Читать книгу Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni - Massimo d' Azeglio - Страница 11
CAPITOLO VIII.
ОглавлениеIn faccia alla porticciuola di fianco di S. Maria Maggiore si vede ora una casa dell’architettura insipida e senza carattere del secolo XVIII, che dopo essere stata la locanda dell’Aquila nera, vien detta in oggi la nuova York. In quest’area medesima, occupata prima dal Seminario, ed in parte, più anticamente, dalla casa de’ Cerretani, era, all’epoca di cui scriviamo, la casa di Niccolò, fabbricata dal tre al quattrocento, e simile ad alcune di quel tempo che ancora rimangono in Firenze. Dio voglia conservarla un pezzo, o liberarla da un padron di casa di que’ tali che, per aumentar le pigioni, d’una camera ne fanno quattro, apron finestre, danno il bianco alle facciate.... ma lasciamo questo discorso, che è un brutto combattere e parlar di gusto, di memorie, d’architettura, con chi risponde quattrini.
La casa ove abitava la famiglia de’ Lapi (divisa da’ Carnesecchi dalla via de’ Conti) era quadra, soda, massiccia, a tre piani, con un bugnato sino al primo di pietre scarpellate ed annerite dal tempo; le mura al disopra tutte piene di rabeschi a graffito, ed in cima affatto una loggia retta da colonnette sottili. Il tetto sporgeva innanzi di molte braccia, e le travi dell’incavallatura che lo reggevano, prolungandosi fuori del muro, mostravano a guisa di gran mensoloni ornati alla grossa di qualche intaglio. Le finestre del pian terreno, forse un po’ troppo a portata di chi era in istrada, eran munite da grosse ferriate, sott’esse una panca di sasso quant’era larga la facciata, ed in questa, all’altezza di dieci braccia, eran commesse tra le bugne spranghe di ferro lunghe tre palmi, ripiegate all’insù, con un bocchino in cima ove si piantavan, in occasione di feste, torchj o stendardi, e dalle quali pendeva un grandissimo anello: sull’angolo poi del palazzo era, all’altezza medesima, uno di que’ lampioni pure di ferro, quali ancora si vedono sugli angoli del palazzo Strozzi, opera del Caparra. Al portone posto nel mezzo, si picchiava con due campanelle di bronzo grandissime che pendevan dalla bocca di due maschere di leoni: ed a veder come le imposte eran per tutto afforzate di chiodi e di lastre, nasceva l’idea, che per i ladri una visita in quella casa non sarebbe stato tempo perduto.
Entrando si trovava un androne la cui volta era a scompartimenti a buon fresco, e che metteva in un cortile quadrato, intorno al quale, sotto un atrio arioso e ben disposto, si vedean molte storie pure a fresco, dell’epoca e della scuola di Masaccio. A metà dell’androne sopraddetto, due porte davano adito al terreno. Quella a mano manca conduceva a quattro sale ove Niccolò avea il fondaco, lo scrittojo, e v’attendeva co’ suoi giovani alle faccende mercantili: l’altra a destra serviva d’ingresso al suo quartiere, che avea prescelto dacchè la vecchiaja, benchè verde, gli avea però reso grave il disagio di far le scale. Il primo piano era occupato dai figli: l’ultimo dalle figliuole e dalle donne, che venivano così ad esser in luogo più guardato, e divise affatto dal resto della casa.
La camera del vecchio (e dagliela con le descrizioni! dirà il lettore.... ma come si fa a dipingere un gruppo di figure se non si fa loro un po’ di campo?) la sua camera dunque era in tutto appropriata a chi l’abitava, cioè di stile grave e severo. Tesa d’un panno d’arazzo di Fiandra, che rappresentava varj fatti della Bibbia, con un soffitto di legno oscuro, a larghi cassettoni; non conteneva che questo poco mobile; un letto di noce lucido, la cui camerella quadra di sciamito pavonazzo, era portata da quattro colonnette piantate su un soppidiano che a guisa di zoccolo o basamento circondava il letto e serviva a salirvi: due cassoni di legno tutti intagliati a mezzo rilievo (la moglie di Niccolò gli aveva recati in casa quando v’era venuta sposa, e secondo l’uso d’allora, contenevano il corredo,) infine molti seggioloni a bracciuoli di cuojo pavonazzo, fermato con borchie d’ottone.
Accanto al letto era una nicchia nel muro alta quattro braccia dal pavimento, nella quale stava appiccata una tonaca da domenicano; sott’essa un’urna d’argento a modo d’un cofanetto, ed una lampada appesa con una catena al soffitto le ardeva davanti. La tonaca era l’ultima che avea portata fra Girolamo Savonarola (il cui ritratto si vedeva attaccato alla parete vicina, chiuso in una cornice d’ebano) ed era quella che gli avean tratto di dosso all’atto del suo supplizio: l’urna conteneva le ceneri del rogo sul quale era stato arso, e queste cose che Niccolò teneva quali reliquie d’un martire, e come memorie d’un maestro e d’un amico, erano da lui guardate con tenera ed altissima venerazione.
