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Capitolo 12

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Inizio estate 1040 (431 dall’egira), vallate ad est di Tragina

Passarono diversi giorni, forse una settimana o più, tempo in cui Conrad non smise di frequentare la chiesa rupestre. Vi dormì, vi mangiò, vi pregò e pian piano cominciò a scambiare qualche parola con chi vi ci si recava, soprattutto con quei pochi frati di rito greco che conoscevano la lingua d’oïl, ma anche con alcuni della servitù e dei soldati di guardia all’accampamento. Conrad vi passò così tante ore che nei pochi momenti in cui mise il naso fuori, i suoi occhi dolsero per l’intensa luce solare. Imparò chi fosse ciascuno dei personaggi dipinti sul muro, il nome di tutti i santi e si affezionò all’immagine di Sant’Andrea, orante a bocca aperta e facente il simbolo trinitario con la mano; proprio quel santo apostolo sovrastava la sepoltura del padre.

Roul e gli altri avevano girovagato tra le campagne per giorni, ed ora, di ritorno dall’inseguimento, rincasavano all’accampamento insieme al grosso dell’esercito. Erano le prime ore del pomeriggio quando Conrad sentì la gran gazzarra che proveniva da sotto e giurò che per certo tra le tende si festeggiava.

Non passò molto che il suo affidatario venne su.

«Figliolo, vieni fuori!»

Conrad allora uscì, ma rimase davanti l’ingresso.

«L’intero esercito ritorna.»

«Festeggerete voi per la vittoria… io porto il dolore per mio padre.»

«Molti dei soldati hanno perso un parente nella battaglia, un fratello e perfino un padre… Pochi giorni fa hanno sepolto anche loro i propri morti, e non in un bel mausoleo come questo, ma in mezzo al campo. Adesso però è giusto godere dei nostri sacrifici… loro sono morti anche per questo.»

«Non voglio lasciare mio padre.» avanzò Conrad.

«E se qualche infedele profanasse questo luogo?» rafforzò la sua tesi.

«Lo punirà il buon Dio, ma a tuo padre non possono ammazzarlo due volte. Oggi festeggeremo insieme, e poi, compenso in tasca, torneremo a Siracusa per dar manforte a quelli di noi che sono rimasti, in modo da completare l’assedio. Si è fatto un grande bottino in questi giorni… Dio solo sa quanti villaggi sono stati predati nell’inseguimento e sulla strada di ritorno! Ognuno avrà la sua parte e a te spetterà quella di tuo padre.»

«Non me la sono guadagnata.»

«Cosa ti sei guadagnato di tutto ciò che tuo padre ha fatto per te? Ragazzo, comincio a stancarmi dei tuoi capricci! Oggi quasi stentavo a credere che te ne fossi stato quassù per più di una settimana. Ma io non sono tuo padre, e se non potrò onorare la promessa che ho fatto a lui allora è tanto meglio che ti stacchi la testa con due dita piuttosto che averti tra i piedi!»

«Cosa volete da me?» chiese dunque Conrad alzando la voce.

«Che ti convinci che tuo padre è morto e che la smetti di frignare. E che tu sappia che io ero amico di Rabel, non tuo, per cui non mi farò scrupoli ad appenderti allo stendardo se non farai quello che dico.»

«Prendetevi la parte del bottino di mio padre e lasciatemi in pace.»

Quando dopo questa frase Conrad si voltò per andare a rintanarsi dentro la grotta, Roul l’afferrò per la nuca e lo issò ad oltre due metri d’altezza. La mano del guerriero abbracciava quasi tutto il collo del ragazzino, quindi la strinse a tal punto che gli occhi del più giovane parvero schizzare fuori.

«Mi chiamano Pugno Duro e dovrei farmi insultare da te, lurido moccioso? Non ci starò un niente a sfracellarti su queste rocce!» urlò che pareva il Diavolo.

Dunque lo fece cadere scompostamente lasciando la presa.

