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TRISTANO E ISOTTA

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Li ho riveduti a Ravenna, nella vecchia illustre città, apparire sopra una folla devota e muta come nell'orrore sacro della loro tragedia. Nel teatro troppo povero d'architettura e troppo ricco d'oro, un'ombra improvvisa rendeva più trepido il silenzio, dentro il quale nemmeno batteva un'ala di ventaglio.

E mentre nel preludio il primo singhiozzo represso della passione saliva come dal murmure del mare consapevole dell'amore fiorito sul nero vascello, ripensavo a questo dramma così antico nella leggenda, dalla quale Wagner credette di ritrarlo per farne la grande tragedia dello spirituale amore moderno.

Perchè nel suo cuore di eroe ferito ed errante quasi come un mendico fra le miserie e le ingratitudini della vita, egli sentì di essere un più grande Tristano, che nessuna Isotta poteva fedelmente accompagnare fino alla morte; e tutto l'orgoglio del genio costretto a servire, e tutta la sete di un'anima sempre orfana nel deserto della folla, esalarono come da un altare nel nuovo lungo dialogo fra i due amanti ebri del solito filtro, che il dolore propina all'amore.

Anche allora, malgrado che il monumento della sua arte si levasse già alto nel cospetto degli spiriti meno disattenti, egli era uno sconosciuto, al quale la protettrice amicizia di pochi era stata forse più dolorosa che la invincibile indifferenza di tutti: sapeva di essere un grande, e l'offesa alla propria grandezza lo innalzava sino all'orgoglio di voler essere unico: sentiva quasi come una malattia la propria originalità, e soffrendone volle farsene un'arma contro i rivali e il pubblico stesso, imponendogli di tutto accettare o di tutto respingere nel dono magnifico e ancora misterioso di un'arte nuova.

Era veramente nuova quest'arte, che per cercare il dramma moderno indietreggiava sino al mito, e risuscitava tutti i fantasmi romantici, mentre il romanticismo, superato da Balzac, agonizzava nella lirica di Hugo, e un'altra modernità discendeva sull'Europa dal profondo, lontano mistero della gente slava?

Wagner pensò che la musica, essendo l'estrema fra le espressioni dell'anima, potesse diventare la suprema voce del dramma: ma forse lo volle più che non lo pensasse.

Mancava a lui la prima caratteristica del genio, quella inconsapevolezza della creazione, senza la quale l'arte non può davvero rinnovare i miracoli della natura. Temperamento gladiatorio, ingegno polemico, pensatore critico, Wagner non aveva d'ingenuo che il proprio gran cuore: la povertà gli acuì la superbia, e un'ambizione imperiale gli scoprì nei rivali un'inferiorità di condottieri soggetti al pubblico e venduti alla sua finanza. Tutti gli parvero falsi intorno e prima; il teatro solo poteva, come il tempio antico annunciare una nuova religione, la musica soltanto compiere un'altra rivelazione; e poichè la vita non arriva a significare sè stessa nel dramma, la musica doveva dirne il segreto impossibile alla parola.

Ed ecco l'errore del pensatore, che moltiplicherà poi i sofismi del polemista fra le violenze del critico e i colpi del gladiatore.

Se la musica è l'espressione ultima dello spirito, che in essa effonde tutto quanto non potè esprimere colla linea, col contorno, col colore, colla prosa, colla poesia, il dramma invece producendosi dalla inconciliabile originalità degli individui, che vi si debbono appunto spezzare per tale impossibilità di fondersi, non può venire espresso dalla musica, supremo linguaggio dell'indeterminato e dell'indefinibile. Il dramma s'attenua già nella poesia e svapora nella musica, che non sa precisare i caratteri e deve chiedere alla pittura quello degli ambienti: essa è un vapore, o un profumo, che s'innalza dalle parole come da incensieri rotti nella frenesia di un dialogo: sale, solleva, inebria, rapisce lungi, lievemente le anime, e le voci sono come veli che le sostengono, e il pensiero sogna soltanto, non ricorda, non sa più.

Il dramma, infatti, perde nella musica ogni grandezza di orrore e qualunque fisonomia d'individui: gli antichi lo sapevano, costruivano la solita favola, vi gettavano sopra un vario drappeggio, e poi cantavano aggiungendo il canto alla parola, perchè il canto senza parola è appunto la musica, che continua la lirica e la dissolve. Finchè la parola è possibile, vale più del suono: la parola significa l'idea, il suono non esprime che il sentimento, onnipotente anch'esso nella sua incertezza, ma inferiore al pensiero che sulla incertezza può elevarsi dominatore.

