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CAPITOLO 2

Riflessioni sulla morte e sull’inferno

Le giornate si stavano accorciando. Coltri di nebbia si stendevano sopra i prati e le dalie reclinavano il capo. Noi bambini rincorrevamo le foglie morte sospinte dal vento e raccoglievamo anche le castagne che i maschi utilizzavano per bombardare le femminucce, costrette a nascondersi per scansarle. Quanto li detestavo!

Era il periodo di Ognissanti e molte persone in visita ai cimiteri spingevano carriole ricolme di crisantemi bianchi e rosa. Presto le famiglie si sarebbero raccolte sulle tombe dei loro cari defunti. Anche zia Eugénie, pur abitando lontano, sarebbe venuta a Bergenbach per l’occasione.

Con mio grande divertimento, i nostri vicini l’avrebbero di nuovo scambiata per mia madre. Aveva i capelli simili a quelli della mamma, ma la carnagione era ambrata, come le pietre della sua collana, e gli occhi parevano due ciliegie nere. Era facile prenderle per gemelle, perché avevano entrambe gli stessi modi allegri e vivaci. D’altronde era proprio così che si sentivano, perciò zia Eugénie era per me una seconda mamma.

Accompagnai la nonna al cimitero di Oderen per ripulire le tombe dei nostri morti. Zia Eugénie, con in mano un grosso vaso di crisantemi, si accostò alla tomba di suo marito. La vidi pregare e piangere.

“Nonna, perché piange?”

“Perché tuo zio è morto da poco, a soli tre anni dal matrimonio”.

“È annegato nel fiume?”

“No, è morto di tubercolosi”.

“La mamma mi ha detto che la morte è la porta per il paradiso”.

Il giorno in cui ero entrata per sbaglio nella camera del mio bisnonno materno ero ancora molto piccola. Giaceva sul letto: con gli occhi chiusi e attorniato da corone di fiori finti, sembrava raccolto in preghiera. La tremolante luce di quattro grossi ceri e il soffocante odore di incenso si diffondevano nella stanza in penombra. In quell’occasione mi era stato spiegato che il nostro caro era in viaggio per raggiungere il cielo. Adesso, dunque, davanti alla sua tomba, ero confusa.

“Nonna, la morte è veramente la porta per il cielo?”

“Dipende, potrebbe anche essere la porta per l’inferno”.

“Io ho già visto il fumo del fuoco dell’inferno. Qualche volta esce dallo scantinato della fabbrica dove lavora il papà. Quando lo vedo, mi allontano!”

La nonna sorrise, prese le mie mani tra le sue e iniziò a recitare una preghiera, alla quale si unì anche zia Eugénie.

“Perché preghi? I morti possono sentirci?”

“Certo! Possono anche aiutarci, se non si trovano in purgatorio”.

“In purga-che?”

“Il purgatorio è il luogo dove, attraverso il fuoco, veniamo purificati dalle cattive azioni compiute e dai peccati commessi. Solo i santi salgono direttamente in cielo”.

“Chi si occupa del fuoco dell’inferno?”

“Il Diavolo, Lucifero. Una volta era un arcangelo, ma, per la sua superbia, fu costretto ad abbandonare il cielo e divenne il guardiano dell’inferno”.

“Nonna, fa freddo! Sto tremando! Vorrei andar via di qua”.

In Alsazia il cimitero viene chiamato “Kirchhof”, vale a dire “cortile della chiesa”. All’uscita l’ombra del campanile avvolgeva tutte le tombe. Su ognuna erano stati sistemati dei fiori, perciò conclusi che lì dovessero esserci sepolti solo dei santi.

Raggiungemmo la fattoria dei nonni, dove attesi con trepidazione l’arrivo di mia cugina Angèle.

♠♠♠

Tutta la famiglia contribuì agli ultimi preparativi per la festa di Ognissanti; zio Germain spostò la tavola e le sedie del soggiorno in un altro locale; il nonno portò in casa dei grossi ceppi per il camino; la mamma e zia Valentine prepararono le castagne da arrostire e la nonna accese un grosso cero vicino al crocifisso tra le due finestre. Tutti ci inginocchiammo, a parte la piccola Angèle che non sembrava particolarmente interessata alle pratiche religiose. Pronunciammo il nome di un defunto: “Reciteremo il rosario per il riposo della sua anima”. Le litanie parevano lunghi mormorii lamentosi. I gemiti del vento e i secchi scoppiettii del fuoco resero l’atmosfera più pesante del solito. Esaminai tutti i visi uno a uno.

Zio Alfred non aveva gli occhi chiusi.

“Zio, perché non preghi come si deve?”

“Se tu stessa l’avessi fatto, non avresti potuto vedermi”, replicò prontamente. Non era vero! Ero perfettamente in grado di guardarmi attorno e allo stesso tempo pregare, io! Il bagliore del cero danzava sul soffitto. Era forse questo il fuoco dell’inferno? O quello del purgatorio? Fuori potevo vedere una luna livida scivolare tra le nuvole e animare ombre bizzarre e lugubri. Erano forse gli spiriti dei morti? Mi pervase un crescente sconforto, tutte quelle preghiere non finivano più… Le ginocchia mi dolevano. L’ultimo ceppo si spense e le castagne smisero di scoppiettare. La tremula luce del cero cominciò ad affievolirsi e la stanza a oscurarsi. Anch’io tremavo! Il filo di fumo nero dello stoppino si contorceva nell’aria in forme curiose. A un tratto il lucignolo, ormai quasi interamente consumato, lanciò un ultimo vacillante bagliore che illuminò il quadro della Vergine Maria. Lei era là, nella sua bella cornice. Teneva fra le braccia il bambino Gesù con un globo nella mano. Il suo petto dischiuso mostrava un cuore sanguinante. Lo scrutai attentamente e mi parve battere e sanguinare ancora più forte, poi tutto sparì, inghiottito dall’oscurità.

Qualcuno si alzò e accese la luce. Zio Germain riportò nel soggiorno le sedie e la tavola, sulla quale furono disposti delle ciotole e del latte. La mamma e zia Valentine sbucciarono le caldarroste, ma quella sera mi sembrarono senza sapore.

♠♠♠

Dicembre 1936

Ero in piedi su una sedia e guardavo la mamma inginocchiata davanti a me: appuntava gli spilli per segnare l’orlo del mio costume da angelo, confezionato con un vaporoso tulle bianco. Sulla schiena vi aveva applicato due ali. Ripetevo la mia parte all’infinito. I miei genitori avevano permesso alla maestra di inserirmi nelle Allodole, un circolo cattolico per bambini. Sotto la direttiva del parroco dovevo interpretare il ruolo dell’arcangelo Gabriele in una rappresentazione teatrale natalizia. I miei incubi sul fuoco dell’inferno mi avevano tormentata fin dalla festa di Ognissanti, ma ora i preparativi per la recita li avevano gradualmente scacciati. Ero di nuovo in piena forma!