«Se qualcuno dovesse vedere come cerchi di calpestarmi, la mia reputazione verrebbe messa a repentaglio. Ho ucciso uomini per molto meno! Ringrazia tuo padre e il mio onore se oggi non ti strozzo. Adesso alzati e vieni all’accampamento!»

Conrad era ferito, più che nel corpo nell’anima, ed evitava di guardare l’altro negli occhi, standosene ancora rannicchiato sull’erba secca. Neppure suo padre l’aveva mai disciplinato in tale modo.

Ad un certo punto vide la gigantesca mano di Roul avvicinarsi al suo volto; strinse perciò gli occhi immaginando il concretizzarsi di quella minaccia.

«Alzati e vieni con me. Ti farò vedere come viveva tuo padre, ti farò conoscere i suoi amici, ti farò bere quello che lui beveva e ti farò andare con le donne che lui preferiva.» lo invitò Roul con un inusuale tono gentile, porgendogli la mano.

Conrad l’afferrò e si rimise in piedi, quindi si asciugò le lacrime che bagnavano le sue lentiggini e forzò un’espressione di durezza.

«Così mi piaci!» si complimentò l’energumeno prima di voltargli le spalle e cominciare a scendere dall’erta.

«Roul!» chiamò invece Conrad.

«Che altro c'è?» rispose spazientito l’adulto tra i due.

«Voglio che mi portiate con voi nella prossima battaglia.»

Roul rise, era compiaciuto che i suoi mezzi portassero risultati, ma rise di gusto.

«Moccioso, che cosa vorresti tu?»

«Volete insegnarmi a vivere come viveva mio padre… bene, portatemi anche a combattere. Mio padre mi insegna la spada da che cammino. So farlo!»

«Me ne darai una dimostrazione non appena sarà possibile. Per quanto riguarda la guerra… beh, figliolo, prima devi preparare il tuo cuore… devi imparare ad odiare!»

«Io so già odiare! Mettetemi qui davanti un infedele e vedrete come lo riduco a brandelli.»

«Non basta, non sei abbastanza forte.»

«Datemi la vostra ascia e abbatto quest’ulivo in tre colpi.»

Roul rise ancor più forte e rispose:

«Tu non sapresti neppure sollevarla la mia ascia! Verrai con me in battaglia, ma non adesso. L’esercito regolare di Costantinopoli è composto da uomini che abbiano compiuto almeno diciotto anni. Noi non siamo certo al loro scarso livello, ma lascia che ti spunti almeno qualche pelo prima di venire.»

«Il prossimo anno?» chiese innocentemente Conrad.

«Il prossimo anno… va bene.» accordò Roul per toglierselo davanti.

«Vendicherò mio padre!»

Roul questa volta non rispose, piuttosto mise una mano sulla spalla dell’altro e riprese a scendere.

L’accampamento era un brulicare di gente; prima di allora a Conrad non era sembrato così grande. L’aria era quella della festa e tutto intorno i soldati ridevano e scherzavano, questa volta senza mostrare quella diffidenza che intercorreva tra stirpi diverse. Un tizio a lato della strada, presso le grandi tende, aveva una cassa piena di strani oggetti metallici con punte su più lati. Roul ne prese uno, lo mostrò a Conrad e gli spiegò:

«Vedi questo arnese, ragazzo? È così che Abd-Allah intendeva sconfiggerci, disseminando il terreno con centinaia di questi cosi. Ma i nostri cavalli sono ferrati con piastre larghe e i pungoli non ci hanno fatto un bel niente. Comincia ad imparare qualcosa sulla guerra.»

