Читать книгу Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni - Massimo d' Azeglio - Страница 12

CAPITOLO IX.

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Essa era stata sempre non solo moglie fedele ed illibata, che se ciò basta ad un marito quanto all’onore, non basta quanto alla felicità, ma avea saputo, nei limiti angusti d’una povera casa, esser massaja senza miseria, provvedendo che il marito ed una fanticella non patisser di nulla, e potessero anche mostrarsi onorevolmente vestiti secondo lo stato loro. Ciò non ostante ad ogni fin d’anno trovava il modo di riporre qualche danaro pei casi impensati. Dove non giungeva la provvisione che veniva pagata a Piero da Niccolò, cercava supplire col lavoro dell’aspo, che facea girare tutto il giorno e parte della notte talvolta; tantochè le vicine, quando sgridavano i loro bambini perchè eran frugoli, che non istavan mai fermi, dicevan loro «Tu sembri l’aspo della Nunziata.»

È vero che la buona donna conscia dell’ottimo ordine col quale governava la casa, si lasciava andare a brontolar un poco quando tra i suoi sudditi appariva qualche segni di ribellione. Ma siccome e sudditi e governo, eran d’accordo in sostanza, e contenti per l’essenziale gli uni dell’altro, accadeva nella famiglia di Piero, come in Inghilterra, che se talvolta sorgon contese, nessun però vuol mai spinger la cosa al punto di capovolgere del tutto lo stato. Se il paragone è un po’ troppo disuguale per le dimensioni, l’importanza relativa è all’incirca la stessa, perciò preghiamo il lettore ad ammetterlo.

Finchè era vissuto Piero le cose erano andate così. Dopo la sua morte Niccolò s’era a suo tempo tirato in casa il picciol Lamberto, ed accomodata la Nunziata d’una casetta ch’egli aveva poco lontana dietro S. Lorenzo, ove la buona donna, quando le furori cresciuti gli anni e sopraggiunti gli acciacchi della vecchiaja, potè rallentare un poco il lavorìo dell’aspo, stante gli ajuti di Niccolò, de’ quali si può dire vivea quasi interamente. La sua casa consisteva soltanto in una camera ed una cucinetta: ma siccome sempre la Nunziata s’era dilettata dell’ordine e della pulizia, la teneva rassettata e netta come uno specchio.

Sul letto, sempre rifatto che non faceva una piega, era sparso qualche fiore come s’usava allora in Firenze: appiccate al muro, sopra il capezzale, molte cosarelle di divozione; il ramo d’ulivo, il palmizio, il cero pasquale, e madonnine e santini. Nell’altro lato della camera uno scaffale con suvvi disposte in ordine stoviglie di terra e di stagno che splendeva come fosse argento, e tra mezzo molte fronde d’alloro: un desco, qualche sedia, l’aspo, compagno indivisibile di tutta la vita, ecco qual era la camera della Nunziata. La sua persona piccola ed asciutta come colei che avea durata troppa fatica alla vita sua per poter ingrassare: i panni ruvidi ma ben composti senza una macchia.

La buona vecchierella viveva felice in quella casetta senz’altra compagnia che d’un gatto nero, il quale poteva dirsi più compagno che soggetto, a veder quali modi teneva in tempo di pranzo e di cena. Essa si cucinava e si serviva da se, soltanto le vicine, ora l’una ora l’altra, vedendola vecchia ed inferma, attingevano l’acqua che le bisognava, per loro amorevolezza non per mercede: giacchè generalmente i poveri tra loro (aprite gli orecchi, ricchi e signori!) quando non possono ajutarsi coll’avere, s’ajutano colle braccia.