La vigilia di Natale non riuscivo a prendere sonno per l’eccitazione: finalmente era giunta la notte del 24 dicembre e Gesù Bambino sarebbe passato. Lottavo per tenere gli occhi aperti. Improvvisamente, verso mezzanotte, la mamma mi chiamò, mi pettinò e mi fece indossare una vestaglia. Dalla sala da pranzo proveniva una luce soffusa. Mi disse: “Gesù Bambino è venuto! Andiamo a vedere che cosa ti ha portato!”

Quasi non ci credevo! In un angolo della stanza aveva lasciato un piccolo abete tutto addobbato: la luce delle candele accese, che si rifletteva sulle bocce di vetro multicolore, produceva un magico scintillio tra le ghirlande argentate. Sotto i rami erano disposte arance e noci. Nell’avvicinarmi, scorsi una carrozzella e una magnifica bambola. “Mamma, papà, guardate! Gesù Bambino ha indovinato i miei desideri!” Tempo prima la nostra vicina, una persona particolarmente curiosa, aveva domandato quale regalo avessi ordinato e la mamma aveva giustamente osservato: “Un regalo non si ordina! Sicuramente Gesù Bambino conosce con esattezza che cosa tu desideri e meriti, Simone!” Come aveva avuto ragione!

La bambola era seduta con le braccia tese, come se reclamasse una mamma. Gesù sapeva quanto sognassi una bambina. Strinsi forte la bambola al mio petto e le diedi subito un nome, Claudine.

Il giorno seguente ci esibimmo nella nostra rappresentazione teatrale. Il sipario calò sul primo atto e il pubblico applaudì, ma, per il secondo, furono gli incoraggiamenti dei miei insegnanti a infondermi la sicurezza necessaria: ultimamente avevo sognato spesso di trovarmi sul palcoscenico con la bocca spalancata e completamente afona.

Zia Eugénie, che lavorava come governante presso la famiglia Koch, venne a trovarmi durante l’intervallo e mi disse: “Togliti il costume da angelo e seguimi! Fa’ pure con comodo, hai abbastanza tempo.

“I Koch gradirebbero conoscerti; si trovano con i tuoi genitori in un palco della balconata”. Nella penombra avevo difficoltà a distinguere l’ambiente. Lo spazio era ridotto al minimo e le poltroncine ricoperte di velluto rosso emanavano uno strano odore. Il signor Koch si alzò tendendo la mano destra verso di me: “Sono molto onorato di incontrare una signorinella così incantevole e dotata”. Poi mi fece il baciamano! Ero completamente imbarazzata; per fortuna sua moglie aggiunse: “E con un vestitino così grazioso!”

“Sì, è stata la mamma a cucirmelo”. Ne ero così fiera che desideravo farlo sapere a tutti quanti. Andavo pazza del mio completo di velluto nero con la giacchetta bordata di roselline.

La porta del palco si aprì. Henriette, una piccola minorata mentale, era ferma sulla soglia; portava al collo un cestino appeso a una correggia. Scossa da tremiti in tutto il corpo, ce lo mise sotto il naso. Ci guardava con occhi supplichevoli e ripeteva con voce implorante: “Per favore, per favore, acquistate un biglietto della lotteria! Vincerete sicuramente!” Tutti noi ne comprammo e lei corse verso il palco successivo, dove era seduto un uomo solo, che manifestò il suo rifiuto scuotendo la testa. Lei allora fuggì via tutta rossa in volto. Povera ragazzina! Che pena! La mamma guardò con aria di rimprovero la persona che aveva rifiutato il biglietto. Lo riconobbi: era il curato della nostra parrocchia.

Il campanello annunciò l’inizio del secondo atto. Dovevo sbrigarmi! Ormai le luci si stavano abbassando. Incrociai Henriette che tornava indietro. Il prete le aveva fatto cenno di avvicinarsi.


La rappresentazione fu un vero successo! Il sipario calò, si rialzò immediatamente e fummo richiamate sul palcoscenico. Alcune di noi avanzarono di qualche passo per salutare. Il teatro era gremito, tutti applaudivano e allora mi commossi fino alle lacrime. Avevo voglia di fuggire, ma rimasi inchiodata al pavimento. Allora Il sipario si abbassò definitivamente. Qualcuno dovette prendermi per mano e accompagnarmi fuori con le altre. Ero esausta e desideravo soltanto rifugiarmi nel mio letto, sotto le coperte.

La mamma mi raggiunse dietro le quinte, mi abbracciò e mi diede un bacio. Rannicchiata in quell’affettuosa stretta, la sentii irritata e tesa. Qualcosa doveva averla contrariata. Si rivolse incollerita al regista: “Simone non reciterà più con voi e si ritirerà dal gruppo delle Allodole. Non allevo mia figlia per poi esporla al pericolo!”

“Ma che intendete dire?”, domandò lui molto stupito.

“Avreste dovuto vedere che cos’è successo nel palco accanto al nostro!” (Anni dopo venni a sapere che il curato aveva trattenuto Henriette e si era abbandonato ad atti sconvenienti.)

La mamma mi portò via in fretta e mi disse: “A casa ti attende la tua bambola Claudine, la tua bimba e lei ha bisogno di te! È sicuramente più importante di queste Allodole! Presto, rientriamo!” Attribuii il suo dissenso alla mia evidente stanchezza e le fui molto riconoscente.

“Sì, devo occuparmi di Claudine, povera piccola, è a casa tutta sola!”

L’indomani, con Claudine al mio fianco, imparai a lavorare a maglia. Anche Zita mi teneva compagnia. Guardai dalla finestra e vidi i fiocchi di neve mutarsi a poco a poco in gocce di pioggia, che rovinarono il bel manto immacolato.

Ci recammo sul posto di lavoro di zia Eugénie. A forza di sguazzare nella fanghiglia gelata, i nostri piedi erano fradici e intirizziti. La signora Koch aveva pregato la zia di invitarmi alla festa di Natale che stranamente lei celebrava qualche giorno dopo il 24 dicembre.

La mamma mi aveva ripetuto allo sfinimento le arcinote raccomandazioni: ‘Sii educata! Non devi mettere un piede sopra l’altro quando sei in posizione eretta! Non devi toccare i mobili! Non devi servirti da sola! Non devi masticare con la bocca aperta! Non devi entrare in un locale senza esservi stata invitata! Non devi mettere i gomiti sulla tavola né appoggiare la testa sulle mani! Non devi giocare con i capelli! Non devi… non devi… non devi!’

La grande villa mi riempì di soggezione. Aveva una scalinata di marmo, degli specchi di cristallo sfaccettato e un tappeto dai colori vivaci. La miscela di aromi di pino, candela, cioccolato e torta, le fragorose risate dei tre piccoli Koch e dei loro cugini, un albero di Natale alto fino al soffitto con un mucchio di pacchetti multicolori ai piedi… ero talmente frastornata che avrei voluto avere le ali ai piedi per fuggire via!

“Accomodati, Simone, non essere timida, non ti faranno certo del male!”