Pochi giorni dopo l’esequie di Baccio, egli era seduto dopo cena, ove solea porsi sull’imbrunire, sotto la cappa d’un gran cammino, nel quale ardeva un buon fuoco: avea intorno tutti i suoi di casa, ed alcuni degli uomini che allora più potevano in Firenze, i quali spesso si trovavan quivi insieme a veglia; non che Niccolò fosse allora d’alcun magistrato, ma soltanto per l’affetto che gli portavano, pel molto conto in che tenevano la sua pratica nelle cose di stato, e per la sua autorità nella parte de’ Piagnoni della quale potea dirsi l’anima ed il capo.
V’era Bernardo da Castiglione, padre di Dante, odiatore ferocissimo del nome Pallesco, ed uno dei più riputati della sua parte, quella de’ popolani, che volevano la più estesa democrazia, avversi perciò alla setta degli Ottimati, della quale, come dicemmo, era stato capo il gonfaloniere Niccolò Capponi.
V’eran due frati Domenicani, Fra Benedetto da Faenza, che abbiamo trovato superiore di S. Marco, grandissimo uomo dabbene, e di assai vaste cognizioni, sia nelle materie teologiche, sia nelle lettere latine e greche; ma di natura troppo mite per quei tempi d’arditi e tremendi consigli: e Fra Zaccaria da Fivizzano di S. Maria Novella, predicatore facondo ed agitatore bollente del popolo, che era da lui infiammato alla libertà coll’eloquenza incalzante e fatidica del Savonarola.
V’era Francesco Ferruccio di mercante divenuto soldato, uomo che si potea dir di ferro schietto anima e corpo; di que’ tali che si uccidono, ma non si vincono, nè si piegan giammai: di quelli che bastan talvolta essi soli a ritardar la rovina degli stati; intrepido soldato, capitano avveduto, fortunato nelle fazioni, rigido per la disciplina ed inflessibile co’ soldati, che ciò non ostante l’amavano, perchè lo conoscevano al tempo stesso giusto e liberale. Caldo ammiratore de’ modi e della scuola di Giovanni de’ Medici, capo delle bande Nere, ch’egli studiava d’imitare, onde si diceva tra suoi ch’egli volesse far troppo del sig. Giovanni; macchiò, dobbiam dirlo, tante virtù, con qualche atto crudele; ma pensiamo ch’egli viveva nel secolo XVI, che amava la sua patria, e che dovette vederne l’agonia lunga e dolorosa, e prevederne l’inevitabil rovina!
Bernardo seduto accanto a Niccolò parlava seco sommésso, e pareva aver appiccato ragionamento d’importanza. Fra Benedetto soprappensieri, voltando al fuoco ora la palma ora il dosso della mano, veniva appresso, ed alla sua destra, seguendo il semicerchio intorno al cammino, era Fra Zaccaria, che fissando in alto due occhi neri tagliati come quelli del Giove Olimpico di Fidia, si teneva la barba folta e lunga colla mossa fiera ed ispirata del Mosè di Michelangelo. Francesco Ferruccio, ritto nel mezzo, voltava la schiena al fuoco, e la sua ombra vacillante a seconda della fiamma era portata sulla parete dirimpetto, ove disegnava in dimensioni gigantesche l’alta e robusta sua figura.
Intorno, per la camera buttati sui seggioloni, e stanchi delle fatiche del giorno, stavano Averardo e Vieri, figli di Niccolò, armati di loro corsaletti. Bindo stava ritto accanto ad un desco ove Lisa e Laudomia attendevano a preparare sfili e cucir fascie pei feriti: egli teneva fra le mani un suo elmetto che aveva finito di forbire, e pur guardando sott’occhio se il padre gli badasse, pregava sommesso Laudomia gli trovasse un pajo di penne per farsene un cimiero. La giovane scrollando il capo con un mesto sorriso gli accennava di tacere. Forse la vista della buona spada di Baccio, al fianco del fanciullo, le rammentava il fratello ucciso: forse l’occupavano pensieri ancor più angosciosi e pungenti della mal consigliata ed infelice sorella.
Lisa era minore d’un anno, ne avea diciotto, ambedue potean dirsi belle; ma all’aspetto ognuno avrebbe tenuto Laudomia per la più giovane. Sul suo viso onesto e malinconico, nel muover tardo e soave delle sue pupille azzurre, e fin nella voce e nell’atteggiarsi, splendeva quel non so che virgineo ed illibato, che ogni occhio discerne, ogni cuor sente, ed è pur impossibile definire: che senza esser proprio d’un’età più che d’un’altra, senza appartenere esclusivamente a nessuno stato, orna sovente il volto d’una madre di molti figli, e si desidera indarno su quello d’una fanciulla: quel non so che (se ardissi dirlo) che pare la beltà dell’anima trasparente sotto il velo corporeo; che essendo cosa affatto distinta dalla bellezza, però sempre o la rende irresistibile e divina, o la compensa con usura: quello finalmente, che vendica persino gli oltraggi della fortuna, facendo onorata ed augusta la povertà umile ed oscura.
