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VIII.

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Quale la condizione, quale la parte dell'Italia in un'Europa siffatta?

Lo abbiamo accennato già prima; la Pace di Gateau Cambrèsis abbandonava l'Italia alla Spagna dominatrice; e, pareva, senza riparo o difesa. Venezia aveva sulle braccia la forza navale de' Turchi, e, per schermirsene, bisogno dell'alleanza Austro-tedesca e dell'Austro-spagnuola; il conflitto colla Riforma legava ad entrambi i rami d'Habsburgo, ma più particolarmente all'Austro-spagnuolo, il Papato; comprati a Spagna col Monferrato sino dal 1535, e come la Repubblica genovese, tenuti in fede dalla paura delle poco platoniche ambizioni savojarde, i Gonzaga; fatti cosa tutta spagnuola, con in mano di Spagna quel mirabile Alessandro, che di soli diciassette anni aveva effettivamente partecipato alla battaglia di San Quintino, i Farnesi; legati a Spagna, per la nemicizia cogli Strozzi e co' Francesi, e pel vassallaggio di Siena, i Medici; imbrigliata dalla nimistà de' Gonzaga, da quella di Genova, Casa Savoja; fatte così ausiliarie alla dominazione spagnuola in Italia le nimistà, le gelosie, le reciproche paure italiane.

Nè, in paese così diviso politicamente, poteva esser segnacolo comune di riscossa, una qualsiasi dissidenza religiosa dalla potenza dominatrice. I parziali moti, i conati individuali non contano; l'Italia era rimasta cattolica, più assai che per meditato e cosciente convincimento, per quella gioconda indifferenza verso i grandi problemi religiosi, ch'era una fra le più infelici conseguenze del Rinascimento; gli effetti, del resto considerevoli assai, della contro-riforma o rimbalzo cattolico, bastavano ad acquietare le coscienze di coloro, pe' quali in qualche cosa altro, che nelle estrinseche pomposità del culto, consisteva la Religione.

Ogni comune centro di vita, ogni vessillo, sotto cui tutta si fosse potuta raccogliere ad impresa che, per la mole dell'avversario, e per la sua situazione nella Penisola, tutte avrebbe richieste le forze della Nazione, mancava dunque all'Italia. Si portavano ora, nel servaggio, le pene delle antiche colpe. Le forze abusate e sfrenate, le idee, con colpevole leggerezza sfatate, mancavano all'opera del riscatto, più per la difficoltà di adattare ad essa una disciplina, che per reale esaurimento delle energie nazionali, che inquiete s'agitano, anzi, si sviano, e traviano; mancava, e questo era il peggio, a una gran parte di quella Nobiltà, senza la quale Popoli o Dinasti nulla in tale età avrebbero potuto tentare, la misura del vilipendio, in cui s'era lasciata cadere la Patria; della Patria stessa e della dignità propria s'era oscurata l'idea negli animi, compri dalle bugiarde onorificenze e da' ciondoli, che tanta bile muovevano all'Autore, qualch'egli sia, delle Filippiche, e a quello della Pietra del Paragone Politico.

E ogni giorno arrogeva al danno. Non m'attenterò a rifare il quadro, che con mano maestra fu condotto da Alessandro Manzoni, della impotenza arrogante, della insipienza presuntuosa, con cui gli Spagnuoli sgovernavano il Ducato di Milano. Da quello, ben noto, può ciascuno argomentare qual si fosse la condizione dei Regni meridionali; dove, avendo meno da temere di Potentati vicini, i quali degli errori spagnuoli e del malcontento eccitatone facessero loro pro, la rapacia, e la insolenza spagnuola si sfrenavano bene altrimenti; e dove la mole dell'ufficio alle ree loro mani commesso, e le forze di cui disponevano, inanimavano i Vicerè o a farsi belli a Madrid con più feroci esazioni, o ad assumere in esizio dei popoli miserrimi, e a sodisfacimento di loro ree cupidigie, gli atteggiamenti d'una indipendenza, che taluno fra loro sognò, forse, completa. E ben potevasi sognare in Napoli dal duca d'Ossuna, una corona indipendente se, nel dimezzato Ducato di Milano, il governatore Fuentes aveva potuto rifiutarsi di mandare in Fiandra i 30000 soldati, che, finito l'affare di Saluzzo tra Enrico IV e Carlo Emanuele I, gli si ridomandavano dal suo Sovrano. Ai moti, che nel Popolo la fame e la tracotanza degli esattori destò, la Nobiltà venne meno, dedita, più che in altra parte d'Italia, a Spagna, che la pasceva di vento; tenera de' fumosi privilegi, e, per la varietà delle origini sue, difficile a consentire in un unico simbolo. Di volgersi a un Principe italiano, nè Grandi, nè Popolo avrebbero fatto il pensiero, chè saria parsa loro dedizione di loro autonomia, assoggettamento di Provincia vassalla a Stato sovrano; Principi chiamati di fuora, come i Guisa, avrebbero avuto per sè, sola quella parte che risaliva ad origini francesi, o a spagnuole. In Sicilia le rivalità feroci tra Messina e Palermo, e nella stessa Messina le opposte fazioni di Malvezzi (liberali) e Merli (assolutisti) guarentivano a' Re spagnuoli la inanità finale d'ogni risentimento, meglio e più che un esercito.

