi della città si dovessero incontanente tutti rovinare dai fondamenti, e tutti gli edificj d’intorno a un miglio, o piccoli o grandi, così sacri, come profani, che potessero recare o comodità alcuna a quei di fuori, o scomodità a quei di dentro si spianassero e mandassono a terra ecc.»
I padroni però furono scritti come creditori del valore riconosciuto secondo la stima.
I borghi erano in quel tempo quasi altrettante città, il contado pieno per tutto di case, di ville, di palazzi, con orti e giardini, più ricco e meglio ornato che paese del mondo. Non è possibile immaginare il danno che risultò sì al pubblico che ai privati da questa distruzione nella quale vi ebbero famiglie peggiorate più che di ventimila fiorini.
Ma i cittadini non guardando nè a danari nè a possessioni accolsero animosamente la provvisione ed uscendo a frotta giovani, vecchi, ricchi e poveri ed i padroni istessi andavano a questa o a quella villa, e non solo rovinavan le case, ma guastavan gli orti ed i giardini, le fontane, i vivaj ed abbattendo colle scuri gli alberi fruttiferi, o di bellezza, sbarbando viti, ulivi, cedri, melaranci, tornavano a Firenze con muli ed asini carichi di fascine che si adoperavano poi nell’innalzare i bastioni.
Gli edificj di maggior solidità si rovinavano con un istrumento fatto a guisa d’ariete: era una trave che retta orizzontalmente in bilico colle funi veniva dimenata e spinta con grandissima forza da molti uomini, i quali battendo con essa a furore, inanimando l’un l’altro colle voci e colle grida mandavano a terra lunghi tratti di muro.
Il volgo dava a quest’ordigno un nome che non ci è lecito porre sott’occhio al lettore; in altro modo era detto Battitojo.
Accadde nel corso di queste devastazioni un fatto che mostra, quanto dagli uomini di quel secolo fossero tenute in pregio le arti.
Una turba di cittadini, soldati e contadini, avean gettato a terra con una di quelle macchine buona parte della chiesa e del convento di S. Salvi. Giunti colla rovina in luogo d’onde si scoperse loro il refettorio nel quale era dipinto il Cenacolo, opera di Andrea del Sarto, ad un tratto tutti quanti si fermarono quasi fossero loro cadute le braccia: nè bastando l’animo ad alcuno di metter le mani su quell’opera maravigliosa lasciarono in piedi quel pezzo di muro e la pittura rimase intera.
Il palazzo di Jacopo Salviati, la villa di Careggi di casa Medici vennero arsi da una brigata di giovani guidati da Dante e Lorenzo Da Castiglione, de’ più fieri nemici che avesse questa famiglia. A Castello ed a Poggio a Cajano per poco non toccava la stessa sorte.
Queste arsioni però non essendo fatte in servigio della città ma soltanto per isfogar l’odio contro i nemici, vennero biasimate dagli uomini gravi, ed il gonfaloniere Carduccio diede commissione onde ne fossero castigati gli autori. Ma il tempo non comportava troppa severità contro tali insolenze, e la commissione non ebbe effetto.
Il principe d’Orange vicerè di Napoli aveva frattanto ricevuto l’ordine dall’Imperatore di mettere insieme le genti e muoverle contro lo stato fiorentino ad ogni richiesta del papa. Giunse il vicerè a Roma agli ultimi di luglio con cento cavalli e mille archibusieri, e s’alloggiò in Borgo nel palazzo Salviati.
Venuto a parlamento con S. S. vi fu molto che fare prima che si mettessero d’accordo.
Al papa, di natura stretto e sospettoso, parea fatica lo spendere e l’anticipar sussidj; il principe vicerè, persona altiera, non potea patire che si procedesse con tanta miseria in un’impresa così importante. Convennero finalmente nelle somme da sborsarsi dalla Camera Apostolica, ed il principe andò all’Aquila ove era rimasto l’esercito guidato da Gian d’Urbino, per farlo muovere verso Fuligno ove si dovea far la massa.
In questo tempo Roma commossa dagli apparecchi d’una tal guerra s’andava empiendo di genti d’arme. Spagnuoli, Tedeschi ed Italiani, soldati di ventura, s’arruolavano a torme tratti dalla cupidigia di saccheggiar Firenze. Si tenevano tanto sicuri del fatto (e seguitiamo a lodare il buon tempo antico!) che v’ebbe di quelli i quali essendo citati in giudizio, e dubitando per questo ritardo di non giungere in tempo, protestarono agli avversarj loro pei danni ed interessi del non trovarsi al sacco di Firenze.