Quest’aureola d’un’anima non mai contaminata da un pensiero di colpa, facea del volto di Laudomia un volto d’angiolo; nè la sua vita era stata punto difforme da ciò che mostrava il suo aspetto. Rimasta a quindici anni orfana della madre, avea con prematuro giudicio conosciuto, che a lei stava farne le veci colla sorella, e n’aveva assunto, e mantenuto già molti anni l’impegno. Pel resto della famiglia era si può dire il perno sul quale s’aggirava la somma delle cure domestiche. Se poi v’era in casa qualche parola dispiacevole, Laudomia con un motto detto accortamente, e a tempo, l’acchetava o la volgeva in riso; chi aveva un affanno lo confidava a lei, che con que’ suoi modi amorosi pareva tosto lo facesse suo, dolendosi coll’afflitto, ma trovandogli però sempre qualche ripiego o qualche consolazione. Se v’era nulla da risolvere d’importante Niccolò sentiva lei più d’ogn’altro, ed essa con parlar timido e diffidente di se, ma con giudicio sicuro, quasi sempre s’apponeva nell’indicare il partito migliore. Insomma e tra suoi, e fuori tra gli amici ed i vicini non era detta altrimenti che l’Angelo de’ Lapi.
Circa un pajo d’anni prima d’ora avea notato spesse volte un giovane vestito alla foggia de’ gentiluomini, che passava quasi ogni giorno sotto le finestre di casa ora solo ora con suoi amici, spesso ancora su un suo bel giannetto col quale si maneggiava mirabilmente, e le era venuto detto colla Lisa che le sedeva accanto lavorando, Che bel giovane, ma senza pensar più in là e come avrebbe detto che bel fiore; ed ogni qualvolta veniva a passare, lo guardava con piacere e senza sospetto come avrebbe guardata una giovane di consimili bellezze. Un giorno i Magnifici Alessandro ed Ippolito de’ Medici cavalcando per la città capitarono sotto casa i Lapi, e le due sorelle videro con qualche maraviglia quel giovane andare a paro con loro. Tutti e tre a un punto alzarono il capo affissandole; poi quando furon passati, or l’uno or l’altro si volgeva e ridevan tra loro.
Laudomia che s’era affacciata si ritrasse indietro e per la prima volta arrossì: le parve quelle risa l’offendessero, e provava quasi un senso d’umiliazione e di rimorso senza saper perchè. In ogni modo, docile a quella interna misteriosa voce che per le giovani è pur guida saggia e sicura quanto l’esperienza, e vien detta il Pudore, d’allora in poi, quando venivano a passar cavalli, non s’affacciò e non guardò più in istrada.
Ma la povera Lisa benchè ammonita dalla sorella a far lo stesso, testina com’era, fece pur troppo altrimenti. La prima volta aveva come Laudomia guardato il bel giovane; in appresso, senza volerle dar retta, quando sentiva nascer lontano lo strepito del cavallo sul lastrico abbassava il capo, arrossiva, e fattasi alla finestra pareva guardasse tutt’altro, lasciando però cader l’occhio tratto tratto sul cavaliere che passava.
La buona Laudomia non penò un pezzo ad avvedersi di ciò che v’era sotto: ne toccò leggermente con poche parole la sorella, che se l’ebbe quasi per male negando risolutamente: ma il suo viso era divenuto come una vampa di fuoco. Laudomia conobbe come stava la cosa e tacque.
Ben sapeva che aveva un capo da non guidarsi con un fil di seta.
Difatti il cuor della Lisa era buono, l’animo generoso e leale, ma la madre, che la teneva un portento e si struggeva di qualunque cosa le venisse fatta o detta, non avea conosciuto, o troppo tardi, quanto funesto sia quell’amore, che per risparmiare qualche lagrimetta ad una fanciulla, trascura d’avvezzarla a non creder che ogni cosa ed ognuno debba sempre piegarsi alle sue voglie. Usa a volere fin da piccina, non potea patire che non le si andasse a versi: usa alle lodi, (e potean dirsi adulazioni) della madre, ogni minima correzione che altri s’attentasse a farle, stimava nascesse da malevolenza; e dove una direzione saggia ed autorevole avrebbe potuto renderla donna d’alto pensare, e d’animo costante, lasciata in balìa di se stessa s’era fatta piuttosto altera ed ostinata.
Intanto da quelle prime parole in poi dette da Laudomia alla sorella sul fatto del giovane, mai più erano entrate su questo proposito. E siccome fra due persone che sogliono dirsi scambievolmente ogni loro pensiero, nulla tanto genera freddezza, quanto l’avere una corda che da ambedue si sa non doversi toccare, così era nata tra loro, non dirò ruggine precisamente, ma insomma ognuna non vedeva più l’altra coll’occhio di prima.
