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DIANA

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Per me non suonerà più sulle alture; nè lo vorrei.

Adesso scrivo sotto una pioggia, che batte ai vetri della finestra e finisce di sterminare sulle viti gli ultimi grappoli. Questo autunno è lacrimoso: una tristezza è colata con le nebbie dai monti oscurando le valli, i canti della vendemmia non hanno potuto salire sino ai castagneti rispondendo agli stornelli dei montanari, che abbacchiano i marroni: il fango sgocciola dai campi alti sulle strade, che le sonagliere dei cavalli battono malinconicamente.

Quassù la terra e la gente si preparano alla solitudine dell'inverno.

Il vino freme nelle botti, il lavoro si allenta nelle ultime giornate, cacciatori e trovatori di tartufi corrono egualmente i colli dietro l'orme di un cane magro e di una speranza più magra ancora. Poi la neve cadrà, lenta, bianca, assidua: un candore uguaglierà le fisonomie della valle coprendone le miserie, mentre i passeri affamati pigoleranno intorno alle case, e sul paese quasi sepolto si aggreveranno lungamente giorni torbidi e notti scure.

Diana del mattino, fanfara della primavera, quando suonerete ancora?

Perchè ho messo questo nome dinanzi a questo libro composto di articoli scritti come sopra un tamburo, in una vigilia di battaglia, senza che la guerra, che urge da ogni lato, abbia avuto ancora sonorità di epopea e fulgori sanguigni di tragedia? Non lo so: forse è stata una di quelle parole, che improvvisamente deste ci echeggiano nel fondo della nostra memoria: forse un baleno d'immagine bianca e pura come una statua antica; forse una nota inaspettata, quasi di appello lontano nei cieli dell'idea, dai quali ci giungono tratto tratto i richiami paurosi del mistero.

La diana del mattino non muta: lo squillo della sua tromba, dorata dai primi raggi del sole, ha sempre le stesse vibrazioni, che ridestano l'anima delle cose; la sua bandiera trema rigata di porpora, o grigia dentro un velo di nubi ondula appena all'orizzonte tra pallori di perla, ma vivido o torbido il giorno ricomincia egualmente al suo squillo e al suo palpito.

Diana del mattino, fanfara della primavera, vi ho sentito anche stamane dopo una notte insonne battere ai vetri della mia finestra. La campagna invecchiata rapidamente nelle ultime fecondità dell'autunno aveva uno squallore più cupo: qualche foglia si abbassava dai gelsi con volo spossato sul pantano della strada, due passeri ciarlavano ancora sulla punta più alta della siepe presso l'olmo della Madonnina, poi si sono separati frettolosamente quasi in un grido.

Ho visto passare un vecchio prete curvo sotto un ombrello bucato, dal quale l'acqua gli sgocciolava sulla falda rossigna del soprabito, mentre la campana di Valsenio suonava quasi lietamente a morto.

Questa volta era per un ricco contadino, pel quale gli eredi pagano le messe tre franchi, e don Giovanni ha quattro nipoti da mantenere. Povero vecchio! guai se il Vangelo si sarà ingannato assicurando ai poveri il regno di Dio.

Il suo pensiero è semplice come la sua vita, la sua fede così sicura, che ignora persino i dubbi degli altri: per lui gli increduli non sono che dei viziosi, i quali hanno bisogno d'ingannare sè stessi e gli altri: quindi dicono di non credere.

Non legge giornali.

— A che pro? Nessuno dice la verità, e il mondo non cambia. Quid est veritas? — mi domandò un giorno. — Forse quella che i giornali non dicono e nessuno di noi saprebbe dire. Lei è un grande scrittore: e poi? potrebbe dire in un giornale ciò che pensa, ciò che vuole?

— No!

Il vecchio prete lo sapeva anche lui.

