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Capitolo 2

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Autunno 1060 (452 dall’egira), Rabaḍ di Qasr Yanna

Era ancora l’inizio d’ottobre, ovvero un paio di mesi prima che Umar si vendicasse dell’insolenza del figlio dei cristiani legandolo al palo del cortile, e che Nadira litigasse col fratello.

Sotto il sole del dopopranzo, Khalid, un giovanotto dodicenne tanto vicino ad Umar, un pastorello a cui l’esattore del Qā'id affidava le sue greggi personali, veniva rapido verso il villaggio. Presto giunse davanti la casa di Umar, correndo tanto veloce che parve una folata di vento novembrino. Quindi, ancora col fiatone, tanto che dovette reggersi sulle ginocchia e sul bastone, gridò:

«Umar!»

Non ci volle molto che vennero fuori alcuni della servitù, per via dell’orario affaccendati dentro l’abitazione. Una volta avvertito, il padrone di casa uscì sull’ingresso tutto scompigliato, visto che evidentemente dormiva cullato dal tiepido torpore d’inizio autunno.

«Cosa vuoi? Che urli a quest’ora? Dormivo insieme ai miei figli… e ora ci hai svegliati tutti!»

«Umar, perdonami! Le capre…» e s’interruppe per riprendere fiato.

«Cos’è successo alle mie capre? Te le hanno rubate?» domandò l’altro pieno d’apprensione.

«No, le ho messe nella chiusa.»

«Ma le hai lasciate pur sempre incustodite.»

«Avrei voluto mandare una capra fartasa11, tuttavia tu non avresti compreso i suoi belati.»

Khalid rise; era chiaro che stesse prendendo in giro il suo padrone.

Umar lo prese per l’orecchio e lo spinse al suolo con una pedata assestata sul sedere.

«Vedi di dirmi qualcosa di importante o altrimenti nella chiusa ci metto te!»

E quello, rialzatosi:

«Il Qā'id, Signore… il Qā'id viene verso il Rabaḍ e chiede di te.»

«Ali ibn12 al-Ḥawwās viene in casa mia?» chiese stupefatto Umar, aggiustandosi con una mano i capelli come se il signore di Gergent13 e di Qasr Yanna fosse già al suo cospetto.

«Viene accompagnato dai suoi fedeli e mi ha detto di informarti che viene con buoni propositi.»

Umar aguzzò la vista e si accorse della carovana che scendeva per le curve tortuose del monte di Qasr Yanna.

«Torna alle tue capre!» comandò al giovane prima di filare dentro di corsa.

Si scatenò una gran confusione in quella casa, e con molto fervore si cercò di rendere ogni cosa degna della visita del Qā'id. Pure in tutto il villaggio si scatenò il putiferio: le donne accorsero all’ingresso del Rabaḍ e alcuni degli uomini, essendo stati avvertiti, tornarono dagli orti più vicini.

Michele e Apollonia, fratello e sorella di Corrado, si accostavano per osservare con curiosità la scena. Avrebbero reso omaggio al Qā'id al pari di tutti gli altri; non importava chi li comandasse, si trattava comunque del loro signore. D’altronde, se non fosse stato per gli stracci che Michele indossava e per i suoi capelli rasati, segni imposti per il suo essere cristiano, nessuno li avrebbe identificati come miscredenti della parola del Profeta. Tra Apollonia e le donne saracene14 del villaggio poi non passava nessuna differenza, eccezion fatta per i tratti più continentali del suo volto. D’altro canto il Rabaḍ era stato colonizzato esclusivamente da berberi già dai primi tempi. Tuttavia, altrove, islamici dall'aspetto più europeo - perché di diversa origine o perché si trattava di indigeni convertiti - pullulavano e la differenza somatica con i cristiani era inesistente. Inoltre, da duecento anni, la stirpe berbera, quella araba e quella indigena si mescolavano con regolarità, tendendo a conformarsi in un sol popolo con caratteristiche più omogenee; dunque in tutto questo il Rabaḍ faceva eccezione.