Laudomia sapeva troppo che parlare alla sorella del suo amore (quantunque inesperta s’avvedeva bene che amore doveva chiamarlo) e non mostrarsele favorevole, era andar a rischio senz’altro frutto, d’allontanarsela affatto. Parlar contro coscienza e lusingarla, non era capace d’averne neppure il pensiero; onde taceva e badava a pregar Iddio la salvasse da tanto pericolo.
Ma ogni giorno più s’andava avvedendo che le sue preghiere non eran esaudite, e che il cuor della Lisa diveniva sempre più infermo. La vedeva a mano a mano venirsi cambiando ne’ modi e nell’aspetto, e trascurare ciò che sin allora le era piaciuto: certi bei fiori che teneva sul terrazzo dell’ultimo piano e de’ quali, coltivandoli di sua mano, avea preso sempre grandissimo piacere, appassivano per non venir annaffiati. Un piccolo uccellino che era il suo caro ebbe quasi a morire, che per due giorni era rimasto senza panico. E ciò, che più di tutto rammaricava la Laudomia, la vedeva trascurare gli atti della religione, o andar molto rimessa nel modo d’adempierli. Ognuna di queste osservazioni era una puntura al cuore dell’ottima Laudomia.
Venne intanto il giorno di Calendi-maggio, festa che si celebrava in Firenze dalle Potenze e dalle giovani specialmente con balli ed altri spassi; e vestite de’ migliori panni, incoronate di fiori, concorrevano a veder giostrare, correre la chintana, o far al calcio. Lisa e Laudomia andarono a veder la festa con una loro parente, e trovandosi in piazza S. Croce, in una gran folla, che è, che non è, la Lisa non si vide più; nè per quanto la cercassero venne lor fatto di rintracciarla.
Tornò però a casa poco dopo di loro, e se Niccolò e gli altri non ne fecero gran caso come d’accidente assai ordinario in quelle confusioni, Laudomia, ancorchè non lo dicesse, l’intendeva altrimenti, e le si avvolgevano per la mente mille sospetti. Ma essa ne sapeva più degli altri. Per tutta quella sera la Lisa, ancorchè facesse ogn’opera per parere come al solito, non potè però nascondere all’occhio indagatore della sorella un certo sbigottimento, un non so chè di nuovo nella guardatura ed in tutta la persona.
Laudomia notando questi sintoni d’un amore sempre crescente che la tenean ravvolta tra mille oscuri e dolorosi sospetti avea giusti motivi di provarne amarissima afflizione. Vedeva troppo bene che non era da sperarne virtuoso fine. Il giovane era di parte Pallesca: di quella parte, che aveva recato al padre ed a tutta la sua casa infiniti mali, che s’era sempre mostrata nemica delle antiche leggi, e dell’antica libertà di Firenze. Era pur da supporre che Niccolò volesse aver per genero uno di quella setta? Aggiungi a tutto ciò, che la giovane domandando destramente e senza far parer di nulla ai fratelli o agli amici di casa qual fosse costui, aveva udito sul fatto suo cose che molto le dispiacevano. Ch’egli era un Messer Troilo degli Ardinghelli, cagnotto de’ Medici, uomo cortigiano e di rotta vita.
A questi motivi che riguardavano gl’interessi della famiglia e della parte, un altro se n’aggiungeva intimo e domestico.
Nel fondaco di Niccolò lavorava un giovanetto di prima barba che sin da piccolo fanciullo s’era allevato in casa ed avea nome Lamberto. Costui era nato molto umilmente. Suo padre, lavorante dell’arte di Por S. Maria[19], per la sua fede e per esser di buonissimo ingegno era venuto in grado a Niccolò, che di povero operajo, l’aveva tirato su fino a costituirlo capo d’ogni sua faccenda. Quest’uom’ dabbene pagò col sangue gli obblighi ch’egli aveva al suo benefattore.
Quando, addì 6 di aprile del 1498, i nemici di Fra Girolamo assaltarono il convento e la chiesa di S. Marco, moltissimi Piagnoni, e fra essi Niccolò, con Pietro padre di Lamberto, concorsero, e vi si rinchiusero per difenderlo. Durò la battaglia molte ore della notte, essendo quei di fuori in gran numero, e combattendo con armi d’ogni sorta, con archibusi e sassi, e facendo quei di dentro grandissima resistenza, non altrimenti che s’usa nell’espugnazione d’una rocca. Il padre co’ suoi frati, dopo esser andato processionalmente per tutto il convento, si ridusse in chiesa e, preso nel tabernacolo il Sacramento lo pose sull’altare, e messisi quivi in orazione cantavano tutti insieme «Salvum fac populum tuum domine et benedic haereditati tuae» aspettando di punto in punto il martirio. Benchè il padre non volesse consentire che s’usassero l’armi per difenderlo, Fra Domenico da Pescia, e molti nobili cittadini, fra quali erano Francesco Valori, Battista Ridolfi e T. Davanzati, si strinsero intorno e deliberarono ribatter coll’armi i loro avversarj, i quali consumata col fuoco la porta della chiesa, alla fine v’entrarono in folla attaccando battaglia di mano, furiosissima co’ Piagnoni e co’ frati, la quale durò molte ore. Un novizio chiamato Herico, tedesco, salito sul pergamo con un archibuso ammazzò di molti nemici, ed ogni volta che dava fuoco diceva anch’esso «Salvum fac Populum tuum domine ecc.» Ed un frate de’ Biliotti con un crocifisso di ottone cavò un occhio a Jacopo di Tanai de’ Nerli, e ciò sia detto per dar idea quali fossero codesti tempi.