Il morto secolo decimonono è entrato nella storia come un gran signore annunziato da molti titoli: e lo chiameranno dalle scienze, dalle nazionalità, dalle ferrovie, dai giornali: quest'ultimo sarà forse il più espressivo. Prima non v'era che il libro, monumento cui la gente guardava da lungi senza intenderlo, ma al quale pochi sapevano accostarsi: il libro come il monumento essendo l'opera di un uomo esprimeva dalla sua personalità quella più profonda ed inconsapevole del popolo: c'era quasi voluta una vita intera a produrlo nel sogno tragico della immortalità. Invece il giornale è di tutti, per tutti: come un'orchestra, della quale spesso il direttore non saprebbe suonare alcun istrumento, accoglie suonatori di ogni grado e di ogni classe: i solisti del grande articolo e gli anonimi battitori delle notizie: la sua vita è uno sforzo prodigioso di ogni giorno, la sua forza cresce dalla continuità della ripetizione: è impersonale e partigiano, anonimo e sfolgorante di grandi nomi, difende idee e serve ad interessi, ha una morale pubblica, che gli consente ogni bassezza della vita privata, è diventato un bisogno di tutti, anche di coloro che non lo leggono ma vogliono poter dire: il giornale c'è. Nell'arte, nella scienza, nell'industria, nella filosofia, nella politica, il giornale circola: è come la ferrovia delle idee e delle passioni; non si arriva quasi mai alla potenza che passandogli attraverso; è un crogiuolo che affina e un vaso che corrompe.

Nessun grande scrittore potè negli ultimi cinquant'anni sottrarsi al giornale; tutti coloro, invece, che non lo sono e si fanno della chiacchiera un mestiere, della parola un'arma e vendono sè stessi per comprare cose anche di più infimo valore, e servono il pubblico come gli antichi schiavi servivano gli antichi despoti, vi lavorano a vivere, a manipolare menzogne e verità, a segnalare tutto ciò che sorge, a nascondere spesso ciò che brilla, ad essere indispensabili come l'aria e come il vizio, ad ingannare tutti nella necessità della guerra di tutti contro tutti.

Oggi il giornale è un grande affare: occorrono capitali enormi a fondarlo, e nessun apostolato potrebbe o vorrebbe fornirli. Una stamperia capace d'improvvisare centinaia di migliaia di copie in poche ore deve servirlo, giacchè la potenza della sua notizia è soltanto nella sua freschezza: arrivare in piazza cinque minuti dopo significa non arrivarvi. Ma le notizie costano: bisogna andarle a cercare e saperle trasmettere: il giornale adesso non vive che di notizie: su cento lettori cinque appena ricercheranno l'articolo, ma la forza di un giornale è tutta nella sua diffusione, e in Italia il prezzo è immutabilmente fissato a un soldo.

Bisogna quindi salire oltre le centomila copie perchè un giornale costoso di notizie non sia passivo.

Se il suo direttore ha davvero l'orecchio alla piazza e il naso al vento, e i capitali o le rendite gli permetteranno la spesa grande delle notizie; se la sua redazione è tenuta in freno e i suoi scrittori non alzano troppo la voce, il giornale si diffonde, diventa un'abitudine del pubblico, il pensiero di chi non pensa, la convinzione di quanti hanno bisogno di vedersela innanzi formulata; è falange e rocca per il partito, pulpito a qualche scrittore, carro ciarlatanesco alle mascherate commerciali, che attirano la svogliatezza della folla, una strada che conduce a tutte le mete, una selva che ha i pericoli di tutti gli agguati e l'insondabile profondità del mistero.

Nel giornale tutto è doppio; la sua opinione esposta al pubblico non è quella dei redattori, che ne dissentono quasi sempre; ogni campagna aperta per un'idea o contro un uomo vi muore per un motivo inconfessabile; il danaro, questo signore supremo delle industrie, è per il giornale e il giornalista più che una ragione. Entrambi sono scettici, perchè sanno troppe cose e non ne sanno abbastanza; veggono tutti i retroscena, posseggono tutti i segreti, tranne quelli del genio e dell'eroismo; il giornalista d'ingegno è quasi sempre un ingegno fallito per la debolezza del carattere; serve ed è ribelle, striscia e morde, cincischia quanto non può spezzare, si offende della fortuna in chi sale e della virtù in chi sdegna salire.

