Читать книгу Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni - Massimo d' Azeglio - Страница 3
PREFAZIONE
ОглавлениеQuesto racconto che presento al pubblico non senza il batticuore dell’amor proprio in pericolo, fu incominciato nel 1833, e tralasciato cento volte per cagioni ora funeste ora fastidiose. Se egli serba le tracce di codesti disturbi, se per mio difetto rimane di tanto inferiore al suo tema, non per questo potrei senza ingratitudine dubitare del favore o dell’indulgenza almeno degli Italiani. Debbo ricordarmi che in grazia appunto del tema essi amorevolmente accolsero un mio primo saggio. Questo secondo lavoro, che anch’esso si raggira su un fatto non meno onorevole al nome Italiano, promette dunque uguale indulgenza a chi s’è disposto, insin che gli durin le forze e la vita, non aver un affetto, non un pensiero, che non sia dedicato alla patria.
Quantunque abbia preso a trattare l’epoca luminosa e terribile per la città di Firenze, in cui la repubblica si difese sola contro le armi di Clemente VII e di Carlo V, non ebbi tuttavia per iscopo dipingere il quadro completo dell’Assedio del 1529-30, ed il titolo stesso di questo racconto basta forse a mostrare che più degli eventi, mi sono proposto descrivere le passioni che in allora agitavano il popolo Fiorentino.
La relazione intera, minuta e regolare dell’Assedio, l’ha scritta meglio d’ogni altro il Varchi. Contemporaneo, attore anch’esso della sua storia, mosso dagli affetti del tempo, chi potea far meglio di lui? Chi oserebbe rifare il suo lavoro?
Agli storici dunque la storia. Al Varchi quella dell’Assedio; chè malgrado i suoi lunghi ed intralciati periodi, malgrado l’oscura irregolarità che talvolta s’incontra nella sua costruzione, sarà pur sempre quella che trasporta il lettore al secolo XVI con maggior illusione, che trasfonde nel cuor de’ moderni, i pensieri, le passioni, la vita tutta del cinquecento.
Ma se il Varchi disse bene, disse egli tutto? Tutto quanto si vorrebbe sapere sul fatto di quegli antichi uomini, che negli amori, nell’ire, nella fede, ne’ sacrifici e persin ne’ delitti, mostrarono una ferrea natura tanto lontana dalla moderna fiacchezza?
Ignoro qual sia la risposta del lettore. La mia è negativa.
No, non conosco tutto quanto vorrei conoscere quando leggo gli onorati fatti di que’ cittadini animosi, le battaglie, i tumulti, le pratiche; quando li vedo in piazza magistrati, soldati, capi di parte; io ammiro in essi la virtù, la costanza, la fortezza, l’ardire; io mi maraviglio che la natura umana abbia prodotto individui di così potenti facoltà, ma domando invano allo storico quali fosser costoro che eran pur padri, mariti, figli, fratelli, quali fosser, dico, quando dopo una tempestosa giornata ritornavan la sera tra le pareti domestiche; quando, deposto l’arnese di guerra, e cercando un po’ di sosta alle cure, ai travagli che li stringevano al di fuori, riprendevano negli intimi colloqui della famiglia la forza di gettarsi a nuovi pericoli, a nuove fatiche.
Trovata muta, insufficiente la storia, mi volsi alle cronache, ai carteggi, ai prioristi del tempo, alle tradizioni del popolo, ai monumenti. Interrogai le torri, le mura di Firenze, i bastioni di s. Miniato ove l’edera cresce e si stende ugualmente sui macigni repubblicani tagliati dallo scalpello di Michelangelo, e sull’impresa Medicea delle sei palle; come un’istessa tomba raccolse un tempo le ceneri di Polinice e d’Eteocle. Interrogai il Palazzo Vecchio, antico ed immoto testimonio di tanti trionfi, di tante rovine; che vide sorgere e cadere tante fortune: che dall’alto de’ suoi merli guelfi vide oppresso il duca d’Atene, vincitori i Ciompi, arso Fra Girolamo, strascinato il cadavere di Jacopo de’ Pazzi, calpestata tre volte l’idra medicea, e tre volte risorta: che sopravvisse alla repubblica, la vide vendicata nelle impure e sanguinose vicende della razza di Cosimo spenta vilmente dopo dugent’anni; edificio che ancora erge i suoi fianchi, sostiene l’alta torre d’Arnolfo posata a sottosquadro sulla facciata, destinato forse a veder tanti secoli nel futuro quanti ne vide già nel tempo passato.