Niccolò, che aveva allora 58 anni, combatteva in mezzo alla chiesa rimpetto l’altare della Madonna, ed aveva allato il suo fedel Pietro (così aveva nome il padre di Lamberto) il quale avvistosi d’un tale cui Niccolò non poneva mente, che con un partigianone gli menava un gran colpo che l’avrebbe passato banda a banda, non trovando altro modo a ripararlo si gettò frammezzo, e ricevette nel petto il ferro che gli uscì per la schiena, ed il suo sangue innondò da capo a piedi Niccolò.
Corsero alcuni frati, come usavano con chi cadeva, e raccolto il ferito lo portarono presso l’altare ove, presa con grandissima letizia la comunione, e ringraziato Iddio di quella morte, volse a Niccolò, che gli reggeva il capo non senza lagrime, gli occhi moribondi, e gli disse: «Io lascio la Nunziata ne’ setti mesi.... vi sia raccomandato il mio figliuolo, o figliuola che sia....» e senza poter dir altro rese l’anima a Dio.
Da quel punto, come ognuno può immaginare, egli tenne cura grandissima della Nunziata, e Lamberto nato due mesi dopo, trattò poi sempre come se gli fosse stato figliuolo: e trovato che facilmente apprendeva, lo fece ammaestrare tanto che fatto esperto in sulle scritture gli diede a tener i suoi libri con buona provvisione, pensando giorno e notte qual modo avesse a tenere per fargli uno stato e rimeritar per cotal via il grand’obbligo che aveva col padre. Niccolò era ricco mercatante, perciò avrebbe potuto dire a Lamberto, togli questo tanto in danari e fa i fatti tuoi. Ma gli pareva prima di tutto che obblighi di quella fatta mal si potessero compensare colla sola moneta; poi trovandosi molta famiglia gli pareva fosse anche ingiusto sminuire l’avere de’ suoi figli per una cagione che a lui solo si riferiva.
Gli era nato il pensiero di dare a Lamberto una delle sue figlie con tal dote che stesse bene, così veniva a salvare tutti i rispetti. Ma quantunque il giovane, che era già oltre i vent’anni, fosse tale da non temere un rifiuto da nessuna fanciulla, Niccolò aveva però troppo senno e troppa giustizia per voler ordinar tal parentado senza conoscer prima ben bene il cuore e la volontà di chi lo doveva contrarre. Muovere i primi passi e proporlo egli stesso non gli pareva ci stesse dell’onor suo, onde dato tempo al tempo aspettava che una qualche occasione favorisse l’adempimento di questo suo disegno.
Che Niccolò avesse in animo di far Lamberto suo genero, senza curarsi ch’ei venisse di sì povero stato, non poteva recar maraviglia a chi li conosceva ambedue. Il vecchio non era di que’ tali che sono avversi all’aristocrazia de’ nobili perchè l’invidiano, e che la vogliono spenta per occuparne il luogo. Egli teneva ogni uomo figlio delle proprie opere, lo stimava a norma delle sue virtù, e perciò giudicava sempre pericolose ad una città quelle sette o vuoi di grandi, o vuoi di popolani, o mercanti, o di qualunque altra generazione esse siano, che ristringendosi insieme, e separandosi dagli altri cittadini, schifando imparentarsi con chi non sia de’ loro, usando atti violenti e portamenti superbi, cercano ottener autorità, ricchezze ed onori, non per veruna particolar virtù che sia in loro, ma pel solo accidente d’esser nati in codesta loro setta, o d’appartenerle in qualunque modo.
Ma quanto sono rari gli uomini che, simili a Niccolò, detestino gli abusi per solo amor dell’equo e dell’onesto, e non pel timore di riceverne danno o pel dispetto di non potersene valere ad opprimere altri!
Lamberto poi dal canto suo avrebbe meritato di esser posto tra le eccezioni anche da un padre che stimasse i natali e le ricchezze più che non facea Niccolò.