Carri carichi della roba del bottino continuavano ad arrivare scortati dai soldati regolari e confluivano presso il largo spiazzo antistante la tenda del comando, quella di Giorgio Maniace; ovviamente anche i carri e i buoi facevano parte del bottino. Su qualcuno di questi carri vi erano anche uomini e donne presi prigionieri nelle scorrerie: si trattava dei malcapitati civili mori che non erano riusciti a nascondersi. Molte di quelle donne avrebbero fatto parte dei festeggiamenti come iniziale atto di servitù, prima di essere mandate in Terraferma come bottino da recapitare alle famiglie dei nuovi padroni. Le donne avrebbero fatto parte delle corti nei palazzi nobiliari e gli uomini sarebbero diventati servi della gleba, oppure, sia uomini che donne, sarebbero finiti in mano ai mercanti di schiavi giudei, i quali li avrebbero sparsi nei mercati di tutto il Mediterraneo. Ai cristiani era infatti teoricamente proibito commerciare direttamente esseri umani ridotti in schiavitù, ma la verità era che il traffico dei prigionieri rendeva bene a tutti, cristiani e non.

Una delegazione degli abitanti di Rametta arrivava con carichi di provviste da destinare alle truppe. Rametta, arroccata in posizione formidabile sulle Caronie, era caduta in mani saracene solo nel 965, l’ultima tra tutte le città di Sicilia, ed era considerata il baluardo della cristianità siciliana e dell’eroismo mostrato per la difesa della fede. Giorgio Maniace l’aveva ripresa poco dopo il suo passaggio oltre il Faro, ingaggiando una sanguinosa battaglia in cui i guerrieri normanni avevano pagato il maggior contributo di sangue. Adesso i suoi abitanti sostenevano la riconquista cristiana in ogni modo a loro possibile, inviando uomini e vettovaglie. Lo stesso facevano i cittadini di Rinacium53 - nome della città negli atti ufficiali - a poche miglia ad ovest da lì, essendo il centro abitato di una certa consistenza più vicino all’accampamento.

Dopo poco tempo si presentò Tancred, il quale portava un otre di vino.

«Alcuni ne hanno già prosciugati tre!» disse questi, porgendo al suo commilitone l’oggetto a cui si riferiva.

«To’, fatti un sorso!» invitò Roul, passando il vino a Conrad.

Il ragazzino afferrò l’otre e ne ingurgitò un boccone, quindi stranì in viso e lo mandò giù a fatica. Gli altri due risero di gusto vedendo la difficoltà del figlio di Rabel a comportarsi da adulto.

«Mi sa che per le donne c'è ancora tempo!» esclamò Roul, sottolineando il fatto che se Conrad avesse ancora difficoltà col vino, figuriamoci con le donne.

«Cosa ti aspetti? Ha solo nove anni.» fece notare Tancred.

«Io a nove anni andai con la mia prima baldracca!» rispose Roul, pur se la cosa sembrava assurda.

Quella fu l’ultima frase che Conrad ascoltò con lucidità. Al secondo sorso di vino cominciò a vedere annebbiato e a non discernere più le singole voci dall’enorme e nebuloso vociare di migliaia di bocce parlanti in decine di lingue differenti.

«Pugno Duro, mi sa che il tuo figlioccio l’abbiamo perso...» commentò Geuffroi, un nobile normanno loro amico.

«È il figlio di frate Rabel, non il mio… Il figlio di Pugno Duro saprebbe bere il fuoco di questo monte.» si vantò Roul, speculando su un erede mai avuto e indicando il Jebel.

«Donne, dadi e vino… fuori dalla tenda della guardia variaga se la spassano alla grande!» s’intromise un altro, arrivando tutto eccitato e col fiatone.

Si diressero al luogo interessato, sennonché, una volta giunti presso lo spiazzo della tenda del comando, dovettero desistere da ogni proposito. Conrad se ne stava ancora rimbambito e seguiva i vecchi amici di suo padre senza capire alcunché. Decine e decine di persone, soldati di ogni genere, religiosi e persino alcune donne non ancora del tutto ricomposte lì dove si erano lasciate scoprire, se ne stavano tutte attorno al centro dello spiazzo, intente ad assistere a qualcosa. Regnava il silenzio e l’apprensione era tipica di quando sta per succedere qualcosa di terribile. Pure gli uomini della guardia variaga, coloro che avrebbero dovuto spassarsela, se ne stavano attenti a fissare il centro della scena. Roul perciò si fece largo spostando gli individui davanti a lui; Tancred, Geuffroi e Conrad ne approfittarono per avanzare.