Zia Eugénie mi presentò ai bambini e ai loro cugini, che non parevano per nulla entusiasti di trovarsi in presenza di una ragazzina. “I maschi sono tutti uguali – pensai – anche questi sono dispettosi come i miei compagni di scuola, che continuano a lanciarci le castagne”. Non li sopportavo proprio!

Mi fecero accomodare su una sedia così alta che i piedi penzolavano e in più i capelli mi infastidivano. Osservando la scena la zia sorrise. Con un gesto dolce, ma deciso mi toccò le ginocchia per farmi smettere di ciondolare le gambe, poi spostò la mia mano che si trastullava con i capelli. Io arrossii. Qualcun altro aveva forse notato i miei atteggiamenti poco garbati?

La signora Koch, in un elegante abito di pizzo e con una collana a tre fili, si sedette accanto a me. Mi rivolse la parola in francese, anziché in dialetto alsaziano: “Simone, Babbo Natale ha portato qualcosa anche per te!” Mi condusse per mano davanti all’abete magnificamente decorato e accanto c’era una tavola ricoperta da una tovaglia ricamata. La luce degli addobbi dell’albero si rifletteva sui bicchieri di cristallo e sulle stoviglie d’argento. Ero talmente affascinata da quei luccichii che indugiai a cercare il mio regalo tra la moltitudine dei pacchetti.

La zia venne in mio aiuto: “Simone, è quello che porta un’etichetta col tuo nome”. Sotto l’albero c’era un presepio come quello esposto in chiesa la sera di Natale. Però la festa era già passata. Allora perché quello era ancora lì? Una scatola stretta conteneva il mio regalo, un omino di legno alto una ventina di centimetri con una fessura sul dorso. “È un salvadanaio. Potrai conservarci i tuoi risparmi”. Lo aprii: era vuoto.

Presi il mio regalo e tornai a sedere. Una cameriera in abito nero e grembiulino bianco mi offrì dei dolcetti. Mi sentivo a disagio, così la zia mi invitò a servirmi.

Finalmente la signora Koch annunciò: “Eugénie, il tram per Dornach parte tra una decina di minuti, potete riaccompagnare la nostra signorina”. Che sollievo! La domestica mi portò il cappotto, la sciarpetta di martora e il cappello di feltro e si offrì di aiutarmi a indossarli.

“Oh no, grazie! Sono grande, posso arrangiarmi da sola!” Tutti i presenti sorrisero.

“Una vera donnina!”, esclamò la signora Koch e ci accompagnò all’ingresso. Da una porta aperta che dava sul corridoio il signor Koch mi salutò inclinando la testa brizzolata. Dietro di lui c’era una specie di tavola con dei piedi dorati e dei cassetti; vidi anche degli scaffali alti fino al soffitto, ingombri di libri. Che tipo di locale poteva mai essere quello?

Era ripreso a nevicare. La casa dei Koch, con tutte le finestre illuminate, pareva un castello delle favole.

Sulla via del ritorno domandai a zia Eugénie perché i signori Koch chiamassero Babbo Natale il Bambino Gesù e come mai lui avesse portato un regalo per me a casa loro e in una data diversa da quella di Natale. Ma le sue risposte furono alquanto evasive. Non ci capii più niente!

Dopo le vacanze ripresi la scuola con gioia, ma l’aula scolastica era gelida. La stufa appena accesa ci mise un po’ per riscaldare gradevolmente l’ambiente. Madeleine, Andrée, Blanche e Frida non avevano avuto un albero di Natale. I loro unici doni erano stati un’arancia, una mela e qualche noce. “È perché sono povere”, disse la mamma.

La notte seguente, sotto le coperte, rimproverai Gesù Bambino: “Perché tratti in modo diverso i poveri e i ricchi? Perché hai regalato ai figli dei Koch trenini elettrici, libri, giochi e automobiline? Hanno ricevuto tanti regali che si sono stancati di aprire i pacchetti! Invece alla maggioranza delle mie compagne di classe non hai voluto portare niente. Nulla! Neppure un giocattolino! Questa è ingiustizia bell’e buona!” Non era forse così che il papà aveva definito l’ingiustizia: favorire i ricchi a scapito dei poveri?

Questa ignominia doveva assolutamente finire. Iniziai a comprare del cioccolato e dei pasticcini da distribuire a scuola quotidianamente. Un giorno, passando davanti a un negozio di giocattoli, vidi esposta una graziosa bambolina sistemata su un seggiolone. Visto che a Natale Frida era stata dimenticata, decisi di regalargliela. Entrai nel negozio per informarmi sul prezzo: cinque franchi! “Per favore, tenetemi da parte questa bambola, verrò a prenderla oggi pomeriggio”, dissi. Quindi rientrai a casa per mangiare.

Dopo pranzo, Madeleine mi chiamò dalla strada per fare il tragitto insieme, ma la mamma la invitò a salire in casa. “Madeleine – domandò guardandomi in tono di rimprovero – ti piacerebbe avere una ladra per amica? Per piacere, di’ alla maestra che Simone arriverà in classe con un po’ di ritardo!”

La mia amichetta sgranò gli occhi. Non capiva che cosa stesse accadendo e, d’altronde, neppure io! Poi se ne andò senza di me.

“Rendimi i soldi che hai rubato!”

“Mamma, io non ho rubato niente!”

“Non mentirmi, per di più!”

“Non sto mentendo! E non ho rubato!”

Con un gesto brusco affondò la mano nella mia tasca ed estrasse la moneta da cinque franchi.

“Ah! E questa che cosa sarebbe?”

“Sono dei soldi che ho preso, ma non li ho rubati!”

“Puoi spiegarmi la differenza?”

“Ma certo! Dovevo correggere la terribile ingiustizia che Gesù Bambino ha commesso nei confronti di Frida. Volevo comprarle una bambola!”

Con mia gran sorpresa, fu la mamma ad acquistarla, ma la sistemò sullo scaffale, accanto al salvadanaio regalatomi dalla signora Koch.

“Ascolta bene, figlia mia. Rubare significa prendere qualcosa che non ti appartiene, poco importa per quale scopo. Voglio che questa bambola ti aiuti a ricordarlo. Rimarrà su questo ripiano. Guai a te se la sposti! Fino a che tu la lascerai là e non ruberai più, non farò parola di questa storia a tuo padre, manterrò il segreto. Sai che lui deve lavorare ore, anzi, che dico, giornate intere per guadagnare cinque franchi? Tu sai quanto lui tenga all’onestà, perciò fa’ attenzione! Non ti ha mai picchiata,eppure in questo caso lo farebbe. Non azzardarti a spostare questa bambola dallo scaffale, altrimenti ti caccerai in guai seri!”

Il giovedì non c’era scuola, così ogni tanto mia cugina veniva a trovarci con la sua bambola e assisteva alle lezioni che davo alla mia. Prendevo questo compito molto seriamente e facevo del mio meglio, tentando di ripetere i concetti di educazione civica appresi a scuola. Trovavo, però, delle difficoltà quando cercavo di spiegare alle bambole che cosa fosse e come funzionasse la coscienza, come la si potesse perdere oppure non possederla affatto. In verità, non lo comprendevo appieno neppure io!

