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L'ARCIERO

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L'esile e sbilenco pescatore aveva appena finito di stonare la malinconica romanza dalla barca nera, che dietro lui apparve l'arciero vestito come un gentiluomo fantastico, col berretto ornato di piume e l'arco infisso entro una cassa da fucile.

Al solito, nell'angusto teatro della vasta signorile metropoli romagnola s'alzò un applauso vibrante all'eroe, che, sbandito dalla storia e dalla leggenda, sopravvive immortale nella musica e ancora gitta dall'alto dei monti il grido della libertà alle moltitudini sempre impazienti di nuove riscosse. Ma il popolo della scena non era bello: nello sfondo, sui picchi più acuti, invece della neve sembrava essere caduta della calce; il ponte dipinto in mattoni era di una novità, che sentiva ancora il collaudo; le montanine sedute agli arcolai li nascosero tosto non so dove, e la madre comparì con Jem, l'unico figlio, una donnina piccoletta e più rotonda forse del pomo, che al terzo atto il padre doveva meravigliosamente con una freccia levarle di sopra alla parrucca bionda, spiovente in riccioli intorno al suo viso di mela rosa.

Il teatro era pieno di ciclisti venuti da ogni parte d'Italia al convegno di Forlì per la grande sfilata domenicale dell'indomani; e per tutto il pomeriggio le strade larghe e silenziose avevano suonato di trombette gutturali, mentre qualche grido festoso salutava le squadre polverose degli ospiti drappellati dietro una bandierina e un capitano senza galloni.

Ma le decorazioni non mancavano: ne ho visto su tutti i petti, vecchi e giovani, nei più varii colori di una simbolica minuscola ed intricata; abbondavano le aquile e le ruote a smalto su targhe e medaglie: alcuni, i neofiti forse, le portavano in giro sui berretti come Luigi XI di Francia, il cupo re, usava colle madonnine benedette; tutti recavano sulla manica un bracciale collo stemma della loro città. Il giglio rosso di Firenze spiccava sopra un fondo di argento e pareva un vivo fiore di sangue. Bel fiore e bel sangue di poesia e di gloria, che si riaccendevano nelle fantasie, e sembravano mettere nell'elegante gaiezza di quei pochi fiorentini un orgoglio di superiorità senza offesa, una amabile condiscendenza di ospiti, che sanno di venire di lontano, dalla città degli incanti e dei capolavori.

E Forlì aveva preparato loro, col Guglielmo Tell un altro incanto antico di visioni e di suoni nel capolavoro di Rossini, un romagnolo, che non volle mai esserlo, e al quale la Romagna, così povera di figli illustri, si ostina ancora con irritata vanità a volere essere madre.

Certamente nella sua natura e nella sua opera di maestro non sono visibili le tracce dello spirito romagnolo, nè per le buone qualità nè pei grandi difetti: e se nacque a Lugo e invece nel testamento elesse Pesaro ad erede, probabilmente non vi fu ingratitudine nel primo caso e gratitudine nel secondo, giacchè egli, malgrado gli argomenti e i titoli dei melodrammi, non aveva mai sentito lo spasimo delle passioni patriottiche, che purificavano l'anima nazionale nell'alba del secolo scorso. Rossini era di quegli artisti, nei quali la testa è tutto il corpo e tutta l'anima, e si fanno ammirare anzi che amare, compiono forse una rivoluzione ma non ne attingono il fondo, determinano più una moda che una scuola, sapendo troppo bene la scienza del mondo per compromettere contro di esso i trionfi del presente nel sogno di una più eccelsa immortalità. La sua vena melodica era ricca, ma non gli vietava di assimilarsi, magari col furto, le gemme più belle di altri scrittori; la costruzione scenica gli riusciva facile e la sbarazzò di molti vecchiumi senza liberarla abbastanza dalle inutili convenzioni; sapeva che la voce umana sarà sempre il migliore di tutti gl'istrumenti orchestrali e invece, togliendole la propria umanità, le impose troppo spesso nei gorgheggi e nei trilli le esasperanti abilità degli istrumenti; avrebbe potuto maneggiare l'orchestra al pari che Napoleone, cui fu paragonato, un esercito, e non ne abusò, come più tardi i suoi successori e nemici, sepellendovi dentro quasi tutto il dramma; adorava la musica, non aveva per sè stesso altro linguaggio, ma non delirò dietro di essa fantasticando di potervi esprimere i segreti del pensiero e precisare davvero le antitesi della tragedia.

Dopo di lui il melodramma pretese di essere un dramma, nè oggi ancora questa pretesa è caduta dalla moda teatrale e dalla credulità del pubblico.

Rossini somigliò a Goethe nell'olimpica indifferenza verso il mondo e nella padronanza sugli argomenti prescelti: e se naturalmente questo è troppo maggiore di quello e la musica per essere senza pensiero non può veramente rivaleggiare colla poesia, in entrambi la rivoluzione artistica si compiè senza spasimi, e i loro capolavori non ebbero abbastanza passione per commuovere ancora le generazioni seguenti.

