Читать книгу Fuochi di bivacco - Alfredo Oriani - Страница 14
SAFFO
ОглавлениеDall'eroide di Ovidio al canto di Leopardi quale onda lunga di poesia trasporta questo nome attraverso la memoria dei secoli, e lo risolleva nel sole eterno della passione quando i cuori vibrano e le anime si cercano per scambiare il bacio della vita!
Ancora il fantasma dolente della donna, che come Otello amò troppo e saggia non seppe amare, domina sul tragico sasso di Leucade, dal quale in una notte serena sparve volando sotto le acque: forse il mare ascoltò allora i suoi ultimi versi e li ridisse sulle spiagge agli amanti, che vi erravano attratti dal fascino segreto dell'immensa solitudine solcata da candide vele, sorvolata da invisibili sogni. E il sogno della morte s'innalzerà sempre dall'amore come il profumo sale dai fiori e la canzone dai nidi a primavera, o meglio, forse, come guardando dall'alto di un monte una densa e vasta foresta, si vede un'ombra lieve levarsi sulla cima degli alberi.
Lungamente l'erudizione letteraria indugiò intorno alla greca poetessa, cercando la verità storica nella leggenda e quella umana nel mito: si discusse, si negò, si vagliarono i pochi versi a lei attribuiti e nei quali la passione stride ancora come un ferro rovente nell'acqua: si trovarono due poetesse invece di una, due amori antagonisti persino nel sesso invece di un antagonismo tragico in un amore unico: la nostra anima cristiana rabbrividì al contatto di quell'anima ellenica, il nostro spiritualismo così astratto tentò invano di penetrare la spiritualità così materiata di tutta la natura in quell'arte antica ed immortale; poi la disputa si perdè per gli aridi deserti della scuola, e Saffo rimase come prima nella memoria dei cuori una tragica figura di amore tradito per la sua stessa superiorità.
Saffo era la poetessa col volto riarso e scomposto dalla passione: i suoi occhi avevano l'ardore insopportabile dei meriggi sulle scogliere, nella sua voce suonavano tutti gli accenti del mare, fra i suoi capelli neri si addensavano tutte le ombre della notte: era la donna armata indarno contro l'uomo di ogni arma dell'uomo, della volontà e dell'ingegno, del pensiero e del canto, della potenza e della gloria; ma non era bella.
E questo bastò alla sua sconfitta.
Faone, il bel ragazzo, non vide in lei tutto quanto la prodigalità dei cieli aveva accumulato per farne una poetessa, e sentì soltanto quello che le mancava: la bellezza.
Fu infedele, ma greco anche in questa infedeltà, perchè nella donna nessuna grandezza spirituale può compensare il difetto della bellezza concessa alla vita come una promessa di altri mondi e un conforto ai mali di questo.
Nella notte serena, sulla strada battuta da un violento acquazzone del meriggio, vedevo ancora il piccolo sasso di Leucade dipinto sulla piccola scena del piccolo teatro, che Brisighella ha riaperto orgogliosamente in questi giorni all'opera bella e oramai dimenticata del Pacini.
La notte era così calma e l'ombra così diafana che tutta la valle si apriva allo sguardo: non una bava di vento, non un canto o una voce. Le ruote della bicicletta fuggivano mute per la discesa, che dalla piazza del paesello cala larga e pigra al ponte: ero solo, senza fanale, e fuggivo nella notte. Come mai si era potuto scegliere per la stagione delle acque e dei bagni a Brisighella questa opera del Pacini, che naturalmente non esprime la tragedia di Saffo, e invece getta come fiori all'aria in ogni scena frasi e canti pieni di gorgheggi, mentre l'azione s'imbroglia nella solita favola di tutti i melodrammi fra coristi vestiti di bianco, nell'atrio di un tempio vegliato da un gran sacerdote coperto d'oro, come generalmente lo furono in tutti i tempi i grandi sacerdoti?
Non lo so e nemmeno vorrei saperlo, perchè forse nemmeno lo sanno coloro, che vollero così; ma quest'opera data in un villaggio montanaro esumando dall'oblio un illustre troppo presto e troppo ingiustamente cadutovi, era improvvisamente risorta fra le lontane memorie della mia giovinezza.
Perchè non rivederla, riudirla forse, fra i commenti di un pubblico non ancora guasto da polemiche musicali, fra le ingenue difficoltà di un teatro troppo piccolo, obliandosi come in un ritorno degli anni primaverili senza chiedere più nulla alla primavera, senza esigere nè dalla musica nè dai cantanti ciò che non possono dare, la potenza ferale della tragedia e l'ineffabile delizia di una espressione, che, superando pensiero e parola, si perde nelle vaghe lontananze dello spirito insino all'ultimo lido misterioso? Io non sono di coloro, che pretendono il dramma nella musica e vorrebbero persino imporle di significare le formule, dalle quali esce il dramma stesso: da lungo tempo ho acquistata l'indulgenza stanca ed ironica per tutte le forme pubbliche dell'arte, per gli architetti e pei tenori moderni, pei teatri e per ciò che vi si compie senza che la grandezza della città o della spesa influisca mai davvero sulla bellezza dello spettacolo. Quasi sempre un'opera data in un villaggio non è peggiore di quella rappresentata in una capitale, adesso che non vi sono più grandi cantanti nè grandi scrittori di musica: bisogna quindi scegliere fra due difetti, la falsificazione della grande arte e la sua infantile imitazione.
