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LA VOCE

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Ancora mi canta nell'anima come un'eco della giovinezza dileguata, quando da ogni fiore delle siepi ci giungeva sulla strada un saluto, e via pel cielo, tra il volo traballante delle libellule, fuggivano agitando i diafani veli misteriose ed inafferrabili visioni.

Ricordate nella Massimilla Doni di Balzac, il vecchio romanzo, quel patrizio anche più vecchio, che nella inconsolabile malinconia del tramonto veneziano senza gloria nè di arte nè d'impero si era rifugiato dentro la musica, e anche lì, inseguito da tutte le vanità e le insufficienze della vita, non amava, non chiedeva più che l'accordo di due note, la fusione di due voci? Mai forse il grande romanziere trovò simbolo più semplice e profondo della miseria spirituale, e la significò in un più originale fantasma. Tutto passa, e le ombre dileguano come le figure: tutto stanca, anche la bellezza che ci accendeva le pupille, anche l'amore che ci sollevava nella speranza della felicità, anche la gloria che ci prometteva la tirannia del comando nella solitudine della ammirazione.

Ogni vino più puro lascia una goccia fecciosa nel fondo del bicchiere: ogni illusione ci domanda il proprio prezzo in un disinganno; la donna che pareva il fiore della nostra vita, non può diventarne il frutto; la ricchezza, che era un frutto, maturando si guasta, e guasta quasi sempre anche la nostra anima.

E allora come un pellegrino, che la strada ha ingannato ed esaurito, l'anima cerca tra le ombre cadenti della sera, mentre il pianto della rugiada inumidisce già le ciglia dei fiori e gli uccelli si gittano spauriti gli ultimi saluti dalle frondi, qualche cosa o qualche figura, alla quale domandare un conforto di compagnia nella notte imminente. Accade per tutti così: siamo tutti dei naufraghi, che perdemmo la riva e la nave: siamo tutti degli esuli dalla giovinezza, che ci trattò come Firenze fece con Dante: siamo tutti dei vinti, che la sconfitta dimenticò sul campo di battaglia.

Come quel vecchio patrizio veneziano, ritrovato da Balzac dentro la propria fantasia di creatore, e che, stanco dell'antico palazzo troppo pieno di memorie, si era rifugiato in un bugigattolo, e gittando alle più fresche ed illustri cantatrici il proprio danaro non trovava l'ultima consolatrice sensazione che nell'accordo di due violoncelli, tutta la gente, che dura e non può anco rivivere, cerca in un'unica sensazione un riparo e una stazione alla vita. Gli altri le chiamano manie, e sono invece avanzi di abitudini, frammenti di una qualche speranza o di una fede, o di un vizio o di una virtù. Perchè bevono così i vecchi bevitori? Domandatelo a Baudelaire. Perchè le etère invecchiate riparano in chiesa? Perchè le bigotte si nascondono quasi in una sola e solitaria devozione?

Naufraghi e naufragi: bisogna illudersi ancora e sempre, sino all'ultimo momento, e anche dopo, giacchè questa necessità di speranza e di fede varca il limite pauroso e s'avanza per cieli ignoti, dietro fantasmi inconoscibili, all'accenno di un raggio arcano, all'eco di una voce anche più misteriosa. Qualunque sia l'essenza e il segreto della musica, questa arte suprema dello spirito, che parla ultima in un linguaggio intraducibile; comunque i suoi ultimi grandi tiranni abbiano potuto fantasticare ed errare chiedendole la rivelazione del dramma ed imponendole le necessità pittoresche della descrizione, questo almeno rimane ben certo che nel nostro tempo nessuna arte è così universale come la musica e in essa niente e nessuno più invocato ed amato di un cantante.

Quando Wagner, ingannando ed ingannandosi, per trasportare il dramma nell'orchestra riduceva il cantante a non esserne più che un istrumento, il mondo applaudiva Wagner e decuplicava le paghe ai più illustri tenori, pagando in perle e in diamanti i soprani, ai quali popoli e re s'inchinavano; i teatri soltanto erano convegni davvero pubblici, mentre accademie ed esposizioni apparivano, quali erano, avanzi di scuole e preparazioni di mercati. Nel secolo decimonono la Patti ha regnato meglio di qualunque imperatrice, e Masini passò nella luce abbacinante di un lungo trionfo, dietro al quale, oggi ancora, palpitano le più intense memorie, risorgono le illusioni dei cuori invecchiati e delle fantasie deserte.

