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LA FINE DELLA FINE

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Ecco oramai il voto fervido e segreto del pubblico, dopo tante parole scritte ed urlate sul cadavere del gran campanile. Non era ancora caduto, riempiendo a mezzo la magnifica piazza delle proprie rovine, che gli echi della stampa se ne rimandavano oltre i monti ed oltre il mare il tonfo pauroso raddoppiandolo nelle frasi, alzandolo nel pensiero, sino a fingere la tragedia di un dolore mondiale per l'ultimo disastro della gloria e della bellezza italiana. E nel coro di questa tragedia tutte le voci si mescolavano da lungi e da presso, dall'alto e dal basso, dai fastigi più superbi della politica e dalle più umili pianure della vita, perchè la vecchia torre di Venezia, già scolta vigile ed armata nei primi giorni della sua infanzia, era franata improvvisamente, irrimediabilmente, dinanzi a San Marco, sulla piazza rimasta il più bello dei scenari, immobile ed immutato, dopo che il lungo dramma della repubblica lagunare si era per sempre interrotto fra la disattenzione del mondo. Era stato un crollo, che aveva tutto scosso, la piazza e la laguna, la basilica e il palazzo dogale, le grandi memorie del passato e le piccole vanità del presente: i colombi spaventati erano fuggiti a stormi recando lungi l'annunzio ferale: l'angelo che vegliava sulla cima della torre guardando indarno sul mare se mai una nave tornasse a Venezia con una bandiera di vittoria, era precipitato fra la polvere dei mattoni sgretolati: della amabile loggetta a piedi del campanile, appena appariva qualche angolo, qualche punta, come nei giorni dell'antico carnevale di sotto ad un ammasso di seta, di fra le giunture della maschera, la gente vedeva una qualche bellezza di un viso e credeva di riconoscere la dama: una campana fra le cinque giaceva sul fianco lacerato, in cima alla rovina, e taceva in un lugubre silenzio di eroe ferito.

Quindi tutti si credettero il debito di una profonda commozione, e quello più alto di difendere la bellezza del passato egualmente minacciata dalla trascuratezza e dalla vigilanza moderna dei nostri instituti governativi ed estetici.

Gli articoli annebbiarono nuovamente l'aria come un secondo polverone peggiore del primo, telegrammi arrivavano e partivano a branchi, proposte e proteste grandinavano turbinando; poi accuse di giudici improvvisati e difese di colpevoli che nessuno voleva ascoltare, rivincite di profeti arrochiti nel lungo annuncio dell'inevitabile calamità e orgogli di retori che si alzavano pallidi della pubblica sventura a sognare pubblicamente qualche scena o qualche figura del passato. Ma sul sussurro e sul ciaramellìo non passò potente alcuna voce di poeta; appena coloro, che in questi casi hanno più vigile l'orecchio, intesero qualche remeggio di ali, ed erano rade strofe che passavano basso, col volo lento e pesante dei pavoni, quando a sera s'allontanano dalla casa padronale per appollaiarsi su qualche albero ai confini del podere. Un giornale uscì listato a lutto, un altro squillò fieramente a battaglia, perchè il solito generale, stendendo pel re il telegramma di condoglianza da Pietroburgo, non aveva trovato nè il più alto pensiero nè la parola più pura dell'anima italiana nel cospetto dell'inconsolabile, immane rovina; altri deputati della politica e dell'arte piansero e mostrarono al pubblico le proprie lagrime come perle; patrioti frementi di sdegno apparirono fra gli intercolonnii delle gazzette a minacciare che soltanto con danaro italiano si doveva riadergere il glorioso campanile.

Il ministro dell'istruzione, accorso ansiosamente da Roma, chiamò a Venezia Giacomo Boni, il grande disseppellitore del passato, colui che trovò una Roma più antica di tutte le leggende nelle profondità ancora inesplorate del Foro. E a lui commise i funerali del campanile. Come a quelli degli imperatori i soldati fecero da becchini, perchè la mano dei muratori soliti non doveva toccare la polvere della sacra rovina, anche pel sospetto legittimo che qualche cosa potesse restare attaccato a quelle mani impure. Vi erano dunque tesori in quelle macerie, se gli operai di tutti gli altri scavi, manovali e muratori, potevano comprometterne il passato e l'avvenire?