Nella sua solitudine raramente interrotta, la buona vecchia aveva però un pensiero vivo, incessante, che l’occupava tutta: quello del figlio. Cominciando dall’allevarlo col proprio latte, e su via via per gli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e della gioventù, s’era ingegnata con tutti quei modi che le suggeriva il suo amore, di dargli tale avviamento ch’egli avesse per prima cosa a riuscire un uom dabbene, e potesse poi godere di tutta quella felicità che era compatibile colla sua povera fortuna. Al modo che lo vedeva stabilito in casa i Lapi le pareva che tante cure e tanti pensieri avessero pur servito a qualche cosa: ed ora faceva di tutto onde Lamberto coi suoi portamenti venisse ogni dì più avantaggiando i fatti suoi. Quando un bel giorno ecco che egli le confida il suo amore per la Lisa e le speranze che nutriva: la buona donna, che non sapeva immaginare al mondo altro di grande, di ricco, di potente che la casa Lapi: cui pareva già toccar il ciel col dito vedendovi il figlio costituito in ufficio poco più che di servo, conoscendo di giunta che testina avesse la Lisa, si sbigottì tutta tremando che con quest’amore il figlio non venisse a far isdegnar Niccolò, e guastar in tutto i fatti suoi, onde prese a mostrargli quanto pericolo fosse in simil cosa, e molto lo pregò a volersene togliere, e sospirando, diceva: «Se almeno avessi posto in Laudomia l’amor tuo: Cotesta, figliuolo, farebbe per te, ma non è tua pari, neppur essa. Pensaci Lamberto!»

Nunziata, come tutte le donne avanzate in età, che standosene sole tutto giorno, se hanno cosa alcuna che le tenga in sospetto, a furia di fissarvi sopra il pensiero, si scaldano il cervello, e se la dipingono mille volte più terribile e pericolosa che non è in effetto, viveva in grandissima sollecitudine pel figlio; e quando questi veniva a passar qualche ora con lei, s’ingegnava con quelle ragioni, e quelle carezze che sa trovar una madre amorosa, di fargli entrare quei consigli ch’ella stimava fossero pel suo migliore.

Le cose erano a questo termine quando il discorso di Niccolò cambiò in certezza la speranza di Lamberto e lo spinse a quelle risoluzioni che abbiamo accennate.

Ma come annunciarle alla madre? Come separarsi da lei, e forse per sempre? Come dire a lei, vecchia inferma, amorosa sopra tutte le madri «Vi lascio e vado in guerra?» Lamberto, quantunque in molto travaglio per queste idee, non si smarrì.

Sapea che la madre, come tutte le donne del secolo XVI, era assuefatta all’idea che è cosa virtuosa e virile talvolta il prender l’armi, e che lo sconsigliarne i mariti ed i figli, ove abbiano onesta cagione d’impugnarle, è atto vile e dappoco. Di fatto la Nunziata cresciuta in tempi torbidi e travagliati, aveva, e per le cose vedute e pei discorsi uditi continuamente, avvezzato l’animo alla lunga a pensieri forti ed arditi; onde quando Lamberto, dopo averle replicate le parole di Niccolò, le aprì il cuore interamente dicendole quanto avea fermato d’eseguire, con tutte le ragioni ed i rispetti, che aveva lungamente pesati in cuor suo, bensì sulle prime parea non sapesse risolversi a tanto sagrificio, ma poi a poco a poco si diede se non contenta almeno rassegnata alle ragioni del figlio. Essa era povera, non avea lettere, ma era capace di que’ pensieri generosi che germogliano in una bell’anima anche senza l’ajuto de’ libri. Passato quel primo sgomento, e considerando più pacatamente la cosa, le piacque l’idea di Lamberto di non accettare una tanta ventura prima d’essersene reso degno.

Sentì un nobile orgoglio pensando che il figlio diverrebbe genero d’uno de’ primi cittadini di Firenze, senz’esserne obbligato soltanto alla sua umanità: che a quell’uomo dal quale s’eran ricevuti continui beneficj senza mai poterli menomamente ricambiare, si potrebbe pur alla fine render merito in qualche modo, o mostrare almeno d’avervi posto ogni studio, onde se v’era difetto s’attribuisse alla fortuna e non a viltà di pensieri. Insomma la partenza di Lamberto venne risoluta d’accordo.