Soltanto la voce umana ha questo potere misterioso di darci al tempo stesso l'oblio ed il sogno; nessun istrumento dal petto di legno o dalla gola di metallo, solitario o sostenuto da altri, può, come la voce umana, rivelare le ineffabili emozioni della nostra anima, sollevandoci nel mistero superiore alla nostra vita, o tuffandoci negli abissi, dai quali il pensiero si ritrae o risale muto. Oggi ancora che le paghe dei cantanti gloriosi sono così diminuite, nessuna assemblea orchestrale è pagata come un tenore: perchè? Voi ascoltate attentamente un'orchestra, e sognate invece dietro la voce di un tenore. E non il suo talento di attore, quasi sempre fin troppo scarso, non la perfezione tecnica della sua gola, agiscono sul vostro spirito destandone i sogni, che s'involano lungi tra ombre e trasparenze, tra fantasmi e simboli, tra brividi di stelle e di lagrime, ma è la sua voce soltanto, che desta echi misteriosi nel nostro cuore; è il suo accento che ci scuote coi brividi dell'inesprimibile; è la sfumatura di una sua sillaba, forse di una vocale, che ci avvolge e ci rapisce, dentro un velo di luce o di ombra, lungi dalla vita che opera, nella vita che sogna, lontano e in alto, dove le stelle ascoltano guardando e le preghiere salgono più lievi che l'aroma dei fiori.

E voi avete sognato. Chi era quel tenore? Che importa saperlo, se egli stesso non sa il proprio potere e probabilmente lo suppone in qualche abilità acquisita collo studio? Chi era il personaggio del quale portava i panni ed il nome nella falsità inutile ed inconsolabile di un melodramma? A che pro chiederlo? La musica non può avere drammi, perchè è soltanto la lirica della lirica, la voce, il canto impersonale ed universale dello spirito.

Adesso il pubblico sembra tornare verso l'arte antica, dopo tanto bizantineggiare di teoriche musicali, attratto dalla nostalgia del canto, e il pubblico ha ragione.

Morire, dormire... sognare, forse, dice Amleto: sognare, sognare soprattutto, ecco la misericordia della musica verso di noi: ecco la gloria del cantante, che colla sua voce aduna i sogni e li solleva dall'anima della gente.

E anch'io ho sognato ieri sera nel piccolo teatro della mia città, ascoltando Masini forse per l'ultima volta.

Era un sogno soltanto? Ebbene, sarà stato breve, incerto come tutti i sogni. Quella voce talvolta non pare più la stessa, giacchè qualche cosa si ruppe recentemente nell'anima dell'artista e il suo cuore si lacerò: adesso egli è più solo nella vita. Ma canta sempre. La sua dizione, il suo accento, la sua voce ripetono l'antico incanto: le nostre memorie risuscitano, ci sentiamo nel passato, superbi, vibranti; egli è ancora l'incantatore delle anime, preso anch'esso come noi nell'incantesimo, e non sa più sè stesso.

Può quindi bastare un tremito a dissipare il bel sogno, un velo che gli ondeggi sul cuore, una lagrima che sia rimasta sopra una parola; e qualche cosa ci trema dentro come in un brivido d'incertezza, in un dubbio breve di noi e di lui, quasi nell'angoscia di un risveglio: ma una sillaba squilla improvvisamente superba, un gruppo di note si effonde trionfale in una invocazione, e il sogno prosegue nell'incanto dietro l'incantatore.

L'arte è così, niente altro che un sogno.

Insino a qual giorno canterà Masini?

Non lo so, ma quando i giornali annunzieranno il suo ritrarsi dall'arte, un silenzio cadrà sulle anime: poi da tutte, involontariamente, come da un coro, risalirà il saluto di Lohengrin, scendente al sacrificio terreno, saluto dolcissimo e mesto:

Mercè, mercè, cigno canor...

20 giugno 1902.

Fuochi di bivacco

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