Se il lettore desidera figurarsi il ritratto di Lamberto, immagini un giovane alto di statura, ed atto per l’ottima proporzione delle membra a tutto quanto può imprender l’uomo, che richiegga forza e destrezza. E ciò basti circa il fisico. Nella parte morale, la natura l’aveva favorito con quel dono che riserba a suoi più cari, a quelli che senza distinzione di stato o di fortuna ella destina alle maggiori imprese; dono che può nominarsi l’amore, anzi la smania della perfezione, seme fecondo delle belle azioni e delle grandi virtù, e di tutto quanto è di sublime nell’umano operare. Giudice severo, che dice all’orecchio dell’uomo applaudito Tu potevi far più, sprone che punge sempre chi è nato per sentirlo, perchè in ogni cosa, in ogni atto vede quanto è più lunga la strada da farsi per giungere alla perfezione di quella già fatta; tormento dell’anima ed insieme la sua vita, il fonte di tante dolcezze, Sarebb’egli forse l’impressione rimasta nell’uomo da quel soffio divino col quale Iddio l’ha chiamato dal nulla?
Questa nobil passione, che in Lamberto andava divenendo più fervida col crescer degli anni, l’aveva eccitato a profittare con ogni studio della ventura di venir allevato in una casa dove eran a sua portata tutti i mezzi di educarsi a quelle discipline che procurano il perfetto sviluppo delle qualità fisiche e morali. Presago forse che la sua vita non avrebbe avuto a consumarsi tutta in un fondaco, s’era ingegnato rendersi pari ad una più splendida fortuna, raffermandosi la sanità e le forze con ogni sorta d’esercizj cavaliereschi, ne’ quali era riuscito mirabile sopra ogni altro; e maturandosi il senno colla lettura degli storici principalmente, ai quali unendo i ragionamenti che udiva farsi in casa da Niccolò e da quelli uomini di stato che vi concorrevano, era venuto a formarsi un capitale di sode e variate cognizioni, per le quali e per l’abito fatto fin dall’infanzia di non far atto, non accettar opinione senz’avervi prima molto pensato, venne a trovarsi uomo in quell’età in cui molti altri sono poco più che fanciulli.
È vero altresì, per non tacere de’ suoi difetti, che appunto per quel suo amore del bello e del perfetto, egli facilmente e con incredibil veemenza s’infiammava di quelle cose e di quelle persone, ch’egli si immaginava avessero alcun che di grande, e colla calda fantasia se le dipingeva d’una perfezione molto maggiore che non era in effetto: conoscendo poi (come suole accadere sempre) d’essersi o in parte o totalmente ingannato, passava dall’immoderata ammirazione ad un immoderato dispregio.
Nè sarà forse fuor di proposito l’osservare, che se i giovani di mente fervida e di cuor generoso come Lamberto si potessero premunire contro questa smania di giudizj avventati ed eccessivi, eviterebbero molti errori, non avrebbero a rimproverarsi molte ingiustizie, ed i mali che ne sono la conseguenza; ed il disappunto delle illusioni svanite non farebbe loro concepire contro l’umanità quell’odio cieco ed orgoglioso, che ha forse prodotte molte belle declamazioni poetiche, ma non ha mai reso gli uomini nè più virtuosi nè più felici.
Si potrebbe anzi dimostrare che invece li ha fatti più duri per gli altri e più amanti di sè, togliendo loro il conoscere una verità trivialissima e palese ad ogni cervello riposato, che se al mondo sono molti bricconi, son pure molti galantuomini, e gli uni e gli altri, compresivi anche questi feroci odiatori della nostra specie, fanno promiscuamente delle cose buone e delle corbellerie, onde alla fine tutto poi si riduce ad aver la santa flemma di segregare le une dalle altre, lodar il bene, biasimare il male; compianger gli uomini che per loro natura debbono ondeggiar sempre in tra due; e finalmente ammonirli ed ajutarli se si può, invece di strapazzarli e di maledirli inutilmente.
Queste riflessioni sarebbero però state affatto inutili per Lamberto. Egli aveva incontrato pochi guai, e trovato invece nella famiglia del suo protettore infinite carezze, il suo carattere non avea perciò avuto motivi d’inasprirsi, e non ostante il difetto che gli abbiamo apposto, la sua aggiustatezza, i suoi modi affettuosi ed onesti, e la tenera gratitudine che mostrava a Niccolò, gli avevan compro l’amore del vecchio, de’ figli e di tutti quanti lo conoscevano. V’era però in casa tal persona che l’amava senza esserne forse neppure avveduta, in modo diverso dall’altre, ed era Laudomia.
Per verità, se mai due cuori dovevano incontrarsi, i loro erano quelli. Ma Lamberto quantunque si sentisse portato verso di lei dalla simpatia che nasce dalla somiglianza de’ caratteri, era però rattenuto da quello splendore puro e verginale che appariva in essa, pel quale veniva a giudicarsi troppo inferiore a cosa tanto alta e divina.
Rade volte la vedeva, e più rado le parlava, e gli parea persino Laudomia l’avesse in poco conto, e lo sfuggisse. Il timido ed onesto giovane pensava «merito forse un suo sguardo?» Ma la figlia di Niccolò era lungi dall’averlo in dispregio, e lo sfuggiva per quell’intimo senso di pudore che era sua guida.