Ebbene, questa vale quella.
E poi quali teatri sono aperti nell'estate?
Che cosa cercare in un teatro, quando non si può esservi più un attore nella platea o nei palchi, perchè i vostri occhi veggono e le vostre orecchie odono troppo bene, e cogliete troppo presto i difetti in tutte le bellezze e le stonature in tutte le note? Il solo divertimento è quindi di sentirsi immerso, sommerso, fra una gente che si diverte ancora e non domanda nemmeno a Faone di essere un tenore, a Saffo di avere i capelli attorcigliati sulla sommità della nuca, a Pacini di avere scritto un dramma greco, al sasso di Leucade di essere abbastanza alto perchè Saffo possa ammazzarsi cadendone.
Il teatro piccino ha un delizioso orgoglio di signorilità nell'architettura e nella decorazione: è composto di un solo ordine di colonne, ma si congiunge per due cerchi di palchi al palco scenico: sul cornicione di questo si legge una scritta, che i miei occhi non decifrano più, sebbene in giro fiammeggino le lampadine elettriche improvvisate come una ghirlanda intorno al gran nome e al fantasma anche più grande di Saffo. Il fantasma, infatti, ha i capelli e gli occhi neri: quelli lunghi, questi profondi: sui capelli gira il solito frontile d'oro, dagli occhi, che non debbono avere più di venti anni, tratto tratto saettano fiamme, quando il canto della passione sale tempestando e dalla platea sale il murmure dell'ammirazione.
Mi si dice che la cantante si arrischia per la prima volta sulla scena, affrontando così il gran salto di Leucade colla confidente sicurezza della gioventù. La sua voce non ne trema, la sua figura alta diventa a volte superba nel dolore di certi atteggiamenti. Forse all'ultimo atto sembrerà più grande dello scoglio stesso, ma non importa: il motivo melodico del finale avrà elettrizzato il pubblico troppo contento del proprio teatro e dell'opera per avvertire questa dissonanza fra la statura del sasso e quella della donna. E il pubblico avrà ragione, come ai tempi di Shakespeare, come sempre.
Il bel colle, il bel sasso è fuori, al di sopra del teatro.
Brisighella gittata come dalla mano capricciosa ed onnipotente di un gigante sotto la sua cima, vi ha raggruppato alla meglio le proprie case componendo una nuova bellezza nel paesaggio. A mezza costa da un masso dirupato s'innalza la torretta dell'orologio, che vorrebbe essere vezzosa ed arriva a parere amabilmente goffa; più in alto domina, bello, severo, elegante, quasi intatto un torrione, avanzo di una rocca, che fu forse una meraviglia e dalla quale forse uscirono alcune di quelle bande del Rinascimento a rendere per tutta Italia glorioso il nome dei fanti di val Lamone: poco più in alto ancora una chiesa, un eremo, che non ebbe mai eremiti, e adesso ne ha due che girano questuando, almeno mi si dice, e lassù custodiscono una madonna cara a tutti i dolori e a tutti i sogni della povera gente. Intorno, mattina e sera, le cantano gruppi di ulivi, agitando nell'aria pura le piccole foglie impolverate d'argento: poi il monte digrada a cinghioni corsi da file di viti intensamente verdi, e altre viti si distendono per ogni china, dentro ogni seno, si arrampicano sugli alberi, serpeggiano, sospendono dovunque i grappoli, mormorando sotto il sole i canti della vicina vendemmia.
Lungi i contrafforti si ricongiungono all'Appennino, il fiume passa largo, quasi silenzioso, sotto Brisighella, che adesso ha una stazione, uno stabilimento — si dice così? non lo so — di acque, un teatro d'opera, un tumulto insolito di forestieri, una lindura cittadina sulla propria bellezza di montanaretta dal sangue ardente come il suo vino, dagli occhi pieni di fiamme come le schegge vitree de' suoi gessi.
Di notte lassù, più alto del torrione, il colle pare diruparsi come lo scoglio di Leucade, e non v'è nemmeno bisogno di essere poeta per vedervi qualche fantasma: sotto, il vento canta fra le viti e gli ulivi come sul mare; la stagione è ardente; le passioni, e l'amore più di ogni altra, possono infiammarsi, cantare e sognare.
Perchè no? Quante fanciulle salgono forse la notte lassù ad esalare il loro canto d'amore, col cuore tempestoso, e abbassando lo sguardo sentono il fascino dell'abisso, e adesso ripetono il nome di Saffo, che ieri non sapevano!
Nome pericoloso forse più del salto, al quale deve la propria gloria e che nessuno ritenterà di lassù agli appelli susurranti dell'ombra, perchè invece di sprofondarsi nel mare cadrebbe nel teatro rovesciandone lo scoglio dipinto e interrompendo il canto di Saffo non più poetessa, nè greca, e probabilmente nemmeno innamorata di Faone dopo averlo riudito come me, a tanta distanza di secoli, e tuttavia così da vicino.
Non importa; chi vuole ritornare meco a Brisighella?
11 agosto 1902.