Vi era un solo termine per identificare gli abitanti dell’Isola… non arabi, non berberi, non indigeni, né nient’altro, ma siciliani. Siciliani saraceni e siciliani greci, ovvero cristiani - così come vi erano siciliani giudei - ma pur sempre tutti da definirsi siciliani. Esulavano dal concetto di siciliani i nuovi giunti, coloro che dall’Africa erano passati in Sicilia ai tempi dell’invasione della dinastia degli ziridi e fino a che Abd-Allah non se n’era ritornato dall’altra parte del Mediterraneo. Questi, devoti all’Islam come gli altri, di etnia berbera come molti, venivano definiti africani, proprio perché provenienti dalla regione che il mondo arabo definiva Ifrīqiya15. Gli ultimi africani erano giunti appena un paio di anni prima, fuggiti dalle devastazioni che imperversavano nella terra di loro provenienza. Riuscire a creare un sol popolo tra siciliani e africani, benché tutti credenti in Allah, era un impresa ben più complicata - e in passato la questione era pure sfociata in disordini civili - rispetto a riuscire ad integrare cristiani e giudei16 nei tessuti della società islamica. La legislazione della sharia17 su questi ultimi, infatti, era chiara, e poco o nulla poteva essere interpretato; essi erano i dhimmi, i vassalli, costretti a pagare la jizya, il testatico, ma comunque aventi il diritto di esistere nella propria fede. Gli africani invece erano i veri antagonisti, coloro con cui i saraceni siciliani dovevano contendersi il primato di dominatori.

Al Rabaḍ, tuttavia, che di africani non se n’erano mai visti, il vero problema della giornata sembrava essere quello di far bella figura davanti al Qā’id ibn al-Ḥawwās, l’emiro di Qasr Yanna, venuto inspiegabilmente a fare visita ad uno dei suoi esattori.

«Se ci fosse stato qui Corrado!» esclamò Apollonia non appena intravide la carovana entrare all’imbocco del borgo.

Apollonia era una donna poco più che ventenne e di bell’aspetto, dai capelli ondulati e castani e dagli occhi nocciola. Il candido colorito della sua pelle la faceva poi apparire ancor più attraente, in quanto tra gli arabi le fanciulle dalle caratteristiche europee erano le più ricercate. Se non fosse stato per la sua religione per certo le avrebbero già fatto la corte, e se non fosse stato per la piccolezza del Rabaḍ e per la sua atmosfera familiare per certo qualcuno l’avrebbe indotta a convertirsi con la promessa di ottenere un vantaggioso matrimonio.

Michele era poco più piccolo di Corrado e somigliava molto a suo padre. Il ragazzo sembrava nato per lavorare e, benché non fosse molto alto, era robusto e instancabile. Gli mancavano anche un paio di denti, essendoseli rotti quando all’età di dieci anni aveva provato a tirare via un grosso chiodo da una trave.

«A quest’ora Corrado avrà già sentito la notizia e starà salendo dall’orto con nostro padre.» rispose Michele.

«Che uomo sarà il Qā’id?» chiese Apollonia, più a sé stessa che al fratello.

Michele la guardò perplesso, quindi, preso da gelosia, rispose:

«Forse dovresti restare in casa come fanno molte donne maomettane.»

«Non conosco nessuno qui al Rabaḍ che tenga sottochiave la sorella.»

«La sorella di Umar non si vede in giro da un pezzo, e se lo fa è a volto coperto.»

«Vuol dire che esiste un fratello più geloso di te. E poi bastano gli occhi di Nadira per attirare gli uomini.»

Le ultime parole di Apollonia erano il perno di molte cose che da lì in avanti sarebbero successe...

Il Qā’id avanzava per le stradine tra il tripudio generale della folla. Ali ibn Ni’ma, più comunemente conosciuto come ibn al-Ḥawwās, era molto amato dalla gente. Il suo medesimo nome significava “il Demagogo”, colui che si attira i favori del popolo. E d’altronde la sua stessa ascesa non avrebbe potuto avere luogo se non grazie al sostegno della gente e alle sue doti carismatiche; uno schiavo di stirpe berbera che si era affrancato allo stato di liberto ed infine era divenuto Qā’id dell’intera Sicilia centrale.

Ibn al-Ḥawwās veniva avanti cavalcando un bellissimo cavallo baio bardato di finimenti gialli e verdi. I pensieri di Apollonia vennero delusi quando si accorse che il signore di Qasr Yanna non era giovane e prestante come se l’era immaginato, ma di mezz’età, brizzolato e leggermente in sovrappeso. Tuttavia non si può dire che il suo aspetto fosse sgradevole; per certo molte di quelle ragazze che lo osannavano al suo passaggio avrebbero fatto di tutto per ricevere le sue attenzioni.

Oltre alla ventina di uomini armati che scortava il Qā’id, attirava l’attenzione una donna in abito nero. Questa cavalcava all’amazzone il destriero immediatamente successivo a quello del suo signore e veniva accompagnata da un paio di ancelle. Inoltre vi era un tizio ben vestito, per lusso secondo solo ad ibn al-Ḥawwās.

