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IL CAVALIERE

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L'ho visto l'altra sera a Lugo, la piccola città romagnola ancora affollata e sonora dell'antica fiera, che prolunga con felice anacronismo il proprio costume nei tempi nuovi.

E nel teatro ardente come un calidario, quando dal fondo della scena sopra un cielo violentemente turchino è apparso il mitico cigno dalla docile testa, ricurva sotto il peso delle redini fiorite, un fremito è corso per la densa platea sollevando un murmure di passione. Il cavaliere splendeva come dentro un nimbo d'argento, immobile in una posa di sogno. Sotto il casco bianco, simile ad una calotta appena orlata, i suoi capelli d'oro fluivano in lunghe anella insino alla barba breve: e tutto in lui era bianco, il mantello e la veste, la maglia ed il guanto.

Malgrado la luce troppo calda e rossastra della ribalta, la sua pareva come sempre una apparizione lunare, meravigliosa di un lucido pallore, più stupefacente ancora nella lentezza solenne dell'arrivo.

Dopo tanti anni anche la mia anima ha ripalpitato come la prima volta che il bianco cavaliere discese sulla scena del massimo teatro bolognese fra un'aspettazione così intensa, che mai forse eroe vero, irrompente nella battaglia aveva sentito intorno a sè, fra urla di riscossa e di spavento.

Che cosa non si era detto e scritto allora del Lohengrin? Qual pregiudizio di scuola e di razza, qual paradosso d'estetica, qual vanto di novità, qual classico disdegno era stato risparmiato?

La grande musica, che aveva abbellito di tanta gloria universale il faticoso andare della nostra rivoluzione, sembrava esausta anch'essa nel medesimo trionfo: l'Italia era libera, Roma italiana, e Verdi, ultimo dei quattro magni maestri, discendeva per la parabola lunga dell'ingegno negli ipogei egiziani a cercarvi indarno il sublime orrore di una tragedia ieratica. Anch'egli era sorpreso, sorpassato dalla rivoluzione, che aprendo un tempo novello esigeva altre forme per una più moderna coscienza. Comunque il magnifico e avventurato maestro ornasse di nuove opere la propria vecchiezza, non saprebbe più guadagnarvi un'altezza pari a quella del Rigoletto, uno dei drammi più lucidi e terribili della musica in questo secolo, la più bella vittoria di un ingegno italiano sul massimo genio francese, perchè, bisogna ripeterlo ancora con superba esultanza, Verdi vinse Hugo, la musica del Rigoletto sorpassò la poesia del Roi s'amuse.

Wagner fu allora un liberatore appunto perchè oggi appare già un tiranno.

La sua estetica, più assurda di quella posteriore dello Zola, sedusse quanto l'originalità vera del suo ingegno: egli critico ebbe sudditi più devoti che a lui artista, la sua intransigenza teutonica provocò in Italia ogni più ingiusta negazione del genio nazionale.

Doveva essere così. Qualunque rivoluzione è costretta a condannare il centuplo di quanto può realmente mutare: non vi è religione senza idolo, non fede senza dogma, non dogma senza fanatismo.

Noi che adesso decliniamo al tramonto, passammo allora per un lungo periodo di ossessione; vi fu un terrorismo wagneriano come poco dopo un terrorismo zoliano: nessuna novità, nessuna bellezza era più possibile contro o al di là dei due illustri maestri. Wagner aveva imposto il proprio sogno di un teatro mitico, la propria illusione di una musica capace di esprimere le tragedie del pensiero e le epoche più misteriose della storia; Zola in nome di un naturalismo, che scemava la natura, pretendeva derivare nel romanzo il metodo sperimentale e ridurre la creazione della figura ad un plagio fotografico. Ma poichè l'inconsapevole spontaneità dell'ingegno vinceva nei due maestri spesso la falsità dei loro canoni artistici, grandi opere uscirono dalle loro mani, mentre gli imitatori, immiserendo tristamente nella caparbietà di quella estetica, ne affrettavano il tramonto anche dentro l'anima ignara del pubblico.

Dopo trent'anni Lohengrin, il bianco cavaliere, ricomincia un viaggio di gloria per le nostre province.