Un giorno domandai al papà: “Che cos’è una coscienza?”

“È una specie di vocina interiore che ti dice ciò che è bene e ciò che è male”.

“Papà, la maestra dice che dovremmo riflettere ogni sera sulla giornata appena trascorsa e su quello che abbiamo fatto”.

“Questo significa farsi un esame di coscienza. Certo, per i piccoli è ancora un po’ difficile, ma più crescerai più lo saprai fare”.

“Io non sento niente, eppure vi presto attenzione tutte le sere. Non c’è nessuno che parli dentro di me. Come devo fare perché questo succeda?” Lo volevo sapere! Non avevo assolutamente intenzione di far parte dei “piccoli”.

“Continua a cercare questa vocina e ad attenderla. Un giorno la scoprirai: è dentro di te”.

“Papà, la notte scorsa, mentre ero coricata, le mie gambe mi hanno parlato”.

“E che cosa ti hanno raccontato?”

“Che avevano voglia di girarsi”.

“E tu che cosa hai risposto?”

“Ho cambiato posizione”.

“Erano i tuoi muscoli a mandarti il segnale. Anche i tuoi sentimenti ti parlano e, col tempo, imparerai ad ascoltarli con attenzione e a ubbidire loro”.

Continuavo a istruire la mia bambola con tutta la serietà del caso. Un giorno ero con lei nella nostra “aula” e guardavo la mamma intenta a cucire. Quando il papà entrò nella stanza fui felice, ma poi i suoi occhi si posarono sulla bambolina seduta sulla mensola. Mi sentii come Zita, che, dopo avere combinato qualche marachella, si rifugiava sotto il letto!

“Da dove viene questa bambola?” Quasi certamente mi aspettavano dei guai!

“Non è carina? È come piace a Simone”, rispose la mamma, senza distogliere gli occhi dal suo lavoro. Mi irrigidii ed evitai di guardare il papà.

“Deve essere costata cara, le miniature di questo tipo sono senza prezzo”.

Mi sentivo persa! Lanciai uno sguardo sconsolato alla mamma, che continuava tranquillamente a cucire.

“A proposito, Adolphe, visto che parliamo di oggetti costosi, ti sei informato sul prezzo di una bicicletta nuova?”

“Sì, l’ho fatto. Per il momento non possiamo permetterci una tale spesa. È veramente troppo cara!”

“E per quanto tempo dovremo risparmiare?”

La mia cara mamma aveva mantenuto il segreto! Mi levai un peso dallo stomaco. La sera, a letto, guardai la bambolina e pensai a tutti i dolciumi che avevo distribuito. Rividi i visi felici dei miei compagni di classe. Ma, improvvisamente, il mio cuore si mise a battere più forte. Con i soldi rubati, avremmo forse potuto acquistare una bicicletta per il papà? I battiti accelerarono sempre di più. Era la mia coscienza che parlava? Come esserne sicura? Non potevo certo domandarlo al papà, altrimenti avrei tradito il segreto. Era una situazione senza via d’uscita!

Non sopportavo più la vista di quella bambolina! La mattina dopo la spostai tutta tremante, ma la sera me la ritrovai sulla mensola, seduta al suo solito posto. Nonostante i miei sforzi per farla sparire, la scena si ripresentò anche nei giorni seguenti. Col passare del tempo i battiti del mio cuore divennero sempre più veloci e alla fine mi sentii soffocare sotto il peso del rimorso. Il silenzio della mamma sul nostro segreto mi era diventato un fardello. Capii di aver preso coscienza della mia coscienza!

♠♠♠

Un giorno l’insegnante descrisse con dovizia di particolari una visione mistica mozzafiato: lo splendore del trono divino. Ci parlò entusiasta degli angeli creati da Dio per attorniare il suo trono e diffondere una musica celestiale con le loro arpe dorate. Perché non potevo essere con loro?

“Noi esseri umani non li possiamo vedere perché sono delle creature spirituali invisibili. Hanno delle grandi ali e volano attraverso i cieli”.

Alla fine di questo esaltante discorso mi risultò difficile concentrarmi sull’esercizio di calcolo. Le lezioni proseguirono per altre due ore e poi, alle undici del mattino, sopraggiunse il curato per la lezione di catechismo.

“Benedetto sia colui che viene nel nome del Signore!”, recitò con voce solenne. L’intera classe si alzò per rispondere: “Amen”.

“Come si fa ad andare in cielo?”, ci domandò.

Era proprio quello che desideravo sapere!

“Accettando la sofferenza”, rispose lui stesso. “Gli uomini soffrono per un castigo di Dio, che punisce i suoi prediletti. Allora, rallegratevi quando soffrite!”

Al termine della lezione lo avvicinai. “Signor Curato, per quale motivo Dio ha creato gli angeli direttamente in cielo, mentre noi possiamo arrivarci solo attraverso le sofferenze?”

L’espressione del prete divenne minacciosa e mi fulminò con gli occhi. Con voce tonante e tremante di collera esclamò: “Non hai che sei anni e osi criticare Dio?”

“Ma signor Curato, volevo solo…”

“Taci! Tu hai uno spirito ribelle. Se continui così andrai direttamente all’inferno! Impara il catechismo e non lo mettere mai più in discussione!”

Me ne andai tutta triste, a capo chino e col cuore pesante. Immersa nei miei tristi pensieri, scoppiai in lacrime. Provai una tale vergogna che, per non darle un dispiacere, preferii non parlarne alla mamma. Da quel giorno il catechismo non mi piacque più. Lo sguardo severo del curato e la sua voce intimidatoria mi mettevano a disagio. Era come se non volesse parlare di altro che dell’inferno. Preferivo recarmi in chiesa.

Febbraio 1937

La domenica andavamo a messa a piedi, agghindati con gli abiti migliori. La mamma portava un bel cappellino e il papà un basco, che sfiorava con le dita in risposta ai saluti della gente. Tenevo il mio messale dalla copertina di madreperla nella mano sinistra e davo la destra al mio papà. La mamma stringeva al petto la borsetta e il proprio messale, salutava i passanti con un cenno del capo e un sorriso.

“Devono essere le dieci, gli Arnold vanno in chiesa”, dicevano alcuni nostri vicini. I rispettosi saluti che tutti porgevano ai miei genitori mi riempivano di orgoglio.

La nostra chiesa era imponente. Il portale era spalancato per accogliere i fedeli. L’altare maggiore, tutto dorato, splendeva sotto i raggi del sole, che attraversavano le alte vetrate, eclissando le fiammelle dei ceri. Ma io non ero più rapita come prima. Le statue dei santi avevano un che di tetro. Durante l’eucaristia non me la sentivo più di rivolgere lo sguardo al curato assistito dal chierichetto. Tuttavia mi battevo coscienziosamente il petto con gli altri fedeli: “Mia colpa, mia colpa, mia massima colpa”.