Lisa invece teneva con Lamberto altri modi. Lo trattava con quella sicurtà confidente, di chi è certo non gli si trovi a ridire. L’anima amorosa e candida di Lamberto era in quella stagione ove tanto facilmente s’apre all’amore, come all’aura d’una nuova vita: ove il potere di questo si fa sentire prima d’aver trovato l’oggetto su cui fermarsi. Tempo pieno di perigli, d’angosce, di dolcezze e di trepidazioni, ove l’uomo è quasi sempre colto al primo laccio ed allettato dalla più agevol’esca. Tutto sta a non capitar male!...
Il cuor del giovane che non avea osato innalzar i suoi voti sino a Laudomia, si volse a Lisa appoco appoco senza quasi avvedersene e volerlo, e finalmente se le diede vinto, ponendo in essa sola ogni suo bene ed ogni suo pensiero.
Quel senso avveduto e sottile che la natura ha posto in ogni donna, e che precede l’esperienza, mostrava a Lisa benchè giovanetta qual fosse per lei il cuor di Lamberto. Essa godeva di sapersi amata. E qual cuore umano non ne gode, sia pure illibato ed innocente? Ma questa compiacenza era forse per essa più di amor proprio che di cuore. Sentendo molto altamente di se, aveva caro codesto amore come una prova di più di quanto valesse: se si vuole avea caro anche Lamberto; l’avrebbe fors’anco amato perdutamente, ma non poteva capirle in mente l’idea di divenir moglie di chi passava la vita sua col braccio in mano a misurar broccato.
Lamberto poi, che per natura e per sapersi persona cotanto umile già dubitava di sè, parte immaginando i pensieri della giovine, talvolta usciva di speranza affatto, talvolta vedendosi tanto accarezzato da Niccolò e trattato come un figliuolo, un poco si riconfortava, ed il vecchio, che pure per quanto glielo concedevano i suoi molti pensieri, s’ingegnava scoprire qual fosse il cuor della figlia pel suo Lamberto, fatto quasi certo che tra esso e la Lisa qualche cosa ci fosse, procurava senza troppo aperte dimostrazioni di lasciar però conoscere ch’egli non avrebbe posto ostacolo alla loro unione.
Alla fine, un giorno ch’egli era solo in camera con ambedue, essa a caso uscì, e Lamberto non pensando di venir osservato le tenne dietro col guardo: con un guardo che assai diceva. Niccolò sorridendo, e postagli una mano sul capo gli disse: «Lamberto, io ti voglio quanto bene io ho, perch’io ti conosco intero uomo dabbene, e sappi che per dar marito alla Lisa io non guarderò che sia ricco nè che sia di gran casato; ma che sia un giovin dabbene e che le piaccia» e soprastato così un momento, guardando amorevolmente il giovane che avea il viso come una brace, ripetè ancora «che le piaccia, tu m’hai inteso.» Niccolò era già uscito di camera, che Lamberto aveva ancora a batter palpebra, ed a muoversi, tanto gli parea di sognare. Alla fine riscossosi, e pazzo per l’allegrezza disse «ora s’io non saprò guadagnarmela avrò a dolermi di me.» Ma ad avvelenar questa gioja gli sovvenne ad un tratto, ciò che gli era parso indovinare, che la Lisa fosse troppo altera per porre l’amor suo in basso luogo, e per la prima volta in vita sua si sentì offeso dell’oscura povertà de’ suoi natali: per la prima volta pensò sospirando «Oh fossi nato un signore!» Ma tosto quasi facendo vergogna a sè stesso di questi inutili rammarichi, diceva scuotendo il capo: «Non son io forse un uomo come un altro?» e colla fervida fantasia vedeva quasi schierarglisi innanzi quanti in Italia per le loro virtù eran di povero stato, saliti in grado ed in autorità. Rammentava quanto aveva letto di Castruccio, d’Uguccione della Faggiuola, e di Sforza, e del Carmagnola, e di tant’altri, e prendendo per se quel passo del Purgatorio di Dante, esclamava Son io pure «di quel paese
....ove un Marcel diventa
Ogni villan che parteggiando viene.»
Passando poi da un’idea all’altra vieppiù si confermava in questi pensieri così ragionando: «Niccolò, è vero, mi darebbe la Lisa, perchè son figlio di chi ha dato il sangue per lui, ma non per questo tralascerà di conoscere che io son nato d’un povero operajo, e che potrebbe, purchè volesse, dar la Lisa al primo uomo di Firenze, e gliene saprebbe il buon grado.»