Mentre segretamente si metteva in ordine di panni, d’arme e dell’altre cose che gli bisognavano, parte spendendo de’ suoi danari, parte di quelli della madre, che in questo suo bisogno gli volle donare tutt’i risparmi fatti in tanti anni; una parola uscita di bocca alla Lisa lo confermò sempre più nelle sue risoluzioni, e ne affrettò l’esecuzione. L’udì un giorno, parlando co’ fratelli d’un giovane loro parente che attendeva allo studio delle leggi, dire: «Quanto a me non mi pare uomo chi non vedo a cavallo colla corazza sul petto.» Queste parole suonarono all’orecchio di Lamberto come gli avesse detto «Ora se vuoi avermi tu sai quel che hai a fare».

Due giorni dopo sulla prim’alba il giovane coperto di tutte arme picchiava all’uscio della Nunziata, per abbracciarla e domandarle la benedizione. Il lettore potrà facilmente immaginare gli atti e le parole d’ambedue senza che prendiamo a descriverli minutamente. Al momento di dividersi, la povera vecchia preso tra le mani scarne e tremanti il capo del figlio, che avea posto in terra le ginocchia, lo baciò in fronte, lo benedisse, e ponendogli al collo un crocifisso d’ottone gli disse «Questo non lo lasciar mai, figlio mio, ti porterà ventura» e Lamberto partì.

Ma prima d’avviarsi alla porta S. Gallo ov’era il suo cammino, volse il cavallo e lo fermò al portone di casa i Lapi. Mai gli era bastato l’animo di parlar proprio schietto ed aperto alla Lisa; ma ora il momento del distacco, la risoluzione presa, lo facevano animoso; quell’arme stesse che lo coprivano, già gli pareva sentire l’avessero mutato in tutt’altro uomo, e forse (era così giovane!) godeva mostrarsi alla Lisa tutto lucente di ferro, e pensava: quando sarò lontano e si ricorderà di me, mi vedrà colla spada e la rotella, e non con quel maladetto braccio e quei maladetti broccati.

Smontò da cavallo, e su per le scale risolutamente giunse alla loggia dell’ultimo piano. Lisa alzatasi pur allora era uscita con un infrescatojo ad annaffiare i suoi fiori prima che levasse il sole.

Le parole furon pronte e brevi.

—S’io ritorno, disse Lamberto tenendosi a due passi dalla giovane, e colle mani giunte in atto di preghiera, s’io ritorno sarò degno di voi, s’io non ritorno... vorrà dire che Lamberto vostro avrà perduta la vita per meritarvi. Ove ciò sia, avrete memoria di me? Se Iddio mi serba a miglior fortuna, sarete contenta aspettarmi?—

Lisa s’era appoggiata al muricciuolo della loggia, chè quella comparsa improvvisa, quell’arme, le parole del giovane gravi e tenere al tempo stesso, le aveano messo in cuore siffatto turbamento, che le ginocchia le tremavano.

Sentì velarsi la vista da una nube dì lagrime, e rispose sotto voce volgendo il capo in altra parte:

—Sì, povero Lamberto!—

Stesa poi la mano ad un vaso di rose tutto in fiore, ne colse una, la diede a Lamberto, e fuggì nelle sue camere.

Lamberto in un momento fu in istrada: il moto del salire a cavallo sfrondò la rosa, ed un po’ di vento che soffiava ne disperse le foglie.

Lamberto tutto sbigottito le guardava volare tremolanti e spandersi all’intorno.

Si pose in seno, sospirando, il gambo e le fronde verdi che rimanevano, e spronò al suo viaggio col cuore stretto ed il pensiero a quella rosa che tanto poco era potuta durare intera.

Non lo deridiamo, povero giovane! quando il cuore si trova a questi passi, un’inezia basta ad affliggerlo come a consolarlo.