In una bella giornata di febbraio, calda e soleggiata, dopo la messa facemmo una scampagnata. “Dovrai lasciare Claudine a casa perché cammineremo molto attraverso campi e prati”.

La terra bruna, rallegrata qua e là dal verde primaverile di un prato, si estendeva a perdita d’occhio. Una cicogna, simbolo dell’Alsazia, passeggiava in un acquitrino vicino al Doller, il fiume locale. Zita scodinzolava e correva avanti e indietro con la pancia a terra, dando la caccia a tutto ciò che le capitasse a tiro e giocando a nascondino con me. Al tramonto i raggi del sole presero a danzare con i veli di foschia, che ondeggiavano sull’erba. All’improvviso, notai in lontananza un uomo dalla figura familiare che usciva dal folto degli arbusti in compagnia di un ragazzino. Si allontanarono frettolosamente e scomparvero.

La sera stessa, la mamma si sedette vicino a me; desiderava parlarmi prima che mi coricassi e ciò mi rese un po’ inquieta.

Mi guardò molto teneramente, ma con viva preoccupazione: “So quanto ti piaccia andare in chiesa a pregare prima della scuola. D’ora in avanti, però, tuo padre e io non vogliamo più che tu ci vada senza di noi”.

Queste parole mi lasciarono molto stupita: “Ma perché, mamma?”

“La chiesa è molto grande e poco illuminata. Qualche malintenzionato potrebbe nascondersi e tentare di farti del male”. Prese il mio mento tra le dita e, con voce più dolce, ma decisa, aggiunse: “Non andarci più da sola, d’accordo?”

Il lunedì mattina oltrepassai la chiesa senza fermarmi, e il cuore mi batteva forte. La richiesta dei miei genitori non mi piaceva, comunque obbedii. A scuola ci furono le solite lezioni; durante l’ora di religione trattammo la storia di santa Teresa di Lisieux. Come al solito presi un buon voto, con i complimenti della maestra per i compiti ben fatti. Frida era presente quella mattina, ma tossiva così forte che l’avevano fatta sedere da sola nell’ultima fila. Il cielo assunse gradualmente una sfumatura plumbea e la neve iniziò a cadere. Vennero riaccese le luci. A mezzogiorno, quando uscimmo, affrontammo una vera tempesta. Costrette a camminare all’indietro, ci riparavamo lungo i muri delle case. Frida lottava a fatica contro il vento scatenato. Era scossa da interminabili accessi di tosse e riprendeva fiato con difficoltà.

Quando giunsi a casa abbracciai la mamma e le sussurrai all’orecchio: “Non sono entrata in chiesa questa mattina!”

“So che sei una brava bimba”. Mentre ascoltava il racconto del movimentato ritorno, scrollò la neve dal mio mantello e mi porse delle pantofole ben calde.

“Sai mamma, adesso Frida, poverina, deve sedersi in fondo all’aula tutta sola a causa della sua tosse”.

“Quando tossisce davanti a te, faresti meglio a voltare la testa”.

Nel pomeriggio il cielo si rischiarò, ma il banco di Frida rimase vuoto e io mi resi conto delle gravi conseguenze delle malattie. Quel giorno decisi che, prima di divenire santa, avrei esercitato la professione di infermiera.

Dalla finestra dell’aula scorsi i passeri appollaiati sui davanzali delle vetrate colorate della chiesa e io immaginai l’altare illuminato dai variopinti raggi di sole che si infiltravano. Ma io non potevo più andarci!

Avevo tentato di intenerire mio padre per strappargli il permesso di passare in chiesa al mattino, ma lui mi aveva risposto: “Che cosa ti ha raccomandato la mamma?” Naturalmente lui aveva preso le sue parti. Rannicchiata sotto le coperte, me la presi con i miei genitori.

Perché dovevano sempre allearsi contro di me? Il papà sosteneva in modo incondizionato le affermazioni della mamma. Quando chiedevo a lei il permesso per qualcosa, ricevevo la puntuale risposta: “Ne hai già parlato col papà? Altrimenti possiamo sentire il suo parere”. Non c’era via di scampo! Non riuscivo a prendere sonno.

I miei genitori si sedettero in salotto come ogni sera. Il papà leggeva ad alta voce e la mamma lo ascoltava lavorando a maglia. Ma quella volta li sentii discutere. Parlavano forse di me? Sì, ne ero sicura, parlavano proprio di me! Inizialmente pensai di alzarmi per ascoltarli, ma l’idea mi creava inquietudine, perciò preferii rimanere a letto con l’orecchio teso.

Parlavano di religione. Sentivo la conversazione a intermittenza, in quanto le loro voci a volte si riducevano a un sussurro. “Adolphe, mi pare incredibile, sì persino impossibile, che Dio accetti di incarnarsi in un’ostia innalzata da mani così sudice come quelle di questo prete”.

“Emma, noi uomini non abbiamo il diritto di giudicare un servitore di Dio e…”

Non riuscivo proprio a capire. Mi rifugiai di nuovo sotto le coperte, pensando con orrore a quel sacerdote che non si lavava le mani prima di celebrare la messa!

L’indomani mi trovai d’innanzi alla piccola entrata laterale della chiesa. I battiti del mio cuore accelerarono. “È la casa del Buon Dio. Non può esserci pericolo qui, vero?” Aprii lentamente la porta, ma la chiesa apparve così buia e deserta che la richiusi immediatamente e me la diedi a gambe. Il giorno dopo presi una decisione: sarei entrata, mi sarei fatta il segno della croce con l’acqua santa, avrei percorso il corridoio in punta di piedi nascondendomi dietro i banchi, poi mi sarei inginocchiata davanti all’altare. Lì avrei chiesto in fretta perdono spiegando che non potevo trattenermi perché mi era stato proibito di entrare in chiesa da sola. Infine sarei uscita di corsa dalla parte opposta.

In preda a un’ansia incontrollata, fui quasi tentata di rinunciare. La porta si aprì con un lungo cigolio. Tremavo dalla testa ai piedi. I volti dei santi sembravano prendere vita. Davanti all’altare mi mancò il fiato. Prima di giungere dall’altra parte, sentii le mie gambe cedere. Credetti di udire una voce provenire dalla navata, allora iniziai a correre con tutte le mie forze e mi precipitai verso la porta, sbattendola violentemente dietro di me.

La mia coscienza mi tormentava perché avevo disobbedito, ma ragionai: “Dio è maggiore dei miei genitori! Loro non conoscono il mio desiderio di divenire santa!” Era il mio grande segreto e, per realizzarlo, mi sentivo persino disposta a incorrere nella loro disapprovazione. Ma non fu necessario, infatti non vennero mai a conoscenza delle mie visite clandestine!