Visitai il Palazzo del bargello, ove in età più remote i priori della repubblica ebber il primo tetto, le prime sale che fosser loro proprie, per ragunarsi a consiglio: vidi quella scala del cortile tutta di marmo coperta d’una rozza tettoja come fosse la scala d’un contadino;[1] quelle massicce lastre del cortile che nel centro invece di fontana o di statua che l’adornasse, ebber tante volte il ceppo e la mannaja: che divenner vermiglie pel sangue di tanti cittadini, morti ora a dritto ora a torto, ma virilmente sempre: marmi che rimbombaron sotto i colpi onde furon tolti di vita il Boscoli, il Capponi, Bernardo del Nero, Francesco Carducci penultimo gonfaloniere della repubblica, e tant’altri, i quali tutti persero il capo al tremendo giuoco che tra la casa de’ Medici ed il popolo di Firenze durò più di cent’anni.
Io scorsi le antiche dimore de’ cittadini, quei palazzi, o piuttosto fortezze domestiche di sasso annerite, merlate, tutte a un dipresso simili al palazzo Ferroni al Ponte s. Trinita; scorsi i cortili, le scale, entrai per tutto tentando figurarmi qual viso, qual discorso, qual costume avessero i loro antichi abitatori: come talvolta vedendo un elmo antico tutto rugginoso, ed alzandone la visiera, la fantasia tenta dipingersi il maschio ed ardito volto che dovette un tempo riempierne il vano.
Colla fantasia dunque (e qual altra guida potevo io avere?) cercai per tutto ed in tutti i modi l’antico popolo di Firenze: quel popolo di tanto nerbo, di tanta vita che, dopo 300 anni di agitazioni, di guerre, di discordie, di furori, di proscrizioni, si trovò pure nel 1530 abbastanza vegeto e vigoroso da resister solo alla potenza di Carlo V, e cadde dopo lungo contrasto più tradito che vinto; popolo che prosperò quando pareva portasse in seno i germi della distruzione, che s’invilì, perdette ogni generosità, ogni spirito quand’ebbe lunga e stabile tranquillità sotto la dominazione de’ Medici.
Forse perchè principio dello stato antico era accendere il pensiero della patria, principio dello stato mediceo conculcarlo ed estinguerlo.
Ma le orme impresse sul suolo di Firenze dai suoi antichi abitatori, la civiltà moderna le ha cancellate quasi del tutto. Le hanno cancellate gli stranieri che ogn’anno scendono a godersi e vilipendere, quasi cortigiana, l’Italia.
Contristato e pensoso del terribil giudizio che pesa sul nostro popolo, sperai almeno trovarne le antiche orme in qualche angolo dimenticato, ove gli usi, la lingua, il corso delle tradizioni, fosse rimasto puro, e non turbato dal passo delle genti nuove. Corsi il contado, salii sui monti di Pistoja, e mi consolai il cuore e l’orecchio udendo poveri pastori e contadini parlarmi la lingua del Firenzuola: ascoltando ciò che mi sapean narrare di Castruccio, di Francesco Ferrucci, che non avean certo conosciuti nelle storie o ne’ libri, ma d’età in età gli uni dagli altri avean imparato, che il primo fu un prode, il secondo morì sui loro monti per la salvezza di Firenze. Io benedico quelle ore ch’io passai colà seduto ad un umile focolare prestando orecchio ai rozzi e pur nobilissimi racconti di uomini semplici, che assai sapevano di quelle antiche e gloriose età, e nulla della presente, quasi un intimo senso insegnasse loro quel che essa vale. Io riuscivo persino in que’ colloquj a dimenticare questa età nostra, e mi parea, per dir così, viver in quell’altre, e vedermi innanzi vivi e reali quegli uomini che m’eran noti soltanto per averli veduti ritratti dagli storici, dai comici e dai novellieri.
Io gli ho pur trovati! dissi tutto contento. Io ho trovato i modelli che ho in animo di dipingere! E m’ingegnai di studiarli; di ritrarre quanto potevo col vero prima, poi ajutandomi colle induzioni, e colla fantasia, la vita intima, le passioni, gli affetti dell’epoca che avevo scelta per collocarvi gli attori del mio racconto.
Frutto di cotali studj, parte reali, parte fantastici, è questo mio lavoro; col quale, imitando gli architetti, che per dimostrare l’ordine interno d’un edifizio lo suppongono ne’ loro disegni tagliato pel mezzo, volli rappresentare in ispaccato la casa d’un popolano fiorentino durante l’assedio.
Io feci per fare bene tutto quanto potevo. Se invece feci male, pensi il lettore che anche a far male costa fatica, e s’incontra difficoltà.