Quasi sempre il giornalista è ancora più temuto che spregiato: egli ha in pugno la fortuna dell'individuo nella credulità del pubblico. Dal cantante al deputato, dall'industriale al maestro di scuola, dall'affarista al retore, dal grande autore allo scrittorello, che vuole essere stampato almeno una volta nella propria città, tutti hanno bisogno di lui e del giornale: quindi il giornalista si vendica della propria caduta sugli altri, fa pagare la decima all'affare, alla reputazione, al vizio, alla virtù; soltanto il limite della sua forza è dentro il limite del giornale stesso. I suoi fondatori lo fusero come arme per un loro interesse: questo dunque anzitutto, e al disopra di esso solamente la decenza morale; un giornale deve sembrare onesto per essere influente; il grande giornalista non ne ha bisogno. Egli vive quasi sempre alla ventura, lanzichenecco o condottiero secondo i casi, ma deve avere l'ingegno più fecondo, trovare ogni giorno l'idea o la parola fascinatrice: sa che la maggior parte degli autori illustri sul libro o sul teatro non lo valgono, che nove su dieci deputati non saprebbero trovare nemmeno il titolo dei suoi articoli, e invece li serve. Ecco la sua espiazione, il suo potere e la sua rovina, giacchè i giornalisti finiscono quasi sempre male.

Prodighi dell'ingegno e della vita improvvisamente appaiono esauriti e precipitano nella oscurità della miseria: spesso vi agonizzano lungamente appoggiandosi ad un vizio laido o grottesco; la gente guarda, non capisce e ride.

Eppure per tanti anni non ha sentito, pensato, parlato, che per la bocca di quell'uomo; la sua penna gettava baleni come la spada di un eroe, il suo giudizio era un oracolo. Nessun autore può diventare celebre se il giornale non lo dice.

Prima, il libro stampato in silenzio faceva in silenzio la propria strada; non v'erano giornali, ci voleva un libro per combattere un libro, e i lettori, dilettanti o autori essi medesimi, componevano un pubblico piccolo, fine, esigente: adesso che il giornale è l'eco di tutte le voci, il pubblico non crede all'esistenza se non di ciò che il giornale segnala. Un libro di cui non si parla è un libro non stampato. Perchè il giornale non ne parlerebbe, se il libro valesse davvero?

Ecco l'opinione della massa.

Quindi il pensiero non fu mai più schiavo e la celebrità più falsa di ora.

Nel tempo eroico del nostro Risorgimento a fondare un giornale bastavano cinquanta lire: ogni stampatore era sufficiente: nè vapore nè telegrafo: le diligenze lo portavano dieci miglia fuori della città: dopo quindici giorni qualche numero aveva percorso cento miglia. Si voleva l'articolo e una firma: oggi l'articolo deve essere prima accettabile dall'interesse segreto del giornale, altrimenti nemmeno il nome di Cavour o di Mazzini basterebbe ad ottenergli l'onore della pubblicazione.

— Pubblicatelo altrove — dicono gli ingenui.

Dove? in un giornale piccino che il pubblico non legge? E allora tant'è non pubblicarlo.

— Che importa se i giornali non parlano di un libro? Il libro serba intero il proprio valore e finirà coll'essere scovato — ripetono ancora gli ingenui.

Forse. Ma per appellarsi all'immortalità bisogna essere ben forti, poi si vive una volta soltanto e si muore inconsolabili di non essere stati riconosciuti.

Ebbene, sia: bisogna scrivere al di fuori, al di sopra del giornale: il suo silenzio è per l'ingegno la più ineffabile delle torture, quindi la più utile. Nella lotta suprema con l'invincibile soltanto il genio sprigiona tutta la propria forza; solamente nel martirio più insopportabile, senza onore di compianto, senza nemmeno la speranza che il suo esempio possa giovare ad altri, l'anima esprime la sua ultima verità.

Quanti ingegni illustri e dolorosi ne sono morti! Quante false celebrità del giornale sono già dimenticate!

Balzac, che con Dante e con Shakespeare compone la suprema triade dell'arte, fu nel secolo decimonono la vittima più illustre del giornale: lo negarono sempre, dappertutto; gli opposero mediocri e piccini, da George Sand a Bernard, morì povero, vinto. Wagner vinse vecchio con le opere, nelle quali il suo ingegno precipitava già per la parabola del tramonto dall'artificiale scogliera del suo sistema estetico; Bizet non potè vedere Carmen sul teatro. Galli a Roma è morto di fame dipingendo quadri senza neppure i colori, e vendendoli ad artisti arricchiti da tele credute buone come i cerotti, e che gli pagavano con una elemosina.

Ma senza il giornale la nostra modernità non sarebbe nemmeno concepibile.