♠♠♠

Ero consacrata alla Vergine Maria dal giorno del mio battesimo e ora mi era stata offerta la possibilità di partecipare alla processione che avrebbe avuto luogo di lì a poco. Il prete sarebbe sfilato sotto un baldacchino retto da quattro uomini. Avrebbe tenuto davanti al viso un ostensorio d’oro che richiamava le sembianze del sole, mentre delle bambine avrebbero cosparso il tragitto di petali di fiori. Che bella cerimonia sarebbe stata! La mamma confezionò un bel vestito bianco di leggera organza con una cintura blu. Mi comprò delle scarpe nuove e una coroncina di rose. Non stavo più nella pelle! Purtroppo mi venne la tosse e tutto dovette essere annullato. Fino ad allora non mi ero mai ammalata. Perché doveva proprio capitare in quel momento? Dio era forse adirato con me? La mamma passò tutto l’abbigliamento a un’altra bambina. Mi rodevo dalla gelosia. Dopo soli tre giorni dalla processione fui di nuovo in piena forma, ma più furiosa che mai.

Quando ritornai a scuola, Frida non c’era. Il medico le aveva proibito di uscire fino a completa guarigione. Ogni giorno, passando sotto casa sua, la chiamavo senza ottenere alcuna risposta.

Un mattino vidi nel suo cortile dei vasi con meravigliosi fiori bianchi. Finalmente qualcuno si era preoccupato di lei e le aveva mostrato un po’ di attenzione!

La mamma mi mandò da Aline a comprare dello zucchero per le fragole. Salii i quattro gradini della drogheria e mi trovai dietro a una cliente alta e slanciata che indossava uno spolverino e delle scarpe di coccodrillo. Una vera signora, molto diversa dalle donne della nostra via…

La vidi allungare una mano inguantata di pizzo. Mi mancò il fiato: era lei, la bella signora che tanto ammiravo! Rimasi a bocca aperta e la scrutai con attenzione. Per fortuna la mamma non poteva vedermi!

Aline mi sussurrò all’orecchio: “Simone, non fissarla in quel modo. Ha il pancione perché ha mangiato troppe ciliegie e poi ha bevuto molta acqua”. Non me ne ero neppure accorta. Non avevo avuto occhi che per la sua bella camicetta e la magnifica collana. Che delusione! Dunque quella signora così distinta non sapeva controllarsi? La sua pancia era così gonfia che pareva dovesse scoppiare da un momento all’altro. La scansai bruscamente e, ultimati i miei acquisti, corsi via, lontano da quella donna senza ritegno.

La mamma mi interpellò: “Simone, perché non hai portato Zita con te a fare la spesa?”

“Perché è ammalata e lo è anche Claudine”. Indossavo il camice da infermiera cucito dalla mamma quando le avevo confidato che da grande avrei voluto esercitare quella professione.

“Non scordare che si tratta solo di un gioco. Puoi ancora portare fuori Zita, ne ha bisogno”.

“D’accordo, ma siccome non sta bene la vesto e la metto nella carrozzina di Claudine”. La mamma scoppiò a ridere. Sapeva bene quanto mi piacesse portare a spasso la mia cagnolina fasciata e coricata supina come un neonato, con grande stupore dei passanti.

“No, ora è indispensabile lasciarla correre con le sue quattro zampe”.

“Ma mamma, è veramente ammalata!” Io lo sapevo: ero l’infermiera!

“Come lo sai?”

“Non hai notato che la sua testa sembra rimpicciolirsi ogni giorno un po’ di più rispetto al corpo?”

La mamma tacque e versò lo zucchero sulle fragole: “Guarda, il succo scioglie lo zucchero. Quando torneremo dalla passeggiata dovremo solamente cuocere il tutto”.

Dal nostro giardino godevamo una vista magnifica. All’orizzonte, da un lato della collina, si scorgevano i contorni azzurrognoli dei Vosgi e, dall’altro lato, i monti della Foresta Nera tedesca illuminati da un sole sfavillante.

“Sta’ attenta a Zita e impediscile di scavare buche dappertutto”.

Facile a dirsi! Davanti a una tana di topo, Zita sapeva dar prova di una forza e di una testardaggine fuori del comune e non era facile trattenerla dalle zampe posteriori per impedirle di infilarcisi.

Il crepuscolo sostituì infine l’ombra degli alberi, perciò radunammo celermente gli utensili da giardinaggio. Durante il ritorno, tenevo Zita al guinzaglio. Improvvisamente sentimmo un rumore che pareva il sibilo del vento. Il cielo assunse un colore rossastro e delle volute scure turbinarono sulle nostre teste. La mamma mi afferrò per mano e ci precipitammo al riparo dalle faville che svolazzavano da tutte le parti. Stava bruciando una fattoria!

Dal centro dell’incendio sprizzavano dei tizzoni ardenti che accendevano nuovi focolai nell’erba secca. Alcune galline correvano all’impazzata e altre avevano preso fuoco. Nessuno riuscì a soccorrere i maiali e le mucche prigionieri nella stalla. Gli automezzi dei pompieri erano giunti dalla vicina città per cercare di domare il rogo che stava consumando la fattoria e le case del vicinato. I caschi dei soccorritori riflettevano le fiamme, i loro visi erano rossi e le loro uniformi nere. L’edificio scricchiolò e improvvisamente crollò sugli animali intrappolati e pose fine alle loro sofferenze.

Ci permisero di riprendere la strada di casa, mentre dalle travi annerite si levava ancora del fumo. L’aria ne era satura anche a notevole distanza. Che spettacolo sconvolgente!


Rincasai tutta tremante, incapace di mangiare o di giocare. Lo spavento mi provocò la febbre e la mamma mi consigliò di coricarmi. Zita, che pareva abbattuta tanto quanto me, si accucciò ai piedi del letto con gli occhi lucidi. Non era ancora ora di dormire, ma la mamma mi propose: “Ti sentirai meglio dopo una buona notte di riposo”.

Quella notte fu tutt’altro che tranquilla. Vedevo fuoco dappertutto, anche con gli occhi chiusi. Nei miei incubi udivo i versi degli animali che bruciavano. La mamma venne a stendersi vicino a me.

Il giorno seguente non mi sentii affatto meglio. “Mamma, è stato Lucifero a incendiare la stalla dove si trovavano gli animali?”

Lei mi elencò le cause più probabili dell’incendio, ma le sue spiegazioni non bastarono ad allontanare il terrore dell’inferno. Il papà tentò di distrarmi facendomi disegnare, ma ero troppo turbata.

♠♠♠

La giornata era bella e calda, eppure Frida era ancora assente. “Signorina maestra, perché Frida non ritorna a scuola?” Invece di rispondermi mi accarezzò i capelli.

“Tossisce ancora?”

“Oh no, non tossisce più, ora è in cielo”.

“Ecco perché!”

“Che cosa vuoi dire?”

“Ecco perché c’erano dei vasi di fiori bianchi nel suo cortile”.

Passai singhiozzando davanti alla sua modesta casetta con le persiane sbarrate. I fiori erano ormai appassiti, morti anche loro. Ero così addolorata per la sua scomparsa che non sopportavo più di vedere la sua abitazione, così attraversai la strada. Ma un pensiero mi consolò: in cielo non avrebbe mai più tossito; avrebbe suonato per sempre l’arpa dorata su una nuvola. Poteva forse vedermi da lassù?