Consacrati dalla gloria, adesso sono letti più per studio che per piacere, insegnano l'arte meglio che non rivelino l'anima, hanno l'equilibrio sapiente delle misure, non sono e non saranno forse mai vecchi, perchè non espressero tutta la vita del loro tempo, non furono come dei roghi, nei quali i cuori venissero a gettarsi per ardere e le menti per illuminare.

Tutta la passione di Goethe bruciò nel Werther, tutto lo scetticismo di Rossini scintillò nel Barbiere di Siviglia, ma nei drammi eroici dell'uno e dell'altro nel Goetz di Berlichingen e nel Guglielmo Tell, nel Tasso e nell'Otello, nella Ifigenia e nel Mosè, nel Conte di Egmont e nella Semiramide, la passione eroica non attinse nè le cime antiche nè le moderne, la scena fu più ampia che profonda, la coscienza non vi lacerò i propri veli come in Shakespeare, non fu rivelazione umana e divina come in Dante.

Così cerchereste indarno, fra i motivi melodici di Rossini, il dolore di Bellini, la melanconia di Donizetti, lo spasimo convulso di Verdi: più di essi è forse sicuro nel dominio della frase, più fertile nel suo sviluppo, originale negli spunti e nelle conclusioni; ma i suoi personaggi amano e odiano con minore intensità, i loro gridi non tagliano come spade, la loro morte non lascia in noi, colla simpatia della pietà, lo stesso terrore del mistero. Quindi nel meriggio della virilità e sulla vetta della gloria tacque per quarant'anni in un sapiente silenzio interrotto soltanto dai lazzi della conversazione, mentre sentiva forse con amara tristezza superata l'opera propria. Che se potè ridere alle deviazioni dei nuovi avversari, i quali domandavano alla musica ciò che la musica non può dare, la grande passione poetica e musicale del secolo decimonono dovette indubbiamente passare attraverso il suo tramonto come un uragano sanguigno e rutilante, che scomponeva tutti i paesaggi mutandone persino le voci.

Allora il suo egoismo di uomo e di artista egualmente esauriti tremò sotto la maschera scettica, e il vecchio maestro cadde troppo tardi per rialzarsi chiedendo alla passione le supreme rivelazioni della vita. Bellini, Donizetti, Chopin, Schumann, invece, ne erano morti; Wagner errava ancora come un bandito, Berlioz delirava nell'abbandono, Verdi restava solitario e triste nel trionfo, e Bizet, l'ultimo originale ingegno del teatro francese, si preparava a morire sotto la sconoscenza del pubblico.

Eppure nel Guglielmo Tell Rossini raggiunse quasi il capolavoro, e tale sembrerebbe ancora oggi, attraverso tanto mutamento di mode teatrali, se nella sua musica la passione fosse più viva. Viva parve allora alla folla e agii eletti, che amavano la patria assai più di una donna, mentre l'eroico amore era punito atrocemente da tirannidi indigene e straniere; viva la dissero i poeti e la temettero coloro, pei quali la risurrezione dell'Italia avrebbe fatalmente segnata l'ora della morte. Oggi, invece, il melodramma nella sua compostezza classica appare freddo, pur riattirando col fascino di una novità le orecchie e le anime affaticate dai garbugli sinfonici e drammatici, che occupano ancora la scena moderna e pretendono di fare nella musica una rivoluzione superiore alla musica stessa. Ma essa non sarà mai che il linguaggio del sentimento, al di là della parola, quando lo spirito vibra d'indicibili emozioni negli spasimi di un dramma vero o immaginario: sarà la lingua universale, che accorda i cuori accomunando gioie e dolori, ritmi e canti sul teatro, nell'illusione di una favola che non può superare nei propri personaggi il pretesto del cantare stesso. Quindi il loro canto consolerà tutti nella folla, appunto perchè ognuno potrà appropriarselo come un motivo impersonale.

Rossini, che lo sapeva, si vantava di poter musicare anche la lista della lavandaia, mentre oggi pubblico e critici, quando la musica di un'opera è fallita, accusano il libretto.

Il grande scettico non musicò poi quella lista, ma avrebbe potuto farlo con un motivo bello, perfettamente estraneo alle parole come nel suo famoso Stabat Mater. Che importa se la tragica e originale ode della nuova poesia latina non vi è espressa?

Anzitutto la musica non avrebbe potuto significare la tragedia del Golgota: poi quel motivo è bello, e il pubblico ascoltandolo pensa a tutto fuorchè al dolore della Madonna, si commuove, applaude ed ha ragione.

Tanto peggio per chi non lo crede.

27 settembre 1902.

Fuochi di bivacco

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