Il papa sentendosi offeso perchè la repubblica avea mandati ambasciatori all’Imperatore e non a lui, si mostrava tanto infiammato a volersi vendicare che non v’era chi ardisse tentar di placarlo. Due soli cittadini fiorentini, Jacopo Salviati e Roberto Pucci, gli parlarono a viso aperto, facendogli considerare a quanto rischio mettesse la sua patria, ed a quanta infamia esponesse se stesso.
Ma Clemente s’era fatto a credere che i Fiorentini fossero per piegarsi, prima d’esser ridotti agli estremi, nè si distolse punto dal suo proposito.
Per cura del principe d’Orange l’esercito si trovò presto riunito nelle pianure intorno a Fuligno, in numero di trentacinquemila fanti, e circa milledugento cavalli. Tra questi si trovavano i tedeschi condotti in Italia da Giorgio di Frondsberg, o per dir meglio quelli avanzati alla guerra, alla peste di Roma, ed alla fame di Napoli, soldati veterani, valentissimi.
I primi signori e condottieri d’Italia guidavano queste genti. Tra principali capitani si contavano D. Ferrante Gonzaga fratello del marchese di Mantova, Pier Luigi Farnese, Giovanni Battista Savello Marzio, Piero, Sciarra Colonna, il conte Pier Maria Rossi di S. Secondo di Parma, Alessandro Vitelli da Città di Castello, Braccio e Sforza Baglioni: più tardi sopravvenne il marchese del Vasto monsignor Ascalino Astigiano, e Giovanni da Sassatello, il quale avendo preso soldo da’ Fiorentini pensò bene senza render loro i danari di condurre i suoi tremila soldati al campo d’Orange.
Fabrizio Maramaldo di nazione sardo senza esser nè condotto, nè chiamato a servir l’Imperatore, predava intanto e taglieggiava sul Sanese, e su quel di Volterra con tremila più malandrini che soldati.
Questo era il bell’ordine di guerreggiare che s’usava in quel tempo.
Perugia, Cortona, Arezzo caddero presto in mano degl’Imperiali che per il Val d’Arno di sopra scendevano senza grandi ostacoli verso Firenze.
I progressi del nemico avevano alquanto commosso gli animi di molti cittadini, e la parte de’ moderati riuscì a persuadere che si mandassero oratori al papa. Si condussero a lui con gran difficoltà essendo rotte le strade, chiusi i passi, e corso il contado da saccomanni.
La risposta di Clemente fu che «trattandosi dell’onor suo voleva che i Fiorentini si rimettessero in lui liberamente, e poi mostrerebbe a tutto il mondo, ch’egli era fiorentino anch’egli, ed amava la patria sua.»
Tosto che l’esito di questa legazione fu noto in Firenze, gli animi di tutti, deposto ogni pensiero d’accordo, si volsero a crescer le munizioni ed a rinforzar le difese.
I lavori delle mura che erano già molto innanzi si proseguirono con maggior alacrità, massimamente quelli intorno al bastione di S. Miniato, ed il gonfaloniere in persona li sollecitava con incredibile diligenza.
Quando il sole era tramontato si continuava l’opera tutta la notte al lume de’ torchi.
Agli operai ed a marrajuoli s’univano i soldati, i giovani, le donne, i vecchi, i fanciulli, ingegnandosi ognuno d’ajutare fin dove giungevan le forze trasportando terra, sassi, fascine, mettendosi a gara ai servigi più vili e più faticosi con quella fiera allegrezza che si desta all’avvicinarsi di grandissimi pericoli, in chi sa d’incontrarli per la giustizia.
In breve le fortificazioni si trovarono condotte a termine d’essere inespugnabili per un esercito di quei tempi.
A misura che il pericolo s’avvicinava la parte de’ Piagnoni diveniva più rigida contro i Palleschi. Molti di questi delle prime case di Firenze s’erano fuggiti spaventati dai pericoli dell’assedio, o dalle persecuzioni de’ loro avversarj, i quali li accusavano ai magistrati, gli oltraggiavano per le piazze e per le vie, e spesso avean tentato di manometterli.