Dalla tenda di Giorgio Maniace vennero fuori quattro uomini, quattro stratioti54 di Costantinopoli, riconoscibili dall’armatura e dall’aspetto mediterraneo. Tutt’attorno alla scena che stava per concretizzarsi, altri soldati romei55… calabresi, macedoni e pugliesi, si schierano a protezione, temendo la reazione di qualcuno tra la folla.

A questo punto Tancred rivolse la parola ad un compagno d’armi lì vicino, il quale probabilmente aveva assistito alla scena sin dall’inizio.

«Amico, che diamine succede qui?»

E quello, a bassa voce e mettendo una mano sulla bocca:

«Maniakes56 e Arduin… pare che sia nata una discussione tra loro.»

«Per cosa?»

«Parlavano in greco, non ho capito tutto… però…»

«Però cosa?»

«Pare che l’alterco sia scoppiato per un cavallo.»

I carri col bottino erano stati in parte svuotati e degli uomini fidati smistavano la roba secondo la tipologia a cui essa apparteneva. Effettivamente un bellissimo purosangue arabo, nero come la pece e dal pelo lucidissimo, stazionava davanti ai carri. A questo punto i quattro stratioti fecero presto a tirare la bestia verso il luogo da cui erano usciti. Si fecero avanti anche alcuni longobardi57, ma le picche dei soldati a protezione li fecero desistere dall’intervenire.

Venne allora fuori Giorgio Maniace, con le mani ai fianchi e tutto furioso. Questi col suo occhio buono cominciò a fissare in cagnesco ogni presente. Poi urlò nella sua lingua, ma tutti compresero:

«Qualcun altro ha intenzione di sfidare lo Strategos58

Questa domanda introduceva ciò che stava per concretizzarsi.

I quattro che avevano portato dentro il cavallo adesso tiravano fuori di forza, peggio di come si farebbe con una bestia, Arduino, capo del contingente longobardo. Afferrarono questi per la barba, affinché si assoggettasse alla prossima volontà di Maniace, e lo legarono al pennone posto all’angolo della tenda del comando, quello con su issata la bandiera con l’aquila bicefala di Costantinopoli. Infine Giorgio Maniace strappò una sferza di corde dalle mani di un suo servitore lì accanto e, dopo aver fatto denudare la schiena e il fondoschiena del malcapitato Arduino, lo prese a colpire personalmente. Ovviamente quell’altro non emise suono, duro e testardo com’era.

Comandare altra gente non è mai stato cosa facile, si rischia di far contento uno e scontento un altro, tuttavia Giorgio Maniace non faceva contento nessuno, ed eccetto la gente del popolo che lo vedeva come il liberatore della cristianità, per il resto lo odiavano tutti.

Ciò che era accaduto sotto gli occhi dell’intero esercito era qualcosa di incredibile: un capo… un capo delle truppe ausiliarie, era stato umiliato al pari di uno schiavo. Maniace contava sul pezzo più grosso dell’esercito, quello regolare affidato al suo comando diretto, per cui gli era facile far valere le sue pretese. Arduino controllava invece i conterati, uomini armati di scudo e lancia reclutati con la forza in Puglia; è chiaro che, eccetto per qualche fedele nobile longobardo, nessuno l’avrebbe difeso.

Il nocciolo della questione aveva poi dell’assurdo:

Per farla breve Arduino si era rifiutato di consegnare quel bellissimo purosangue arabo al suo generale, lo Strategos, ed era nata una discussione in cui nessuno dei due aveva voluto cedere. All’ennesimo rifiuto di Arduino, Maniace aveva deciso che dargli una lezione esemplare avrebbe ammansito la sua indisciplinatezza.