La Lisa intanto aveva narrato il successo alla sorella, e presto Niccolò ed i fratelli seppero anch’essi la partita di Lamberto. Saliti nella sua camera trovaron, lasciata sulla tavola, una lettera per Niccolò: in essa il giovane dopo avergli rese le grazie ch’eran dovute al tanto bene che avea avuto da lui, dopo avergli chiesto perdono s’egli partiva senza toglier commiato, e senza aver da Niccolò, come da padre, la benedizione, gli si apriva interamente, dichiarandogli che nonostante il grande amore nutriva per la Lisa, non ostante le benigne parole del padre, egli non era però tanto cieco da non conoscere quanto la persona sua fosse inferiore alla ventura che gli si voleva far sperare: che gli sarebbe parsa gran villania, e troppa indegna riconoscenza dei tanti beneficj, il valersi sul momento della generosa profferta che Niccolò gli faceva per effetto di sua buona natura: che andava a porre in opera tutte le virtù dell’animo e le forze del corpo per mostrare almeno al mondo che s’egli era persona umile e povera avea però spiriti e pensieri meritevoli di miglior fortuna. Pregava poi la Lisa ad aver qualche memoria di chi tanto fedelmente l’amava, e ad aspettarlo un pajo d’anni, sperando potere, prima che fosser trascorsi, farle udir tali novelle che avesse a dire: Lamberto è divenuto un uomo.

E ciò lo scrisse con un frego di sotto, volendo riferirsi alle parole della Lisa.

Niccolò per la sua fiera natura amante de’ caratteri forti, rimase ammirato del partito preso da Lamberto; e quantunque molto glien’increscesse non si sapeva saziare di lodarne l’alta cortesia. E la Lisa considerando che il giovane soltanto per amor suo andava incontro a tante fatiche e a tanti pericoli, colta nel lato debole del cuore, crebbe agli occhi suoi proprj, e sentì che potea andar superba d’un tale amante.

Per ogni donna che sia del carattere della Lisa, è ben raro che l’amor proprio appagato non ischiuda la porta all’amore: ed in quei primi momenti udendolo desiderare e lodare da tutti le parve amarlo e forse l’amava realmente. Interrogata da Niccolò in quel primo calore, rispose ch’era contenta aspettarlo, e nella sua inesperta semplicità, già le pareva vederlo tornare signore d’un reame.

Ora vuoi sapere, o lettore, chi aveva posto in animo a Niccolò il dire ciò che disse a Lamberto? Era stata la buona Laudomia, che accortasi del suo amore, e stimandolo gran ventura per la sorella, avea con quella sua celeste bontà, cancellato tosto, o rinserrato almeno nel più profondo del cuore, ogni pensiero di se stessa, per occuparsi soltanto del bene della Lisa e di Lamberto, che da quel punto amò sempre come gli fosse stato fratello.

Tanto è vero che a questo mondo, vivon talvolta nascoste in qualche angolo ignoto, anime di eroi, a petto alle quali Alessandro, Cesare, e tanti altri simili a questi, son pure la povera e la meschina razza! e la differenza è presto capita. I secondi tormentaron gli altri per giovare a sè. I primi tormentan se stessi per giovare agli altri.

Faceva l’anno dacchè Lamberto era partito, nè, da una prima lettera in poi ove diceva essere agli stipendj del sig. Filippino D’Oria e militare sulle sue galee, s’era potuto saper altro sul fatto suo. Si cominciava a dubitare non fosse capitato male, e nel cuor della Lisa la sua immagine s’andava cancellando per la lontananza, per l’incertezza dell’evento, e più di tutto perchè l’immagine di Troilo veniva occupandone il luogo. Si può pensare se alla buona Laudomia, recasse dolore veder quel Lamberto che il suo cuore avea saputo così bene conoscere e pregare, cui avea però rinunciato con tanta virtù per farne felice la sorella; quel Lamberto che avea lasciato patria, parenti, agi ed amici, ed avea mostrata tanta altezza di pensieri per amor di essa, vederlo, dico, posto in obblìo così presto per un pazzarello, per un cortigiano scannapane, per uno di quella parte dalla quale erano venute addosso a Firenze, e sulla sua casa cotante sventure. Laudomia era gelosa dell’onor di Lamberto, e non potea patire di vedergli fare un così gran torto; questa era la più potente cagione per la quale tanto l’offendevano i portamenti della sorella.

Nè potendo più reggere alla passione e tacere, una sera sull’imbrunire, in quell’ora che più di tutte può dirsi l’ora della confidenza, trovandosi sola con essa in camera, le prese le mani e le disse quasi piangendo—Oh Lisa! ed il povero Lamberto!.... la sua fede!.... il suo amore!.... l’hai proprio dimenticato del tutto?.... Alle quali parole Lisa ne rispose poche e brevi, ma amare e superbe. Laudomia tacque, uscì di camera, e trovatasi sola pianse dirottamente, come si piange quando, sulla virtù, sui pregi di persona che s’ami si è costretti a dire: «Io m’era ingannato!»