Ci fu di nuovo lezione di catechismo. Di che cosa avrebbe parlato il prete questa volta?

“Esiste una differenza tra il fuoco del purgatorio e quello dell’inferno; chi muore da peccatore può scampare al fuoco dell’inferno solo se gli vengono somministrati gli ultimi sacramenti e l’estrema unzione. Per questo bisogna chiamare un prete. Il moribondo deve confessarsi senza dimenticare alcun peccato. Allora gli si potrà impartire la santa comunione. Tuttavia un defunto, anziché essere accolto subito in cielo, potrebbe trascorrere un certo periodo in purgatorio, dove le anime bruciano e soffrono, ma possono uscirne dopo essere state purificate dai loro peccati. La famiglia può abbreviare le sofferenze del proprio caro attraverso la celebrazione di messe di suffragio, preghiere e offerte votive”.

La notte seguente fu terribile. Vedevo Frida tra le fiamme e la signora tanto distinta che gemeva lamentandosi del suo ventre scoppiato. Pompieri dalle facce cremisi avevano code forcute da demoni. I gemellini annegavano in un fiume infuocato. Volevo pregare per loro, però i santi non udivano la mia voce a motivo del crepitio del fuoco. Urlai e mi svegliai. La mamma accorse e mi asciugò la fronte madida di sudore. Il mio letto era completamente sfatto. Lei lo rassettò, mi rimboccò le coperte e mi baciò. Spossata, ricaddi nel sonno, ma gli stessi incubi non tardarono a tornare. La sera successiva ero troppo impaurita per andare a dormire. Il mio letto era divenuto un vero inferno!

Zita aveva partorito dei cuccioli e ora la sua testa sembrava aver ripreso le giuste proporzioni. Poco tempo dopo, in una bella giornata di sole, rividi l’elegante signora: spingeva una carrozzina e appariva sgonfiata. Corsi verso la mamma e le domandai: “Le donne portano i loro bambini nella pancia come Zita?” Le sue spiegazioni mi permisero di capire che la signora Huber e Aline mi avevano mentito.

“Ma perché le persone mi dicono che, per avere una sorellina, devo dare una zolletta di zucchero alla cicogna?”

“È una storiella per i piccoli”.

“Ancora con questi ‘piccoli’! Io non faccio più parte dei ‘piccoli’. Perché gli adulti raccontano delle menzogne?” La mamma non mi rispose.

“Dio non ha forse detto: ‘Non devi mentire’? Gli adulti non hanno dunque paura di andare all’inferno?”

Quella sera, sotto le coperte, decisi che non avrei mai più rivolto la parola alla signora Huber. Perché la mamma non aveva risposto alle mie domande? Perché gli adulti mentivano ai bambini? Da quel momento avrei dovuto vagliare accuratamente tutto ciò che mi avrebbero raccontato! Quell’idea mi mise di pessimo umore.

♠♠♠

Il papà era un meraviglioso compagno di giochi e mi suggeriva sempre nuovi passatempi. Avevo qualche difficoltà con la trottola che zio Germain mi aveva costruito. Appena iniziava a girare, già rallentava, vacillava e cadeva. Dovevo dunque ricominciare tutto daccapo: avvolgere la cordicella attorno al manico, posare la trottola con la punta rivolta verso il basso su una superficie piana e rilanciarla con un colpo secco all’estremità della cordicella.

Intanto il papà mi incitava dal balcone: “Riprova! Andrà meglio la prossima volta!” Nella nostra via non c’erano automobili in circolazione, perciò vi potevo giocare liberamente. In estate, dopo l’orario di lavoro, alcuni vicini si affacciavano alle finestre con le braccia comodamente appoggiate su un cuscino disposto sul davanzale. Quella sera mi osservavano e le loro battute, invece di scoraggiarmi, mi spronarono a impegnarmi di più. L’ora di coricarsi arrivò presto e faceva talmente caldo che la mamma lasciò le persiane socchiuse.

“Mamma, papà, presto, aiuto, aiuto, il fuoco, il fuoco!” Un bagliore rosso e arancione aveva invaso la mia cameretta. Il papà arrivò, mi fece alzare e mi accompagnò sul balcone. La signora Huber, la signora Beringer e la signora Eguemann erano uscite tutte e tre per ammirare lo straordinario spettacolo. Il sole era tramontato, le montagne blu erano divenute nere, tutto il cielo si era tinto di scarlatto e Jean, un giovanotto del vicinato, suonava una melodia nostalgica col suo mandolino.

“Chi ha aperto la porta dell’inferno?”

“Non è il fuoco dell’inferno, ma un tramonto eccezionale!”

“No, per illuminare tutto il cielo deve essere un fuoco immenso!”

Il papà e la mamma si guardarono scuotendo la testa.

“Sono straconvinta! Questo bagliore proviene dall’inferno. Il curato ci ha detto che i peccatori impenitenti non salgono al cielo, ma discendono in un inferno ardente”.

Il papà tentò di spiegarmi qualcosa a proposito di lava e di fuoco sotterraneo, ma i suoi discorsi servirono solamente ad accrescere il mio terrore e confermare le mie paure. La mamma mi riaccompagnò a letto, si sedette accanto a me e mi rassicurò nuovamente che si trattava di un semplice tramonto.

“Non aver paura dell’inferno. Noi abbiamo i santi che intercedono per noi e anche un angelo custode”.

Non servì a nulla, poiché io conoscevo molto bene la sorte di chi moriva senza la confessione e l’estrema unzione! Se i miei genitori fossero morti nel sonno, sarebbe stato tremendamente orribile. Da quella sera in poi mi intrufolavo ogni notte nella loro camera e verificavo che respirassero ancora mettendo il mio dito sotto il loro naso. Solo così riuscivo a prendere sonno.

Una domenica pomeriggio uscimmo per l’abituale passeggiata e passammo davanti a una trattoria; mi ricordai di esserci già stata all’età di tre anni e di avere ballato su una tavola fra gli applausi dei clienti.

Anche il papà se ne ricordò, infatti mi disse, con un’aria che avrebbe voluto sembrare severa: “Ti ricordi? Che sia chiaro una volta per tutte: non voglio assolutamente che tu divenga una ballerina di cabaret!”

Non era il caso! Quella raccomandazione era del tutto superflua! Ero grande e seria ora; presto avrei compiuto sette anni! Sapevo tutto sulla malattia, sulla morte, sul purgatorio, sull’inferno e su Dio, che ci procurava ogni sorta di sventura per testare la nostra fede. I miei genitori cercavano di rassicurarmi, ma la mia spensieratezza era finita. L’educazione religiosa ricevuta a scuola mi aveva fatto comprendere quanto la vita terrena fosse difficoltosa e che io, per divenire santa, avrei dovuto sopportare molte prove. Questa era diventata la mia principale preoccupazione. Un anno di catechismo mi aveva immersa in uno stato permanente di terrore di Dio, questo Padre così severo ed esigente! Come avrei mai potuto essere dell’umore adatto per ballare?