Tuttavia non sempre la forza risolve le contese, anzi spesso le conseguenze derivate dal suo uso e abuso risultano più spiacevoli della causa per cui si era deciso di attuarla. Ciò che quel gesto scatenò non poteva immaginarlo neppure Maniace, il quale, a dire il vero, spinto da un pessimo carattere, spesso agiva d’impulso e senza badare ai risultati delle sue azioni. Per di più, mentre l’esercito dava importanza alla vittoria sul campo e intendeva spassarsela, lui valutava la riuscita fuga di Abd-Allah un insuccesso. Tutta colpa della flotta che aveva permesso all’emiro saraceno di imbarcarsi al di là dei monti e di raggiungere la capitale Balarm. Chi comandava la marina, il quale avrebbe dovuto fornire supporto alle truppe di Maniace, era Stefano il Calafato, tuttavia l’abilità militare di quest’ultimo non poteva minimamente paragonarsi alla capacità del generale. Stefano comandava la flotta soltanto perché era il cognato dell’Imperatore, e a causa di questa considerazione che non teneva conto del merito, Giorgio Maniace non lo sopportava.

«Così finisce chi sfida Geórgios Maniákis!» concluse il generale, guardando gli astanti nella loro interezza e stendendo verso di loro il braccio con la sferza.

La folla a quel punto iniziò a diradarsi, ma era chiaro che la festa fosse finita lì, nella visione della schiena sanguinante di Arduino. Il longobardo perciò venne raccolto dai suoi fedelissimi e riportato nella sua tenda. Non sarebbe finita lì e tutti lo sapevano...

Roul e i suoi compagni d’armi si ritirarono mestamente verso la sezione di accampamento in cui si erano sistemati; perfino il vino e le donne persero il loro ascendente per quella sera.

Una volta ritiratisi in disparte, ed era già il tramonto, Roul, appoggiandosi al palo a cui era legato il suo cavallo, esordì:

«Ciò che abbiamo visto oggi ha dell’assurdo!»

«Io dico che saremmo dovuti intervenire.» avanzò Tancred.

«Noi rispondiamo a Guaimar di Salerno, non ad Arduin.» rispose Roul.

«Anche Arduin risponde a Guaimar. Ci ha assoldati lo stesso signore.»

«Allora che gli ristabilisca l’onore il suo signore! Non è anche Guaimar un longobardo?» fece notare Geuffroi, d’accordo con Roul.

«Non è questione di sangue o di fratellanza, è questione che nessun nobile, per giunta di buona stirpe, sia meritevole di subire quel trattamento. Non saremmo intervenuti se al posto di Arduin ci fosse stato Willaume de Hauteville?»

«Willaume gli avrebbe strappato il cuore con un morso!» esclamò Roul.

«Ma Willaume si guarda bene dal contraddire quel maledetto cane rabbioso di un macedone!» affermò qualcuno… bensì non era chiaro chi avesse parlato.

Il fatto che i tre soldati fecero un gesto di riverenza la dice lunga su chi fosse il tizio sopraggiunto.

«Willaume, noi parlavamo solo perché il fiato fa parte del compenso.» si giustificò Tancred con un filo di ironia, proprio colui che metteva in dubbio il non intervento da parte di tutti.

«Tancred Lunga Chioma, un giorno mi spiegherete perché vi chiamano così.» rispose Willaume, ovvero Guglielmo d’Hauteville.

«Lunga Chioma era mio nonno… io ho solo ereditato il nome.»

Poi guardò il più grosso fra tutti e subito dopo Conrad lì accanto.

«Roul Pugno Duro, è onorevole quello che fate per questo fanciullo.»

«Willaume, qualcosa più forte del sangue mi lega a mio fratello Rabel.»

«Ciò dimostra che dietro quell’ascia c'è un cuore…»

Dunque riprese fiato e disse:

«Ad ogni modo voglio che sappiate che provengo dalle tende della guardia variaga… e la cosa non è piaciuta neppure ad Harald.»

«Credo che la cosa non sia piaciuta a nessuno. Non si può umiliare un capitano a quel modo!» ribadì Tancred.

«Sono sicuro che se fossi stato io al posto di Arduin voi non sareste rimasti a guardare.»