Umar si fece trovare sull’ingresso, fece gli ossequi e invitò il suo padrone ad entrare nella sua “indegna dimora”; così chiamò casa sua. Ed Ali, il Qā’id, fece presto a presentare la gente al suo seguito appena scesa da cavallo.

«Mia sorella Maimuna e Bashir, il mio Visir18

Allorché Umar fece un segnale con la mano per indicare ai suoi congiunti, che osservano dalla porta, di avvicinarsi.

«Mia madre, Jala… mia moglie Ghadda e i miei figli Rashid e Fatima; questa è mia sorella, Nadira.»

Ognuna di quelle donne accennò un inchino a mani giunte di fronte al Qā’id e quest’ultimo rispose:

«Farò mandare dei doni per premiare la bellezza di questa casa.» soffermando comunque più di uno sguardo sugli occhi di Nadira.

I tappeti più belli e i cuscini più pregiati erano stati preparati in quattro e quattr'otto sul pavimento della stanza più grande, affinché vi si sedessero gli uomini per conversare tra loro. Nelle cucine era stato perfino riacceso il tannūr19 per cuocere le focacce, mentre i giovani correvano alla sorgente più vicina per portare acqua fresca e corrente agli ospiti. Si sedettero tutti attorno al centro della stanza, mentre le donne di casa invitarono Maimuna ad unirsi a loro da un’altra parte, sul retro, sotto una sorta di tettoia delimitata da una siepe formata da rose.

Una fila di donne della servitù cominciò a portare il cibo, frutta, ma anche dolciumi al miele, pane, datteri appena raccolti e succo di melograno. A questo punto, il Visir, lisciandosi la barba dalla strana forma a punta, cominciò con le sue riflessioni e domande tecniche sulla gestione del villaggio:

«Il luogo è piacevole e la gente è devota al suo Qā’id; va a te il merito?»

«Va ad ogni abitante del Rabaḍ e al giogo piacevole riservato loro dal nostro amato Qā’id.»

«Quali sono i numeri della coscrizione del giund20

«Quarantuno uomini, già armati.»

«I dhimmi ti sono sottoposti?»

«Vi è una sola famiglia di cristiani… contadini tra i più mansueti.»

«Una sola? Altrove, nell’iqlīm21 di Mazara, i cristiani sono raggruppati in comunità, seppur spesso modeste.»

«I predoni… avete subito attacchi?» chiese a questo punto Ali ibn al-Ḥawwās.

«Non subiamo attacchi dai tempi di mio padre. L’ultimo si ebbe quando Jirjis Maniakis imperversava sulla costa orientale, vent'anni or sono. Perché me lo chiedi, mio Signore?»

«I sudditi di Mohammed ibn al-Thumna, mio cognato, non sono così mansueti come gli abitanti di questo villaggio… e il Rabaḍ è un fragile avamposto ai piedi di Qasr Yanna, dove risiedo.»

«Dobbiamo prepararci a qualcosa, mio Qā’id?»

«Ti dico solo di organizzare la guardia e un pronto fuoco di segnalazione per dare l’allarme alle nostre sentinelle.»

Sotto la tettoia, all’aperto, Jala intanto intratteneva la sua illustre ospite con lo stesso trattamento riservato al fratello. Sedute su degli sgabelli conversavano di frivolezze e banalità.

«A quando il parto?» chiese Maimuna a Ghadda, fissandole l’addome.

«Fra tre mesi… Inshallah22

«E tu… Nadira… è davvero inusuale trovarti ancora in casa di tua madre. È forse la piccolezza di questo villaggio la causa per cui non annoveri corteggiatori?»

«A dire il vero, mia Signora, vi sono stati molti corteggiatori… ma Umar ha ritenuto che non siano degni.»

«Della tua bellezza? Tuo fratello ha ragione.»

«Non ho nulla che la metà di te non abbia.»

Allora Maimuna si scoprì i polsi svoltando le maniche; apparvero delle cicatrici, appena rinsaldate e ancora piene di rossore.

«Non hai queste che invece ho io...»

Nadira e le altre la guardarono perplesse, pensarono subito che la sorella del Qā’id si fosse tagliata le vene. Ma Maimuna spiegò:

«Non pensate che io sia una peccatrice; è stato qualcun altro a farmi segare i polsi.»

«Chi, mia Signora?» domandò con quasi le lacrime agli occhi Nadira, la quale quel giorno portava un piccolo dipinto a forma di palma sul mento, un lavoro minuzioso fatto con l'henné23.