Ma venne ben presto il tempo in cui quella freddezza che sentiva per essa scomparve e si cangiò in compassione, in premura più calda, più tenera che mai. Verso il finir di maggio Niccolò si condusse colla famiglia ad un podere ch’egli aveva presso il Poggio a Cajano, villa de’ signori Medici. Egli ed i figli venivano di continuo a Firenze per loro faccende, onde spesso le due sorelle rimanevan sole con una vecchia fante detta Mona Fede, buona, ma credula e di corto ingegno che non si potea trovar peggio.

Una mattina Laudomia che soleva dormire colla sorella, svegliatasi a levata di sole, non se la trovò più allato. Pensando fosse scesa in giardino per goder l’ore fresche, v’andò; ma non v’era, e neppure la fante, tantochè non sapea che pensare. Dopo un pezzo comparvero ambedue, ma come sbigottite e scompigliate, e pareva parlassero e rispondessero a sproposito. Laudomia cominciò a tremare, e condottasi in camera la sorella, le domandò affannata che cosa l’avesse così per tempo condotta fuor di casa, e che volesse dir quel suo sbigottimento.

Diede, l’incauta giovane, in uno scoppio di pianto, e buttandosele al collo disse: «Sono sua moglie!».... Laudomia all’udir quelle terribili parole che suonarono al suo orecchio come la profezia d’interminabili sventure, rimase senza respiro: e coprendosi il viso colle mani potè dir solo «Ah sciagurata, che cosa hai fatto!» Visto poi che in quel momento non avrebbe potuto ricavar altro dalla sorella, corse, per chiarirsi, alla fante, e con parole affannose ora pregando, ora sgridandola, pur alfine fece parlare quella povera vecchia, che maravigliandosi molto di veder tanto turbata la Laudomia per questo fatto, non restava di dire che Troilo era un gran gentiluomo, e molto onorato partito per la Lisa, e che se avea voluto far le cose così in segreto, co’ signori non bisognava guardarla tanto pel sottile, avendo anch’essi le loro fantasie, e che Niccolò alla fine si sarebbe poi trovato contento, ed altre simili sciocchezze.

Insemina, per dirla in una parola, la cosa era fatta, ed il turpe modo, il lettore lo conosce: ma nessuna di quelle povere donne lo conosceva, anzi la fante per vieppiù rassicurare la Laudomia, narrava particolarmente la cerimonia esaltando la cortesia dello sposo ed affermando essersi eseguito il tutto colle debite regole in chiesa col prete, i testimonj ec., tantochè l’animosa giovane conosciuta niuna cosa esser più vana ed inutile, che disperarsi quando il male non ha rimedio, prese il savio partito di volger tutte le cure a prevenirne le tristi conseguenze. Il suo primo pensiero, ed il consiglio che diede alla Lisa fu gettarsi tosto a’ piedi di Niccolò e confessargli il tutto, ma non le bastò l’animo di seguirlo. Rade volte chi ha bisogno di un tal consiglio è capace di mandarlo ad effetto. Si spera coprire colla simulazione un primo fallo, ma quel male che conosciuto tosto amine Merebbe rimedj, ignoto si fa incurabile. Se Lisa avesse dato retta alla sorella, avrebbe avuta ad incontrare senza dubbio la prima furia di Niccolò, ma poi volendo questi aver in mano le prove della validità del matrimonio si sarebbe scoperta la vile ribalderia che v’era sotto; diveniva facile, ed in tempo il rimedio, e la misera Lisa non sarebbe finita.... Ma narriamo le cose per ordine.

