Читать книгу Fuochi di bivacco - Alfredo Oriani - Страница 5

CORONA MURALE

Оглавление

Indice

Una volta era premio al soldato, che dinanzi all'esercito urlante nell'assalto arrivava primo fra tutti a porre il piede sulle mura nemiche; oggi le vecchie città, che la vita moderna assedia dentro e fuori, lottano melanconicamente per conservare la loro corona di mura come una gloria di memore poesia.

E tutti coloro, nè sono pochi, che il passato riattira in un sogno consolatore, levano la mano o la voce ogni qualvolta una nuova minaccia s'aggrava sopra alcuno dei monumenti, rimasti quasi ingombro nel mezzo di una via, come a protestare per la continuità della storia, la quale ha bisogno appunto del passato per indovinare l'avvenire. Nel nostro bel paese la battaglia cominciò all'indomani della rivoluzione, quando nell'ardore precipite del rinnovamento troppi spiriti ancora più mercantili che rivoluzionari si gettavano innanzi ad acquistare, nelle avventure del guasto necessario, una facile nomea di modernità o un più facile guadagno da appalti e da vizi. Molto fu cancellato e rifatto senza altra cura che di far presto; l'esaltazione del presente rendeva ingrati verso le vecchie cose e le vecchie idee; pareva potenza il dimenticare e superiorità il non capire.

Quindi si videro ingegneri sbucati dalle università come da caserme avventarsi ovunque e tagliare nell'antico corpo delle città nuove strade come nel vuoto o sulla carta, la quale, per antica abitudine, sopportò e sopporterà sempre tutti i segni della ragione e della follia umana; dove il tempo aveva più addensate le case, piazze improvvise si allargarono, tutti i nomi si mutarono, non si rispettò alcuna architettura, e un'altra non ne sorse in tanto fervore di novità. Gli affari si moltiplicarono, rivoli di danaro passarono per i vani dove la prima volta entravano i raggi del sole, e una lindura quasi di bucato mutava la fisonomia delle strade, mentre i loro storici lineamenti si dileguavano, e molte, troppe delle grandi opere, nelle quali il genio del passato aveva pur significato una gloria immortale, sparivano fra un turbine di polvere e di parole.

Ma poi la febbre decrebbe.

La conquista dei venturieri, rimasti acquattati dentro le proprie case nei giorni sanguigni della guerra, e poi così ardenti nella battaglia delle aste governative e comunali, provocò una reazione: la politica del rinnovamento non bastò a giustificarne tutti gli eccessi, molte cose divennero note appunto perchè scomparse, e siccome il nuovo era bello raramente e aveva costato troppo alla ricchezza e alla onestà pubblica, quanto rimaneva ancora del passato nelle chiese, nei monumenti, nei palazzi, riapparve quasi in una subita rivelazione. I poeti suonarono la diana sulle alture, storici ed eruditi uscirono dalla dotta solitudine per schierarsi in coorte davanti alle superstiti bellezze, la folla stessa si compiacque di avere un passato ed applaudì vivamente coloro che glielo mostrarono rinnovellato da un qualche sapiente restauro.

Adesso l'equilibrio fra coloro che, fisi all'avvenire, dimenticano persino il presente, e gli altri che, perduti nell'incanto delle poetiche lontananze, non si accorgono come tutto muti continuamente loro dintorno, è quasi ristabilito: la nostra coscienza nazionale, sicura nella rivoluzione compita, non odia più i vecchi ostacoli, contro i quali dovette esercitare sè stessa; la modernità risente acuto l'assillo della bellezza, questa eterna necessità della vita di comporsi a quadro e di chiudersi entro una cornice, la quale invece d'imprigionarlo ne sia come la continuazione.

E se la prodigalità del genio antico nella incomparabile durata della nostra storia ci lasciò troppi monumenti, se attraverso la barbarie della miseria e della ignoranza troppo furono deformati, così che non basterebbe oggi tutta la nostra giovane ricchezza al riparo, una passione nuovamente giovane ci persuade ad amarli, e, come tutte le passioni, ci rivela tratto tratto i loro segreti più geniali.