Seduta su uno sgabello, istruivo ancora Claudine. Cercavo di insegnarle la pronuncia dell’alfabeto tedesco. La mamma era sulle scale del caseggiato per il suo turno delle pulizie. La nostra vicina si accontentava di lavarle con uno straccio umido, invece la mamma passava la cera con insistenza fino a fare brillare il legno. La sentii parlare con qualcuno sul pianerottolo, rientrare nell’appartamento per prendere del denaro e riuscire subito.

“Le leggerò – la udii promettere – ma ho l’impressione che Dio dorma e che non si interessi dei nostri problemi. Qual è la vostra risposta?”3 Come aveva osato esprimersi in quel modo? Sarebbe stata dannata all’inferno! Mi inginocchiai davanti al mio piccolo altare e supplicai i santi di intercedere in suo favore per proteggerla dall’ira divina. La salvezza della sua anima mi stava a cuore.

3 La mamma aveva conversato con dei testimoni di Geova, che stavano predicando di porta in porta e distribuivano degli opuscoli. Fino al 1931 si chiamavano Studenti Biblici o in tedesco Bibelforscher (ndt)

Quel giorno era il mio turno di lavare le stoviglie e non riuscivo a pulire bene le incrostazioni sul fondo delle pentole. “Ci verseremo dentro dell’acqua e le lasceremo in ammollo. Si puliranno più facilmente in seguito”, mi disse la mamma, con la mente rivolta altrove. Appoggiò le pentole su un mobile del balcone, dietro a una tenda che proteggeva la nostra cucina dagli sguardi curiosi dei vicini. Rimasero lì per diversi giorni!

La mamma era entusiasta delle riviste che le avevano lasciato. Non smetteva di leggere la Bibbia che si era comprata in libreria: a malapena si prendeva il tempo per preparare i pasti! Da quel famoso giorno in cui mi aveva proibito di andare in chiesa da sola, lei stessa non vi era più tornata, né per confessarsi né per fare la comunione. Partecipò ancora per qualche tempo alle funzioni della vicina parrocchia, ma poi abbandonò del tutto le consuetudini religiose. Restavo solo io ad accompagnare il papà. Lui aveva un’aria piuttosto depressa e neppure io mi sentivo a mio agio. Nemmeno la bella musica dell’organo serviva a risollevarmi il morale. E ora, per di più, la mamma sembrava non sapesse più cucinare! “Legge troppo!”, dicevo tra me.

Una sera, mentre stavo per prendere sonno, sentii i miei genitori discutere. Tesi le orecchie il più possibile per captare le loro parole. Di certo avevano un segreto e io volevo assolutamente carpirlo. Sgusciai nel corridoio per ascoltare la loro conversazione. Il papà aveva un tono insistente. La voce della mamma era più dolce, ma molto ferma, e parlava della libertà di scegliere la religione secondo coscienza.

“Noi siamo cattolici!”, rispondeva continuamente il papà.

“Certo che lo siamo! Che bisogno ha di ripeterlo?”, mi domandai. Non riuscii ad afferrare la risposta della mamma.

Il papà, innervosito, ribadì con fermezza: “Noi dobbiamo restare fedeli!” Aggiunse che a Roma si trovava una certa roccia, chiamata Pietro, sulla quale era assiso il Papa; poi si alzò bruscamente. Accennai un mezzo giro per cercare di eclissarmi, ma era troppo tardi: il papà mi aveva vista. Uscì dal salotto infuriato: “Fa’ come credi!” Dopo alcuni passi si voltò per ribadire: “Ti proibisco di parlare a Simone delle tue idee e delle tue letture”.

Incredibile! Parlavano di me, eppure mi ignoravano; insomma, mi trattavano come una lattante! Stavo per esplodere dalla collera. Ero così agitata che decisi di tenere testa al papà.

L’indomani le mie prime parole furono: “Mamma, che cosa leggi tutti i giorni?”

“Letteratura biblica”.

“Di che cosa si tratta?”

“Riguarda la Bibbia, la Parola di Dio”.

“La leggerò anch’io”.

“Potrai farlo quando sarai grande”.

“No, subito!”

“Simone, ho promesso a tuo padre di non parlarti né della Bibbia protestante né di altri scritti religiosi”. Mi stavano davvero nascondendo qualcosa!

“Ma ora il papà non c’è!”

“È vero, ma gli ho fatto una promessa”.

“Ma il papà non ti vede e io non gli racconterò niente”.

“Non è una buona idea, sarebbe una specie di menzogna. Figlia mia, tuo padre lavora sodo per mantenerci e per pagare l’affitto. Ha tutti i diritti di prendere delle decisioni sulla tua educazione!” Mi sentii ribollire.

“Ma perché? Perché non ho il diritto di leggere ciò che voglio?”

In casa si creò un ambiente insolito. La mamma continuava a non andare in chiesa, ma almeno non lasciava più bruciare le pietanze. Il papà quasi non apriva bocca, non menzionava neppure più il socialismo! Salutava la mamma in modo meccanico, senza calore o entusiasmo, poi iniziava a interrogarla.

“Chi hai visto? Dove sei stata?” Trovavo stupido questo modo di fare. Eppure mio padre era al corrente che la mamma vedeva solo il droghiere, il macellaio e il panettiere! Perché non la lasciava in pace? Un giorno le sue domande presero i toni di un vero e proprio terzo grado.

“Pretendi di convincermi che quegli uomini che ti hanno lasciato questa letteratura non siano più venuti a trovarti?”

“No, non sono più tornati e mi dispiace, perché avrei molte domande per loro”.

Questa risposta non soddisfece il papà, che continuò: “Allora puoi spiegarmi come ti sei procurata queste nuove riviste?”

“Le ho ordinate”, ribatté la mamma. “Ecco la prova!”, aggiunse esasperata, mostrando una grande busta marrone con tanti francobolli.

“Perché ne hai ordinate così tante e dove sono finite?”

“Ho ordinato tre diversi opuscoli e me ne hanno inviati dieci copie di ognuno”.

“E che cosa ne hai fatto?”

“Le ho distribuite ai vicini del palazzo e ad alcuni che abitano nella strada un po’ più avanti”.

Il papà scosse la testa fuori di sé.

Mi rintanai in un angolo del soggiorno, pensando che dovessero essersi completamente scordati di me. Mi feci più piccola e silenziosa che mai.

Il papà fissò la mamma dritto negli occhi e scandì chiaramente: “Fai anche della propaganda adesso?” La mamma impallidì. Gli avrebbe risposto per le rime? Io l’avrei fatto! La stava trattando come una bambina!

D’un tratto lei disse: “Adolphe, bisogna dare a ognuno la possibilità e il diritto di fare scelte consapevoli. Questo non significa fare della propaganda!”

“Brava mamma!”, pensai, ma, senza rendermene conto, l’avevo fatto ad alta voce e avevo anche borbottato che ognuno, me compresa, aveva pure il diritto di scegliersi le proprie letture. Entrambi mi fissarono e tacquero sbigottiti.

Sola di fronte al Leone

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