Il cuore umano è talmente impastato dell’amore di se stesso, che le anime più nobili anch’esse, in parte almeno gli vanno soggette. Laudomia udito il caso della sorella non potè non pensar subito «Dunque Lamberto è libero!» Ma fu tanto dolente di aver avuto un tal pensiero quasi per primo, le parve cosa tanto abbominevole e vile aver potuto trovar bene a se stessa nella colpa della sorella, che nell’innocente sua semplicità già si teneva per una perversa, e piangeva amaramente. Raddoppiò le premure per Lisa, e le pareva quest’aumento di tenerezza le alleggerisse il cuore, stimandolo quasi un risarcimento del torto che credea averle fatto. Colla speranza che il tempo offerisse poi una qualche occasione favorevole di dare miglior piega alle cose, scelse per partito migliore (dacchè a ogni modo era pur moglie di Troilo) ajutarla a tener quest’unione celata ed agevolarle i modi onde talvolta segretamente potesse trovarsi con suo marito.

La cosa andò così innanzi più mesi con poca soddisfazione però della povera Lisa che potea vederlo ben rare volte per la soggezione in cui vivea: costretta poi a premere i suoi dispiaceri e vivere in continuo sospetto, s’era dimagrata, avea perduto il fiore giovanile, e non pareva più quella di prima.

L’appassire della sua bellezza le era di tanto maggior dolore, quanto le era parso avvedersi d’un certo raffreddamento per parte di Troilo, ch’essa amava invece ogni giorno più ciecamente. Prima, quando non gli riusciva accostarsele, si mostrava però a lei in istrada, in chiesa, ovunque potesse: poi le era sembrato che piano piano andasse rimettendo di queste premure. La povera giovane si sentiva, com’ è naturale, pungere da’ sospetti; pensieri di gelosia tanto più tormentosi quanto meno era in grado di saperne il vero, le pullulavano in cuore; tutt’insieme menava vita meschina e malcontenta, e coglieva pur troppo presto gli amari frutti dell’errore commesso.

Ma l’infelice era appena in principio de’ suoi guai. S’accorse in modo da non poterne dubitare che presto non sarebbe più sola a portar la pena del suo fallire.

Quel momento aspettato bensì, ma pure pieno di tanto nuova allegrezza, di tanta trepida sollecitudine per le spose novelle, fu per la povera Lisa come l’annunzio d’una sventura. E qui nuovi motivi e nuove difficoltà per celarsi; aumento di patimenti pel presente, aumento di timori per l’avvenire.

È inutile distendersi nel minuto racconto dei modi tenuti da ambedue le sorelle per celare in quegli ultimi giorni d’angoscia e di dolore prima la madre, poi il bambino. L’esperienza ha più volte mostrato poter passar segreti ed inosservati fatti simili a questo anche in famiglie nelle quali vegli l’occhio materno: in casa i Lapi poi fu cosa agevole celarsi a Niccolò, lontano le mille miglia da cotali sospetti, tutto avvolto ne’ pensieri della città e della mercanzia, spesso fuor di casa, e, quando vi era, sempre racchiuso nelle sue stanze terrene.

Ma questo segreto custodito con tanto studio, e per tanto tempo, per poco non si venne a scoprire per cagione della Lisa medesima. Per quanto Laudomia e la fante la scongiurassero, non vi fu verso a persuaderla si separasse dal suo bambino per confidarlo ad una balia. In un carattere più docile codesto amore, quantunque bello e virtuoso, si sarebbe però piegato sotto la quasi assoluta necessità, ma essa volle: e trovata opposizione volle con tal impeto, con tali smanie, che facendo dubitare della sua vita in quei momenti di sfinimento, bisognò pure arrendersi e contentarla. Ma allora fu indispensabile aprirsi ad altra donna. Sotto colore che pel governo de’ panni bisognasse una fante di più, fu presa in casa una giovane d’un sesto assai lontano, la quale venutavi col bambino della Lisa ne fu creduta madre e si teneva l’allattasse.

Per non esser in casa altro che uomini i quali avean il capo a tutt’altro, anche questa andò bene.

Bensì, Niccolò e taluno de’ figli udendo talvolta su in alto i vagiti del bambino dicevano alle giovani «Che domin siete andate cercando di metterci in casa questa tristizia! Mancan eglino donne in Firenze?» Ma la cosa tosto si quietava.

Gli uomini la dicevano, e le donne la facevano a modo loro: come accade per lo più nelle famiglie quando tra uomini e donne si discute circa le cose domestiche.