«Mio marito, Mohammed ibn al-Thumna, Qā’id di Catania e Siracusa.»

«Perché, mia Signora? Che gli hai fatto?» chiese ancora Nadira, sporgendosi in avanti e afferrandole le mani.

«Esiste qualcosa per cui una moglie vada trattata così?»

Nadira quindi lasciò la presa, sentendo la risposta quasi come un rimprovero.

«Appartenevo ad ibn Meklāti, già signore di Catania, con cui ero sposata, ma Mohammed gli tolse la vita e gli rubò la città e la moglie. E come se non bastasse l’infamia di essere sposata all’assassino del mio primo marito, Mohammed volle farmi questo regalo facendomi tagliare i polsi allo scopo di dissanguarmi. Inoltre, sapete come mio fratello si sia fatto da schiavo a Qā’id con le sue mani… e per questo Mohammed non faceva che ricordarmi il mio stato di plebea.»

«Appartieni ancora al Qā’id di Catania, mia Signora?» domandò Ghadda.

«Mi chiese perdono quando smaltì la sbornia del vino della sera prima… poiché Mohammed fa parte di coloro che bevono e si danno agli eccessi e poi se ne dolgono e pentono il giorno dopo. Io comunque chiesi di potermi recare da mio fratello e lui me lo concesse… ma se non fosse stato per il giovanotto della servitù che mi volle salvare, io oggi non sarei qui a discorrere con voi, sorelle care.»

«Non temi a tornartene da lui?»

«Non tornerò, con la certezza di non rivedere più i miei figli… ma non tornerò!»

«Sei coraggiosa!» esclamò Ghadda.

«Non sono coraggiosa, sono solo la sorella del Qā’id di Qasr Yanna. Se fossi stata una delle donne di questo villaggio per certo sarei tornata da buona moglie.»

«E tuo fratello non ti rimanderà indietro?» intervenne perciò Jala, stupita per il fatto che Maimuna sperasse che il fratello potesse appoggiarla in quel comportamento a suo parere indecente.

«Ali me lo ha giurato.»

Vi fu un attimo di silenzio, come se l’aria fosse carica di preoccupazione per il gesto della donna.

«Nadira, sorella, tuo fratello fa bene a non concederti a chiunque. Hai visto i miei polsi? Hai visto la fine a cui si va incontro quando si finisce tra le braccia dell’uomo sbagliato? E poi tu meriti molto… molto di più di quello che restando al Rabaḍ potrebbe capitarti. Gli uomini comuni non ti meriterebbero, figliola.»

«Chi potrebbe interessarsi ad una ragazza del popolo?»

«Perfino un illustre Qā’id!» fece con rapidità insolita Maimuna, come se aspettasse di dare quella risposta sin dall’inizio.

Nadira rise modestamente, quindi disse:

«Non restano molti qā’id importanti in Sicilia, eccetto tuo marito, tuo fratello e…»

Non aveva ancora finito di parlare che venne colta da una strana consapevolezza: Maimuna era lì per lei e per conto di suo fratello. Fu colta da ansia, apprensione e da una tensione tale che non riuscì più a parlare.

«Nadira, cara, cosa ti turba?» le chiese Maimuna, accarezzandole una guancia.

Jala, al contrario, avendo capito l’antifona ancor prima della figlia, era fuori di sé.

«Nadira, sembra che i complimenti di Maimuna ti diano fastidio.» rimproverò la madre.

«Perché sei qui?» chiese invece seria la ragazza, deglutendo.

«Per appurare se quanto si dice su Nadira del Rabaḍ sia vero. Ti dispiace?»

«No!» rispose la giovane, lasciando trasparire un sorriso nervoso.

Era stato concordato tra Maimuna e il fratello che, se il giudizio sulla ragazza fosse stato positivo, quest’ultima avrebbe dovuto servire da mangiare agli uomini nell’altra stanza, e soprattutto il Qā’id direttamente dalle sue mani.

«Ti pare che il Qā’id di Qasr Yanna venga al Rabaḍ senza motivo? Nadira, Ali sarebbe immensamente felice se tu di persona gli servissi da mangiare.»

Non poco riluttante dentro di sé, non perché dissentisse dalla proposta ma per la serietà del gesto, Nadira si coprì il volto, prese dalle mani di una serva dei dolci fatti di mostarda mischiata a miele e senape e li portò nella stanza in cui gli uomini discutevano.

Il Qā’id interruppe il discorso non appena vide Nadira avanzare verso di lui; era il segnale, la ragazza aveva passato l’esame di Maimuna.