La diffusione delle scuole elementari non conta: i fanciulli ne escono conoscendo l'alfabeto e dopo pochi anni non lo riconoscono più: nelle campagne il libro non c'è e il giornale non è ancora entrato. Ecco la differenza fra l'operaio di città e di villa. Passano più idee per una strada in un giorno che non ne escano in un anno da una università; un solo giornale, piccolo, informe, deforme, ne propaga più di una biblioteca. Quanti villaggi ne hanno una e la gente non lo sa!

Il giornale è il pensiero, e cerca tutte le persone, entra in tutte le case: si fa piccolo coi piccoli, parla una lingua indefinibile, ma intelligibile; l'autorità sul volgo gli viene dall'essere stampato: è un'arena nella quale tutti possono entrare, torrente che devasta, canale che irriga, cloaca che raccoglie tutte le immondizie e con la stessa facilità le trasforma in veleni o in concimi: è un'eco dell'arte, una sillaba della scienza, una parola della politica.

Sopprimete il giornale e sarà come se aveste soppresso i viveri alla gente: domandatele il suo giudizio sui giornali e vi risponderà con la parola più insultante.

Eppure fra la gente che legge non vi è chi non ne abbia uno: non una famiglia nella quale il primo articolo del figlio non sia come un battesimo di gloria, non un uomo fra i più superbi che non tema la guerra del giornale.

Questo capolavoro quotidiano di verità e di menzogna è un bene od un male? Perchè chiederlo, se da un secolo è già necessario? Il giornale può dire la verità? Non ancora.

Adesso attraversa la fase industriale: nella sua impresa, che impiega grandi capitali, l'abilità suprema è nel sedurre il pubblico maneggiando il maggior numero di elettori in politica e d'ingenui nel resto. Aspettate ancora che il giornale cresca sino ad arrivare davvero nel gran pubblico, la massa vera che non è d'alcun partito, di alcun interesse e cerca per istinto nella verità il proprio tornaconto: allora potrà dirla. Nel grandissimo commercio la frode del prodotto è impossibile, giacchè il segreto del suo trionfo sta appunto nella perfezione e nella costanza del tipo: s'inganna il piccolo cliente, che si può sostituire, non il grande che è immutabile.

Quando verrà quel giorno? Verrà, e basta.

Giornale e giornalista oggi sono quello che sono, utili sino all'indispensabile, potenti così che nessun dinamometro potrebbe misurare la loro forza; nel giornale si stampano spesso articoli che valgono un libro, notizie che nemmeno i governi sanno procurarsi, si dànno battaglie tragiche come quelle degli eserciti; nel giornale s'incontrano avventurieri come Cecil Rhodes, viaggiatori come Stanley, poeti come Hugo, romanzieri come Tolstoi, storici come Taine, scienziati come Darwin, filosofi come Spencer, sofisti come Marx, musicisti come Berlioz, scultori come Rodin, statisti come Cavour, apostoli come Mazzini, tribuni come Gambetta, condottieri come Garibaldi. E la canaglia vi pullula viscida, a mille colori, a centomila forme, una canaglia che disonorerebbe un bagno, con tutta la multipla, spaventosa bellezza dell'anima criminale: i meno pericolosi fra essi sono i più scoperti, i più ammirabili quelli che taglieggiano tutto, dal teatro alla politica, per gettare il danaro sopra un tavolo da giuoco o nel grembo di una cortigiana, capaci di scrivere il discorso di un ministro e di vendere un segreto di stato, mentendo con sì nobile bellezza di stile da finire col credere essi medesimi alla propria menzogna.

Nella mia prima conversazione con Quintino Sella in casa di Marco Minghetti, l'illustre geologo, diventato già il più coraggioso finanziere e il migliore statista d'Italia dopo Cavour, mi chiese sorridendo:

— Avete ancora scritto nei giornali?

Non avevo allora trent'anni.

— No — risposi fieramente, — e non vi scriverò mai.

— Vi scriverete.

Ricordo adesso il sorriso freddo d'ironia nei suoi occhi di contadino intelligente.

Quello scettico, nel quale l'anima aveva una grazia socratica, e la parola gittava così spesso lampi e stridori di cristallo, indovinò anche allora.

Ho resistito sino ai quarantasei anni, indarno.

È questo un libro?

Forse: se i suoi articoli non sono soltanto articoli.

Casola Valsenio, 11 ottobre 1904.

Fuochi di bivacco

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