Meno nota in genere, perchè difficile a cogliersi in un prospetto sintetico, più lunga a narrarsi, che non paia consentito dalla relativa picciolezza di certi eventi, la condizione de' Principati, cui rimaneva dopo il 1559 un'ombra di indipendenza.

D'essi, alcuni erano Dinastie recenti; come Farnesi e Medici; altri di recente, dopo procelle terribili, tornati in Stato, come casa Savoja; altri, infine, oltre le italiane, avevano sulle braccia faccende di gran momento fuori d'Italia, come il Papa e Venezia. Si trattava per loro di assicurarsi con una buona amministrazione la tranquillità interna; d'evitare all'interno ed all'estero conflitti, ne' quali il recente o il rinnovellato edifizio fosse posto a troppo duri cimenti, od offrisse opportunità all'altrui cupidigia sempre sollecita e intraprendente.

Ed invero, quanto ad amministrar bene lo Stato, taluni di quei fondatori o rinnuovatori di Dinastie porsero meditabili esempî. Le cure di Emanuele Filiberto per italianizzare di lingua, di cultura, d'interessi il suo Stato, ritolto tutto di mano a' prepotenti occupatori, e accresciuto della contea d'Oneglia comprata a' Doria; i provvedimenti per aver molte e pronte e buone armi, senza invocar mercenarî, col vietare a' suoi nobili di farsi mercenarî essi negli eserciti altrui, sono le ben note sue glorie. Meno noti, ma non meno gloriosi sono gli accorgimenti con cui, tolti di mezzo gli Stati generali, ch'erano omai custodi di vieti privilegi nobileschi e preteschi, anzichè di libertà, sciolse da ogni rimanenza di vincoli feudali le persone; e la giustizia distributiva con cui, gravando più ugualmente la mano su tutti gli ordini della cittadinanza, triplicò in breve le entrate del Ducato. Nè sono da tacere le molteplici cure date all'annona, all'igiene, all'agricoltura, alla sericoltura (promosse con le leggi e col proprio ducale esempio), agli studî sì di Scienze, che di Lettere e d'Arte; nè il freno posto alle intemperanze clericali, e la libertà restituita a' Valdesi.

“Bella e cappata gente„ chiama il Botta, nel suo antiquato ma vigoroso linguaggio, le milizie di quel Cosimo I, che nelle galee di San Stefano trovò un utile sfogo al Patriziato fiorentino, i cui vivaci spiriti piacevagli bensì rimuovere dal tentar nuovità interne, ma non sviare, o fiaccare. La Maremma senese, ch'egli ebbe con settemila abitanti, ne contava già, alla sua morte, circa a venticinque mila. Gli altri provvedimenti per la finanza, rispondevano a questi. Grande il merito suo nel tenere, come tenne, tranquillo senza efferatezze il paese, tutt'altro che quieto per sè; e si parve sotto il troppo minore suo figlio Francesco, quando nei primi diciotto mesi del governo di costui quasi duecento tra ferimenti e omicidî funestarono la sola Città di Firenze. Men felice la casa Farnese; nella quale potò bensì la buona amministrazione d'Ottavio far dimenticare in parte a' Piacentini e a' Parmensi le nequizie di Pier Luigi; ma Alessandro, più che a' sudditi suoi, prodigò, mal rimeritato, l'alto ingegno e la forte anima a Spagna nello sterile affanno del debellare le Fiandre; Rinuccio primo, tra' sospetti e le vendette imbestiò; sinchè quella gente parve ravviarsi a una politica estera ed interna più sana con Odoardo.