Umar rimase perplesso, tuttavia comprese immediatamente la ragione inerente alla visita del suo signore.

Quando Nadira s’inginocchiò al cospetto del Qā’id e spinse la mano col cibo verso la sua bocca, l’altro le bloccò delicatamente il polso - tanto che lei temette di aver sbagliato qualcosa - la fissò intensamente negli occhi spalancati e cominciò a recitare:

«Conosci tu quelle fonti d’acqua viva, pura e dal color zaffiro?

Dove è possibile specchiarsi, scorgere la propria anima.

Dove si dissetano gli aironi e le fanciulle si scoprono i capelli.

Conosci tu, oh mio Grande, i confini del tuo regno?

Conosci tu quel mare di sconvolgente meraviglia?

Così profondo e ricco di pesci dalle pinne a scaglie.

Così turchese e ciano e azzurro, dove si radunano le reti.

Conosci tu, oh favorito del Supremo, i confini di Sicilia?

Conosci tu quel cielo di incomparabile bellezza e innocenza?

Da cui stilla pioggia nella stagione dei fichi primaticci e dei meloni.

Grazie al quale si rinfrescano gli ibischi, la zagara e le rose.

Conosci tu, oh mio Signore, il cielo di Nadira, i confini dei suoi occhi?»

Sul viso di Nadira scesero rapide due lacrime, che andarono a nascondersi dietro il velo del niqab24. Non riusciva a spiegarsi come fosse possibile che la fama dei suoi occhi avesse oltrepassato i confini del Rabaḍ e addirittura fosse arrivata alle orecchie del Qā’id.

«Hai mai sentito queste parole, mia cara?» domandò Ali, nonostante sapesse già che la risposta fosse negativa.

«No, mio Signore. Ma dev’essere fortunata la Nadira a cui le hai dedicate.»

Il Qā’id sorrise, essendo positivamente colpito dalla modestia della ragazza.

«Quest’estate concessi udienza ad un poeta itinerante che era in cerca di una corte, un tale Mus’ab, e questi mi deliziò per due mesi con le sue doti poetiche. Un giorno mi decantò le lodi di un fiore di tale bellezza che finii per supplicarlo affinché mi dicesse di chi si trattasse. Quel fiore aveva un nome: Nadira; abitava al Rabaḍ ed era la sorella dell’‘āmil. I versi che ho recitato, mia cara, li ho soltanto imparati a memoria… il premio al genio va solamente al poeta Mus’ab, ma il premio alla bellezza di queste parole va a te. Tuttavia, se avessi visto i tuoi occhi prima di sentire queste parole, forse avrei punito Mus’ab per la sua presunzione nel voler descrivere l’indescrivibile. Allah ha fatto di te l’ineguagliabile e l’inspiegabile, mia cara! Ho aspettato un mese, tutta la durata del Ramadan25, prima di venire a conoscere “il cielo di Nadira, il confine dei suoi occhi”, anche se ora mi rendo conto che quel confine non esiste.»

Adesso Ali guardò Umar e gli disse:

«Fratello, ti chiedo la mano di Nadira, a qualunque prezzo tu mi imponga.»

Umar ammutolì e Nadira lasciò la stanza, comprendendo che la questione doveva essere affrontata dagli uomini.

Umar in cuor suo acconsentì immediatamente, e gli avrebbe concesso Nadira pure senza un prezzo, visto che sarebbe diventato il cognato del Qā’id, tuttavia nascose le sue emozioni e il suo assenso affinché l’altro alzasse la posta. Ali assicurò di voler fare di Nadira una delle sue mogli e che non l’avrebbe trattata al pari di una concubina per via della sua provenienza popolare. Inoltre promise doni e benefici per l’intera famiglia. Umar in quel momento guardò Rashid, suo figlio maggiore di soli otto anni, e non poté fare a meno di pensare a come sarebbe cambiata in meglio la loro vita grazie agli occhi azzurri di sua sorella.

Intanto Nadira era corsa a rifugiarsi nel luogo in cui andava da bambina, sotto la fronda di un grosso gelso sito nella proprietà della casa. Non comprendeva perché proprio a lei dovesse capitare qualcosa di così importante. Non si sentiva all’altezza, in quanto credeva di non aver fatto nulla per meritarsi le attenzioni del Qā’id ed una proposta di tale portata. Piangeva e tremava... quindi poggiò la schiena contro il tronco e, ad occhi chiusi, ricordò la causa degli avvenimenti del giorno odierno.

Il Cielo Di Nadira

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