Dante da Castiglione, giovane feroce, ardentissimo, il Sorrignone, Cardinale Rucellai, Pietro Poldo dei Pazzi, Domenico Boni ed altri della setta nemica ai Medici, avean piena la città di queste loro insolenze e dicendo pugnare per la libertà, erano i primi a distruggerla.
Gli uomini savii che pur conoscevano quanto simili modi fosser contrarj al viver libero, ciò non ostante li comportavano per non parer freddi, e venivan così strascinati da questi più furibondi, a prender partiti violenti ed estremi.
A questo punto, per impedire che altri fuggisse dalla città, e far sì che i fuggiti ritornassero, tutti coloro che si trovavan fuori vennero citati per pubblico editto a doversi presentare al magistrato entro un tempo determinato. Quelli che non ubbidirono ebbero bando di ribelli, e vennero loro confiscati i beni. Alcuni però tornarono.
A Baccio Valori, commissario pel papa al campo d’Orange, come a traditore della patria, venne inoltre posta una taglia di mille fiorini a chi lo desse vivo, a chi lo desse morto di cinquecento. Di più, secondo un’antica legge contro i traditori della patria, venne sfregiata e sdrucita una lista della sua casa da capo a piede.
Al papa intanto venivano giungendo le nuove del campo d’ora in ora: udendo guastarsi tutto il contado con arsioni, ruberie e mille mali, forse glien increbbe, e fisso nella sua opinione che i Fiorentini fossero per diventar più manosi, ora che l’esercito si trovava nel cuore del loro stato, risolse innanzi che fosse diserto del tutto, mandare in Toscana l’arcivescovo di Capua. Gl’impose passasse per Firenze, che ancora si trovava aperta, sotto colore di portarsi presso il principe d’Orange, e vedesse così di suo se vi fosse modo che senza spinger le cose più oltre i Fiorentini si volessero piegare.
Venne l’arcivescovo, alloggiò presso Agnolo della Casa, ma tosto si levò un rumore tra il popolo, ch’egli venisse per corrompere i capi della città.
Furon mandati dalla Signoria quattro cittadini per intendere il motivo della sua venuta: rispose che andando al campo era passato di Firenze per sua comodità. S’offeriva nell’istesso tempo d’intromettersi tra i cittadini e Sua Santità.
Quest’offerta non venne accettata, come s’era immaginato Clemente, e l’arcivescovo fu fatto accompagnare fuori della Porta S. Niccolò, sino alle prime scolte del campo.
S’accrebbero i sospetti contro i Palleschi nel governo e nell’universale per la venuta di costui, onde furono creati sei uomini i quali insieme col gonfaloniere dovessero dichiarare quelli tra i cittadini che tenessero per fautori de’ Medici, o per sospetti alla libertà dello stato.
Per questa legge molti vennero presi e sostenuti in palazzo, ove rimasero serrati a buona guardia quasi fino alla fine dell’assedio.
Tutti gli Spagnuoli che per cagione di mercanzia si trovavano in Firenze furono rinchiusi in una casa, ordinando chi li guardasse, e che provvedendo amorevolmente ai loro bisogni non li lasciasse però favellare con alcuno, nè scrivere se non quello che s’appartenesse alle loro faccende private.
A queste severità, cui servivan di scusa i casi della città, se ne aggiunsero altre più crudeli e fuori d’ogni ragione.
Carlo Cocchi ebbe mozzo il capo per non altro che per essergli sfuggito di bocca «Firenze essere de’ Medici, e perciò essere dovere l’accettarli per signori senza aspettar la guerra.»
Altri sul dubbio che ordissero trame col papa furon posti al tormento; e pur troppo è assai verosimile che in questi casi restassero vittime molti od innocenti, od almeno meritevoli di minori pene; chè pur troppo un’ingiustizia suol generarne cento: ma questi modi ingiusti e violenti usati dai due partiti ogni volta che si trovavan giunti al potere, modi ch’essi pazzamente credevan mezzo sicuro onde mantenervisi, furono invece la vera cagione per la quale nessuno di essi non potè fermarvisi mai stabilmente, finchè la sorte di Firenze non venne irrevocabilmente fissata dall’armi straniere.
Comparve finalmente l’esercito, ed ai quattordici d’ottobre alloggiò nel piano di Ripoli intorno al monastero del Paradiso. Si narra, che i soldati spagnuoli quando giunsero all’Apparita, scoprendosi loro ad un tratto tutta la città di Firenze, gridarono con indicibile allegrezza brandendo le picche: «Senora Florencia apareja los brocados, que’ venimos a comprarlos a medida de picas!»[14].