Milano non si gloria ora del proprio castello sforzesco ancora più che della Galleria? I nuovi scavi del Foro romano, che disseppelliscono al pensiero una Roma più antica di quella apparsa a' suoi primi storici, non sono forse una superbia del nostro tempo, e non riconducono verso di noi un'altra volta i più sapienti pellegrini dell'antichità, gli insaziabili innamorati di quell'impero e di quella civiltà, che prima unificò il mondo?

E altrove, ovunque, nei borghi e nelle città lontanamente capitali del nostro medio evo, alveari dolci e sonanti d'insuperate originalità, qualcuno e qualche cosa si è desto: un amore, un orgoglio, cercano e rivelano i segni antichi; si studia e si scopre, e spesso per scoprire non importa che guardare.

Il grande secolo decimonono, rinnovando così profondamente lo spirito umano, allargò forse le proprie conquiste più nel passato che nell'avvenire, poichè ci bisognava prima sapere chi eravamo e donde venivamo per scegliere sicuramente la strada della mèta.

E l'Italia deve soprattutto essere bella per diventare ricca.

La nostra arte, la nostra gloria ci mantengono una ricchezza più sicura che quella dei nostri campi: le nostre città hanno ancora ed avranno lungamente sugli stranieri una seduzione irresistibile nella loro antica fisonomia; il nostro genio deve superare l'ultima prova di crescere un'altra bellezza armonizzandola con quelle non pur superate della nostra vera infanzia nazionale.

Il trecento e il quattrocento italiano furono pel mondo delle forme quanto i migliori secoli della repubblica e dell'impero romano pel mondo della politica: qualunque borgo abbia un castello lo serbi; e qualunque città porti corona non la gitti.

Quale regina depose mai il diadema per il timore di comprimere la capigliatura?

Sarà più bella Bologna senza le mura, anche se la nuova cinta aumenti il reddito del suo dazio?

Poche città in Italia hanno un carattere più profondo e insieme più vario della illustre metropoli, alla quale noi da tutte le terre di Romagna, dal lido dell'Adriatico e dalla cresta dell'Appennino, guardiamo con orgoglio come alla capitale del nostro spirito, al potente mercato del nostro lavoro. La sua dottrina fu per noi ancora più calore che luce: nel suo centro ferroviario anche adesso ci sentiamo più vicini di ogni altro al cuore nazionale, se, come la scienza vuole, il cuore non è più che il massimo motore negli alti organismi; alla bellezza de' suoi palazzi, che i secoli moltiplicarono ben più variamente che in ogni altra città, tutta Italia guarda come alla più ricca raccolta di modelli, e dalle sue torri e dalle sue mura intatte ricordi e sogni si levano cantando alle menti che sanno, e alle fantasie che ignorano.

Perchè dunque precipitare, seppellita nei fossati, la sua larga, storica corona murale?

Aprite altre porte, se dalle vecchie strade un rigurgito di vita sbatta negli antichi muraglioni e lasciateli diritti nella superbia del loro passato: invece di essere una difesa adesso non sono più che un ornamento, ma pensate che abbattendoli per una inutile e frettolosa ubbidienza a qualche piano regolatore scoprireste sui lombi della magnifica denudata una cintura di ulceri fra una miseria di casette e di catapecchie troppo putride perchè il sole possa bastare a disinfettarle.

Verrà per le mura, che i secoli XIII e XIV levarono munite di corridoi interni, presidiate a ritmici intervalli da battifredi, servite da dodici porte e da quattro pustierle, il giorno dell'estrema prostrazione, e piegheranno purtroppo sotto lo sforzo vittorioso dei fianchi gonfi di nuova vita; però sino a quel giorno siano ancora il cinto dell'antica regina, alla quale la bellezza sovente giovò meglio delle armi.

Oggi intorno alle ultime torri non rotano più stridendo che i falchi solitari, e sulle mura girano a braccetto gli amanti popolani, quasi a cercarvi così vicina una solitudine sicura: non importa; salite più alto dei falchi sui colli, abbiate nell'anima la verità degli innamorati, e guardando giù nella valle la bella città, sentirete che le sue mura sono forse la più vera fra le sue tante bellezze.

5 febbraio 1902.

Fuochi di bivacco

Подняться наверх