«Puoi dirlo forte, Willaume!» sostenne Geuffroi.

«Ma sarebbe stato un suicidio! Pure Arduin oggi lo sapeva.»

«Per Arduin sarà un suicidio anche se interverrà domani… o dopodomani… o fra un mese.» rafforzò un altro appena giunto.

Si trattava di Drogone, per tutti Dreu, fratello minore di Guglielmo. Nella penombra del tramonto, poiché dava le spalle alla luce del crepuscolo, lo riconobbero immediatamente per via del simbolo della casata dei nobili normanni del basso corso della Senna cucito sulla tunica; lo seguivano almeno in cinquanta e la cosa cominciava a sembrare il preludio di una rivolta.

«Già, i conterati di Arduin non sono buoni neppure come concime per il campo una volta morti.» rispose Guglielmo.

«Ma per certo Guaimar non se ne starà a guardare quando la notizia arriverà fino a Salerno. Sono sicuro che ciò che deciderà per Arduin deciderà anche per noi. E allora Maniakes non dovrà vedersela solo con i conterati di Arduin e con i suoi pochi fedelissimi, bensì pure con il temuto contingente normanno… e Dio solo sa quanto siamo temuti!» spiegò Drogone.

«E la guardia variaga? I guardaspalle personali dell’Imperatore Michele da che parte staranno?» chiese Geuffroi.

«Harald Hardrada e i suoi uomini non sono molto diversi da noi e dalle ragioni che ci spingono alla guerra. E non lo dico solo perché condividiamo gli stessi natali tra le lande del nord, lo dico perché li ho sentiti parlare. Dio mi punisca se sbaglio! Se Harald sentirà minacciato il suo compenso, Maniakes dovrà vedersela anche con loro.» espose Guglielmo.

«Cosa dobbiamo fare quindi?» chiese confuso Geuffroi.

«Nulla per il momento. Maniakes sarà già a conoscenza di questa nostra assemblea improvvisata - i suoi informatori sono dappertutto tra l’esercito, e anche tra i nostri - e per certo starà valutando la peggiore delle ipotesi, ovvero il boicottaggio di questa guerra da parte di tutti i contingenti ausiliari. Attendiamo con cautela quello che succede. Aspettiamo di vedere la reazione di Arduin. Tuttavia non possiamo rischiare di essere presi alla sprovvista da quella volpe greca… perciò, fratelli, non spogliatevi dell’armatura e restate sempre uniti tra voi. Lasciate perdere il vino per questa notte, e all’otre vi si attacchi soltanto chi barcolla più da sobrio che da ubriaco. Non scopritevi delle vostre vesti per andare a donne. Dormite a turni e restate sempre aggiornati con le mie disposizioni.» espose le sue direttive Guglielmo, ma per come parlava loro sembrava quasi un consiglio che si dà tra amici.

Poi riprese e disse:

«Questa notte sarà una lunga notte, ma non violeremo le regole d’ingaggio fin quando ci verrà assicurato lo stesso rispetto dall’altro lato. Qualcuno di noi i romei li ha già combattuti in passato… sa di cosa sto parlando quando dico che non bisogna dare niente per scontato, in pace come in guerra. Ognuno alla sua tenda, fratelli, ma non dormite profondamente!»

L’assemblea improvvisata, così come era stata definita da Guglielmo, si sciolse dopo le sue parole. Sarebbe stata una notte lunga, una di quelle che porta decisioni, una di quelle insonne per guerrieri sempre pronti a tutti. Ognuno afferrò la sua arma da guerra e la pose accanto al suo cuscino, oltre al consueto pugnale nascosto tra le vesti.

In tutto questo Conrad sembrava essere il più preoccupato, e non perché un’arma ancora non la possedeva, e nemmeno perché alla sua giovane età tutto sembra più grande e pauroso, piuttosto perché temeva di dover partire di corsa senza poter salutare per l’ultima volta suo padre.

Il Cielo Di Nadira

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