Ai diciassette fu cominciata una trincea a Giramonte, ai ventiquattro il principe fermò il campo sui colli che sorgono al mezzogiorno di Firenze dalla porta di S. Niccolò a quella di S. Friano, e la mattina dopo Malatesta Baglioni, per ordine dei Dieci di libertà e pace, si presentò a levata di sole sui bastioni di S. Miniato accompagnato dai capitani e dagli uffiziali dell’esercito, e seguito da tutti i suonatori della città, e dopo lunghe trombettate, battendo continuamente i tamburi, fece scaricare tutte le artiglierie grosse e minute, che erano un numero infinito, quasi salutasse i nemici, o li sfidasse a battaglia.
Il fragore di questo scoppio scosse la città e le mura, rimbombando ne’ poggi e nelle valli di Fiesole. I bastioni rimasero nascosti dal fumo per qualche minuto, ed i Fiorentini conobbero che quell’assedio tanto temuto era finalmente incominciato.
Questa dimostrazione fatta per seguire il costume militare del tempo, non produsse però effetto veruno.
Ne’ giorni seguenti le prime operazioni degli assediati si volsero contro il campanile di S. Miniato, su cui era un famoso bombardiere detto Gio. d’Antonio, e per soprannome Lupo, il quale con due sagri facea grandissimo danno al campo nemico. Il principe fe’ piantare quattro grossi cannoni sul bastione di Giramonte, i quali durarono a battere il campanile tre giorni continui.
Questi pezzi scaricarono due volte in un’ora, ed agli artiglieri del secolo XVI, pareva d’essere svelti. Le loro palle poi andavano ora a destra ora a sinistra, or alte or basse, e se talvolta davano nel campanile lo danneggiavan poco per la troppa distanza e per essere solidissimo, e non facevano altro che scalcinarlo.
Nondimeno que’ di dentro affinchè (come s’esprime il Varchi) chi era venuto con tanta baldanza per prender tutto Firenze non prendesse nemmeno una delle sue torri, lo fecero armare con grosse balle di lana dalla parte che guarda i nemici. La cosa essendo venuta in gara, e volendosi da ognuno vincer la prova, una notte i Fiorentini bastionarono il campanile con un gran monte di terra, perchè gli imperiali dovettero restar dall’impresa.
Piantarono invece una colubrina e preser di mira il palazzo de’ Signori. Ma nello sparare, il pezzo si aperse e la palla cadde nella casa del manigoldo, onde messer Silvestro Aldobrandini ne prese occasione di far due sonetti, in ischerno del papa i quali incominciavano.
«Povero campanile sventurato»
e
«Vanne Baccio Valor dal Padre Santo»
In quei primi giorni di novembre si venne alle mani in molte piccole scaramuccie, che non partorirono effetto d’importanza. I giovani della città uscivano a fronte ogni giorno, per provarsi co’ nemici contro i quali avean concepito nuovo sdegno, per una cagione che dipinge al vivo i costumi di que’ tempi.
L’esercizio della milizia si considerava allora come un mestiere del quale non avea diritto d’impacciarsi chi non fosse scritto tra i soldati, ed arruolato secondo le regole. Questi si consideravano tra loro quasi membri d’un’istessa confraternitàa, tra i quali, benchè nemici, era patto d’osservar leggi e riguardi reciproci.
La conseguenza di questa usanza fu, che i soldati imperiali la più parte invecchiati nelle guerre, e matricolati, per dir così, nell’arte che professavano, guardavano con disprezzo i Fiorentini che usurpavano (così dicevan essi) il diritto di impugnar l’armi in difesa della loro patria, nè vollero acconsentir mai di far con loro a buona guerra, come cogli altri soldati, dicendo ch’essi non eran tali, ma erano gentiluomini.
Tra le pazzie della superbia umana, questa non sarà delle meno curiose.
La gioventù se l’ebbe tanto per male che trascorse a macchiarsi di molti atti crudeli: tra gli altri Vincenzo Aldobrandini, ed il Morticino degli Antinori avendo fatto prigioni due spagnuoli, in cambio di porre loro la taglia, li scannarono.
Le cose di Firenze si trovavano in questo stato il giorno in cui Fra Giorgio uscito dal convento di S. Marco camminava verso la casa di Malatesta Baglioni.