Le grandi discussioni di un tempo sono già dimenticate: Wagner regna nella storia splendendo ancora nella vita per l'immortale giovinezza di alcune figure e l'incanto inesauribile di melodie, non molte forse, ma scaturite dalle più intime profondità dell'animo umano. Fra tutti i suoi simboli certe figure soltanto raggiano di vita ed accendono i cuori: del suo teatro invece non resta che la grandiosa superbia del concetto e l'incomparabile abilità della sceneggiatura. Nessuno, nemmeno il Sardou, può essere a lui paragonato per la scaltrezza dell'inganno scenico; nessuno, nemmeno Beethoven, seppe come lui piegare l'orchestra a tutte le necessità del dialogo e mettere nelle sue voci più accento umano.

Ma Beethoven supera Wagner di quanto Omero vince Virgilio: quelli ebbero il genio vero della creazione, i suggerimenti sinceri ed ingenui della natura; questi, cresciuti nella scuola, ne sfondarono forse l'orbita, ma nella loro opera memoria e riflessione, calcolo e volontà, furono troppo preponderanti. Dante e Shakespeare non scrissero libri di critica, non inventarono estetiche, non costrussero sistemi: Tolstoi, un altro genio, l'ultimo cadetto della piccola famiglia, non fece che polemiche morali e tardi, fortunatamente per lui. L'artista era già morto, l'apostolo non poteva più guastarlo.

Ma qual fiamma, qual passione, domandavo a me stesso in quell'angusto teatro di Lugo, così gremito di un popolo così attento ed intento, qual fiamma e qual passione di bianco cavaliere s'accende ancora nell'anima della folla, adesso che le orecchie ascoltano altre voci e le fantasie seguono il volo di altre parole?

Questo bel cavaliere d'argento, che un Olimpo sconosciuto, immerso in un candore eterno di neve, manda in terra a difendere una principessa tragicamente accusata da parenti assassini, e che vi arriva guidato da un cigno sopra una conca di madreperla; questo cavaliere, che s'innamora della fanciulla forse perchè l'argentea armatura non gli bastò contro le tentazioni terrene, ma imponendole soltanto di non domandargli il proprio divino segreto, quale idea, quale passione lusinga più nell'anima popolare lontana per molti secoli da quel mondo di cavalieri e di dame, di angeli e di demoni?

Eppure no.

L'anima umana non muta: dentro ogni re, ogni principessa, ogni cavaliere, vi è sempre lo stesso uomo e la stessa donna: cangiano gli attori, non la tragedia, le canzoni, non il canto, le parole, non il fatto. Lohengrin, il bianco cavaliere, è dietro a tutti i sogni giovani e, più lungi, dietro tutti i sogni vecchi: è l'amante ideale, che la donna invoca e non può comprendere: egli non le impone che di rispettare il proprio mistero, di non pretendere ad un segreto per lei inaccessibile, e la donna promette, ma nella prima ora, prima del primo bacio, preferisce già la gioia della curiosità vincitrice, viola la data fede, uccide il cavaliere nell'uomo e l'amore nel matrimonio.

Lohengrin è un simbolo di questo fatto umano, e la sua meravigliosa forza di seduzione gli deriva appunto dalla bellezza religiosa. È la necessità del sacrificio nell'amore, è la ribellione al sacrificio, che formano il fondo del dramma lohengriniano, nel quale, come sempre, l'uomo è sacrificato dalla donna. La seduttrice non sa resistere a sè stessa e soccombe.

Guai se non fosse così.

L'amore non è forse una preparazione, della quale il bambino è lo scopo?

La donna forte non può essere che la madre: la donna amante ingannerà, mentirà sempre a sè stessa prima che agli altri, da Eva ad Elsa, da Adamo a Lohengrin: quegli perdette il paradiso, questi vi riportò la nostalgia della terra, e la loro tragedia continua nell'aneddoto quotidiano.

Però hanno torto coloro che pensano esauriti nell'anima popolare i profondi motivi della lirica e del dramma: presentate al popolo qualche altro cavaliere come Lohengrin, e lo vedrete tremare di emozione, lo vedrete applaudire più vivacemente che a una qualche concione politica.

29 settembre 1900.

Fuochi di bivacco

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