Il melodramma non fu, non è, non sarà mai il dramma, ma l'espressione di ciò, che l'azione e la parola del dramma non arrivano a dire, e che la coscienza soffrirebbe troppo a non dire. Perchè dunque pretendere, come Wagner, che nella sua scena melodrammica la frase musicale ripeta individualmente e raddoppii il valore della frase letteraria, mentre questa invece di esprimere un'emozione significa forse un'idea, e la musica non può andare al di là dell'emozione? E come intendere nemmeno il commento della parola fonetica alla parola sillabica, se nessun cantante potrà mai, cantando, pronunciare schiettamente un periodo?

Wagner, invece, volle che il suo melodramma fosse un dramma, nel quale la musica avrebbe tradotto in sè stessa il valore di ogni idea e di ogni parola: era impossibile, e ne uscì un canto dialogato, lungo, fitto di spunti melodici, con intenzioni troppo brevi e frammentarie per essere sempre intelligibili; e anche quando nell'ascendere della passione il canto doveva librarsi lieve, lucente, abbacinante come una fiamma, Wagner lo mantenne sottomesso alla parola, pretese che significasse tutta la logica dell'azione e avesse il valore dichiarativo di un'immagine. E quasi tale errore non fosse sufficiente ad alterare la natura fatalmente tenue e convenzionale del melodramma, dalla scena precipitò questo nell'orchestra, riducendo il cantante a non esservi più che un istrumento umano tra tanti istrumenti meccanici: così la musica, che con Wagner si era vantata di spingere il dramma alla rivelazione dell'ultima verità, ne smarrì le persone dentro un poema sinfonico, e il solo vero trionfale personaggio del teatro nuovo fu l'orchestra.

Il mondo resistè, quindi parve cedere, delirò per l'arte nuova e innalzò Wagner sino alle adorazioni di un Messia: adesso, invece, comincia a vederlo quale fu, un grandissimo ingegno, del quale la creazione non potè attingere la suprema verità appunto per le deformazioni imposte da un sistema critico è da troppe esagerazioni della volontà.

Egli non fu Balzac e nemmeno Tolstoi; somigliò a Zola per la caparbietà lottatrice, pur superandolo nella nobiltà delle intenzioni e dei risultati: sarebbe stato più originale, se la pretesa di aprire un'epoca nella storia musicale non avesse diminuita la sua stessa originalità dentro l'errore di vecchie forme, che a lui parvero nuove: negò tutti, amici e rivali, per rimanere solo, e solo rimase perchè i suoi credenti non poterono continuare la sua opera. Egli soltanto, vincendo in sè stesso coll'artista il critico e colla ingenuità dell'ispirazione le protervie sistematiche della propria estetica, si costruì nella storia un posto a parte: il suo dramma era impossibile, il suo melodramma è più falso di ogni altro, ma la potenza della sua lirica e della sua musica lo fecero grande, e tale lo conserveranno. Forse nel proprio secolo egli non fu il più ricco melodicamente, ma nessuno lo superò nell'eroismo della volontà e nella dedizione di tutto sè stesso alla propria opera.

La quale per durare sul teatro dovrà sopportare molte scapezzature fra le grida orrifiche dei credenti, oggi diventati già dei bigotti.

Per essi, infatti, Tristano e Isotta sono la vetta dalla quale Wagner comincia la grande ascensione attraverso la Tetralogia e il Parsifal: per la critica e per il pubblico, invece, è il punto, donde deviò perdendosi entro il teatro verso un tempio invisibile: Tristano e Isotta avrebbero dovuto attingere la tragedia e invece si consumano nella elegia e muoiono nel lamento. Wagner non era veramente tragico. Ricordate il finale della Norma, paragonatelo a quello del Tristano e Isotta, e sentirete la tragica superiorità melodica di quello su tutta la prodigiosa fattura di questo: la frase della Norma nel proprio sviluppo sale inesauribile, è onda, fiamma, parola, anima; è limpida, afferrabile, indimenticabile: il mondo la saprà sempre. Wagner capovolge la progressione di Bellini, ne fa un fiume, un torrente che straripa, strugge, soffoca, s'interrompe.

Calata la tela, acquetata l'orchestra, io pensavo ancora con orgoglio italiano a Bellini.

19 maggio 1902.

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