L’animo di Lamberto nobilmente altero si sdegnava all’idea che il suo benefattore, che la Lisa, non avrebbero però mai cagione di andar superbi di lui, e riscaldandosi in quest’immaginazione gli pareva già veder Laudomia sposa d’un qualche grande, e che il cognato si vergognasse del povero Setajolo, che gli amici e le brigate lo lasciassero da canto, che la sua Lisa (secondo il solito se la dipingeva una perfezione) offesa da questi sprezzi lo volesse difendere, avesse a farglisi sostegno, quasi a proteggerlo!.... quest’idea lo trafisse a un tratto così amaramente, e passar la vita a quel modo gli parve cosa tanto dolorosa e vigliacca, che con subita risoluzione fermò in cuor suo di voler ad ogni costo prepararsi quella che si sentiva poter meritare. Pieno d’ardire e di speranza si vide a un tratto apparire innanzi agli occhi come una scena nuova tutta piena e risplendente di fatti d’arme, di vicende e di gloria; in fondo alla quale vedeva se stesso chiaro nella milizia, signore di castella, onorato e potente, e la Lisa tenuta in conto di gran signora, ed invidiata dalle compagne e dalle amiche; ebbro di queste seducenti immagini, conoscendosi saldo d’animo e di corpo, atto d’ogni difficil cosa, esclamava, quasi sdegnato di non aver avuto prima cotali pensieri:
«Pur beato ch’io m’accorsi alla fine d’aver cuore e braccio al pari d’ogni uomo!» e soggiungeva: «Se Iddio m’ajuta come m’ajuterò da me, Niccolò non avrà ad arrossire di suo genero, nè la Lisa ad invidiare altra donna.»
Il disegno di Lamberto di darsi al mestier dell’armi non era in quel secolo privo d’una certa probabilità che venisse a riuscire ad una splendida fortuna; ben inteso che chi vi si metteva avesse ad un grado eminente le doti che rendono atto a tale ufizio, e che una palla d’archibuso non gl’impedisse troppo presto di farle valere. Durava ancora per la milizia il costume de’ condottieri, ed era libero a ciascuno di divenirlo, purchè salisse in tal riputazione tra la gente d’arme che molti si contentassero d’averlo per capo. Ogni soldato, facendo il mestiere per propria scelta, e come un modo d’arricchire e salir in grado, concorrevano in maggior numero a quel condottiere col qual si ripromettevano miglior fortuna. Esso poteva, accettando e rifiutando a sua posta, farsi una compagnia scelta; e questo modo di formar l’esercito avea di buono, che nessuno senza esser valente della sua persona, e senza grand’esperienza nelle cose di guerra non giungeva al comando.
Ma al momento di mandar ad effetto le sue risoluzioni, un pensiero gli si parò d’innanzi, se non come ostacolo insuperabile, almeno come una difficoltà, che sempre è più grave, quanto più è virtuoso l’uomo che l’incontra. Lamberto aveva ancor sua madre. Essa era, prima di prender marito, una buona contadina di quel di Lucca, e venuta a Firenze con Piero, era stata seco molt’anni prima che le nascesse Lamberto. Si sarebbe potuto applicarle l’elogio racchiuso in quelle quattro parole che serviron d’epitaffio ad un’antica dama Romana:
Domum mansit=Lanam fecit[20].
Ma mi pare di sentire qualcuna delle mie leggitrici, se avrò la fortuna di trovarne, dire sorridendo «già noi povere donne non abbiamo ad esser buone ad altro che a star a casa a filare!»
Ah care le mie donne! (già suppongo che siamo d’accordo sul non prender letteralmente le parole dell’epitaffio) se sapeste quanto vi rende grandi, nobili, importanti ai miei occhi, l’incarico a voi commesso dalla provvidenza nel mondo!
Se il vero bello, il vero grande, l’importante finalmente ha a misurarsi dall’utile e dalla virtù, chi potrà credersi più importante d’una buona moglie, d’una buona madre? Chi regge i primi passi, chi consola i primi affanni di questi uomini superbi, che cresciuti poi si tengono dappiù di voi, ed a voi pure debbon ricorrere se voglion trovare sollievo alle miserie della vita? Chi al par di voi è capace viver vita di sagrifici, immolarsi del tutto al bene, alla felicità della persona cui donaste il vostro amore? Gli atti d’eroismo presso gli uomini sono sempre sostenuti dagli applausi e dalle lodi: per voi invece quanto può operar d’arduo e di grande la virtù in un cuore umano, resta il più delle volte ascoso ed obbliato tra le pareti domestiche. E se ciò non ostante siete virtuose ed utili, qual gloria, qual merito maggiore!
Se sapeste quanto stia in vostra mano il bene dell’umana società, che tutto è posto alla fine nel bene delle famiglie! Se sapeste quanto da voi dipenda far gli uomini generosi, arditi, amanti della patria, farli umani, operosi, sapienti, fargli gentili e costumati, non invidiereste al nostro sesso i tristi privilegi d’ammazzar uomini in battaglia, o coll’ampolle e le ricette, che sono i due modi approvati per mandarli all’altro mondo; di tormentarli, o rovinarli coi codici, le cause e mille malanni; di torcer loro il giudicio, e gabbarli coi libri.... e Dio voglia che la gentil leggitrice non aggiunga del suo «e di farli sbadigliare con dei racconti simili a questo!» Ma non voglio supporla ingrata: che se le donne non son dalla mia questa volta, non c’è più speranza. Ora torniamo alla madre di Lamberto.