Troilo intanto malgrado la cacciata de’ Medici, e l’abbassamento della parte Pallesca, era rimasto in Firenze con buon numero de’ suoi consorti, e vi s’andava mantenendo per trovarsi a portata, ove gli venisse fatto, di giovare ai suoi signori ed alla parte.

Quando poi i capitani di Carlo V rupper guerra a’ Fiorentini apertamente, cresciuti i sospetti nel governo pei quali si mostrava ognora più rigido verso i fautori della famiglia sbandita, parve a molti di questi tempo oramai di fuggirsi. Il seduttore della Lisa partito anch’esso segretamente, si condusse al campo degl’imperiali, che facean la massa a Fuligno: non potè, o non volle far motto alla figlia di Niccolò, prima di lasciar Firenze: le scrisse però in modo di consolarla e racquetarla alquanto. Non essere, scriveva, atto di leale, e d’onorato gentiluomo romper fede a’ suoi signori, ed abbandonarli nella mala fortuna; stesse di buon animo, avesse cura di se, del loro piccolo Arriguccio; sperasse tempi migliori; poi proteste di amore, giuramenti di non esser giammai per mancarle ecc....

Quanto fosser sincere queste espressioni è difficile giudicarlo, poichè non sempre anche gli effetti contrarj, sono sufficiente argomento per asserire sieno state usate con animo di mancarvi.

Il fatto stà però, che da quella lettera in poi o Troilo non volesse farsi sospetto ai suoi con mostrare di tener pratiche in Firenze, o realmente fosse già spenta del tutto nel suo cuore ogni idea di virtù, d’onore, di compassione per la sua vittima, essa non ebbe più nè lettera nè riscontro veruno che le desse nuova de’ fatti suoi: e se ne vivesse malcontenta e sconsolata vel potete immaginare. Soltanto dopo parecchi mesi, quando già i nemici erano a campo sotto Firenze, venne a sapere pel canale di certi prigioni, che Troilo era in campo, e militava fra i gentiluomini del principe d’Orange.

Allora cominciò la meschina ad aprire gli occhi ed a tener per certo che Troilo fosse a lei traditore come lo era alla patria. «Esser così vicino, pensava, e non farmi aver una linea di scritto, non farmi dir una parola? Ah fossi io dov’è egli! fossi ne’ suoi panni! saprei ben io trovare i modi!»

Laudomia che aveva concepiti gli stessi sospetti anche prima della sorella si sforzava però di nasconderli, e di scusare il creduto cognato; e talvolta trasportata dal desiderio non si potea risolvere a crederlo ribaldo e sciagurato a quel segno.

Quantunque s’ingannasse, poichè è impossibile immaginare più vile ribalderia di quella colla quale avea tradita la Lisa, pure non era forse nato per esser uno scellerato, ed avrebbe per avventura avuti i semi di molte virtù se non gli avesse soffocati un vizio più di tutti pericolosissimo, la vanagloria. Questa passione la più credula ed al tempo stesso la più fallace conduce l’uomo direttamente al fine opposto di quello che gli promette, soprattutto s’appiglia ai cervelli leggieri. Troilo per sua disgrazia se l’era dato vinto fin da fanciullo: e trovandosi presto in compagnia d’uomini tra i quali il vizio fruttava onore, la virtù dispregio, si diede a quello non tanto per propria inclinazione quanto per vanagloria.

Il tradimento fatto alla Lisa venne da lui ordito e condotto a fine per potersi vantare d’aver vinta una prova. Vero è ch’egli in principio l’amava, o piuttosto (per non profanare una tal parola) gli era piaciuta la sua bellezza: forse lasciato ai propri pensieri, non si sarebbe mai condotto a farle cotale inganno: ma uccellato da compagni, che lo deridevano avesse tanti rispetti ad una popolana, figlia d’un Piagnone sagrificò barbaramente ad una meschina vanità l’onore di quell’infelice, e la pace d’una famiglia onesta e dabbene.

Ora che il lettore ne conosce le tristi vicende, torniamo ove Niccolò sedeva fra suoi nella forma descritta al principio del capitolo antecedente.

Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni

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