Chi lo sa? Anzi nessuno lo sa.

Il campanile non era bello, la piazza sarebbe stata più bella senza quel campanile; ma era difficile immaginarla in tal modo dopo tanti secoli. Tutti sappiamo, anche senza saperne dare la spiegazione, che cosa significhino nell'arte cristiana, che è ancora e resterà lungamente la nostra, il campanile e le campane, questo stelo marmoreo, che s'innalza dai monti e dai piani al cielo, e ha sulla vetta un fiore, simile ad una coppa rovesciata, che grida e canta.

Chiesa e campanile non sono separabili: nella chiesa la preghiera è un murmure, che il tetto soffoca ancora; sul campanile la preghiera è un urlo di trionfo e insieme un grido di soccorso, che arriva al cielo e si spande sulla terra. San Marco non aveva altro campanile che quella torre, più antica di lui almeno nell'ufficio, e la trasformò: di sentinella lagunare ne fece una scolta del tempio, le cangiò l'armatura, la voce, l'arme, e sul casco le pose un angelo. Ma sentinella e scolta non furono mai belle.

L'Italia ha dozzine di torri e di campanili, che le singole città non avrebbero consentito a barattare con quello di Venezia, ma nessuna città ebbe mai una piazza così ineffabilmente originale. E allora anche il campanile vi parve quello che non era, una bellezza nella bellezza, un accordo nella sinfonia, e non vi metteva invece, per gli occhi abituati ai segreti della grazia, che una dissonanza.

La loggetta, che secondo il devoto costume medioevale, il Sansovino eresse alla sua base, era una eleganza del Rinascimento, più pagana che cristiana, severa ed amabile, abbastanza pura nelle linee, ma confusa nel pensiero e incerta nella destinazione; era bella senza dubbio, ma non di quella bellezza che supera la vita e sparendo ci lascia nell'anima un vuoto inconsolabile di morte.

Chi non conosce il valore del Sansovino? chi non gli serba riconoscenza? Ma chi oserebbe proclamarlo fra i primi dei pochissimi architetti italiani, che ignorando ancora l'arte nordica e non sapendo quasi più l'arte antica di Grecia e di Roma ne inventarono un'altra, e videro nella propria anima una nuova bellezza?

Ebbene, rifaranno la torre e la loggetta: non si oserà dire che senza di entrambe la piazza sarebbe più bella: non si oserà affermare che un campanile è pur necessario a San Marco, e affrontare il problema di crearne uno al tempo stesso antico e moderno, bello sopra tutto e su tutti. La rettorica dell'antichità straripa ancora, perchè la sua poesia appunto è così poco sentita: come pei poeti e gli altri letterati antichi si ammira senza comprendere, si adora senza amare. A che vegliare e vagliare i rottami del campanile? Era in mattoni, lo rifaranno con mattoni, e i nuovi non avranno più significato dei vecchi.

Il peso della cimasa, chiamiamola così, aggiunta troppo tardi vinse la resistenza dei mattoni e li polverizzò: ecco la ragione della caduta. A che rifare la cimasa? D'altronde come si poteva salvare il campanile? Per impedirgli di cascare sarebbe stato necessario abbatterlo: ma i retori che cosa avrebbero urlato allora?

Invece nell'antico bel paese, così illustre e così tragico, rovinano a centinaia monumenti ben più significativi e preziosi che non la torre di San Marco sulla piazza di Venezia, e non una voce si leva, non una voce levandosi è ascoltata colà dove si potrebbe e si dovrebbe.

Perchè?

Non chiedetelo a coloro che hanno pianto sulla polvere del campanile di San Marco.

E per ora almeno non se ne parli più.

Il campanile si rialzerà nella propria veste rossastra di mattoni: nuovamente l'angelo dalla sua vetta veglierà sul mare e guarderà indarno al cielo, perchè la poesia di Venezia non risusciterà nella gente col suo campanile.

Essa vive soltanto in poche anime, che non se ne servono nel pubblico come di una maschera, l'ultima del suo carnevale tramontato da gran tempo.

La poesia è immortale: e adesso lasciamo i morti seppellire il morto, secondo la parola del Vangelo.

26 luglio 1902.

Fuochi di bivacco

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