Il virgiliano Res dura et regni novitas me talia cogunt Moliri, ben s'addice alla prontezza colla quale Cosimo, ed altri di que' Principi novelli, s'affrettavano a spegnere ogni favilla d'incendio. Lo stento con cui, tuttochè Generalissimo di Spagna, vincitore di San Quintino per una parte, cognato del Re di Francia per l'altra, Emanuele Filiberto ricuperava da Francesi e da Spagnuoli gli Stati suoi, e la stessa Torino destinatane capitale; la agevolezza colla quale, dopo la uccisione del mostruoso Pier Luigi, s'era disciolto, tra Ecclesiastici e Spagnuoli, lo Stato Farnesiano, e le pene che c'eran volute a ricomporlo, e le condizioni sotto le quali Spagna aveva restituito Piacenza, ammonivano a guardarsi da agitazioni, chi volesse conservarsi lo Stato; e l'interesse de' Principi era qui interesse de' Popoli, che certo da Estensi, da Medici, da Farnesi non avevano mai da temere quel che da Spagna; e che in ogni caso, restavano almeno italiani.

Se la Spagna vegliava, e se conscia a sè stessa d'una già incipiente disproporzione fra le formidabili parvenze e la limitata realtà delle posse, ell'era ferma nel non tollerare incrementi de' Principi italiani, anco devoti apparentemente a lei, lo mostrarono i suoi sordi furori e le minaccie iraconde allorchè seppe della profferta che, stanchi della oppressione genovese, avevan fatta di sè a Cosimo i Còrsi, e la inclinazione di Cosimo ad accoglierli sotto il suo non libero ma ordinato Governo.

Ond'è da ammirarsi insieme la sagacia e il felice ardimento di Pio V e di Cosimo, nel conferimento del titolo e della corona granducale, con cui volevasi por termine alla contesa della precedenza fra Toscana, Casa d'Este e Savoja; contesa incresciosa, non oziosa; quando trattavasi di crescere autorità e forza a un libero Stato italiano, men saldo sino a que' dì che Savoja, men coperto che gli Estensi dalla sovranità papale. È da ammirarsi Cosimo in quel matrimonio tra Francesco I e Giovanna d'Austria, che riuscì infelice non per colpa di lui, e che ad ogni modo poneva sagacemente l'un contro l'altro i due rami di Habsburgo, e metteva Cosimo in grado di lentare, per una parte, i lacci spagnuoli; per l'altra, di rispondere non senza fermezza all'Imperatore stesso, che scriveva altezzoso a proposito del trattamento fatto a Giovanna.

L'alleanza francese, o il bilanciarsi, con una politica di matrimonî francesi, di interventi e mediazioni diplomatiche tra Francia e Spagna, era sin oltre la Pace di Vervins, malsicuro; e malsicuro segnatamente a Cosimo, sinchè erano in credito alla corte francese gli Strozzi, a' quali il Re di Francia diceva: mon cousin. Ed argomenti di timore non lievi porgeva quel Ducato senese, di cui, morto Cosimo, volevasi negare la investitura a Francesco, e che poteva da un momento all'altro divenire cosa spagnuola; od esser conceduto a quell'inquietissimo Pietro de' Medici, di cui tanto si valsero gli Spagnuoli per tenere il suo maggior fratello Francesco in soggezione; o divenir, magari in mano degli Strozzi, prezzo d'accomodamento tra Francia e Spagna.

Sotto Francesco, per la tema che, mentre travagliavasi nelle interne sue guerre il Regno francese, la Spagna incuteva più che mai agli Stati italiani, ed anco per l'indole prava del governante, la Toscana spagnoleggiò, e vide giorni per diverso modo nefasti; chè, oltre la frequenza de' delitti comuni notata di sopra, l'assassinio del Buonaventuri, primo marito di Bianca Cappello; l'uccisione, che della moglie Eleonora di Toledo perpetrò il già ricordato Piero, cliente di Spagna; la morte di Elisabetta, altra figlia di Cosimo I, per mano del marito Giordano Orsini, non a torto geloso; sono ben più certe tragedie, che non la favoleggiata morte di Garzia e di Giovanni, od altrettali.

Ma non appena la Francia s'avviò al suo scampo, e prima ancora che l'abjura di Mantes desse modo a Clemente VIII di trattare apertamente con Enrico IV, Ferdinando I, felicemente succeduto a Francesco, entrava mediatore tra Clemente ed Enrico; Venezia tornava all'antica alleanza francese; il Papa affrettava co' voti e coll'opera il giorno della pacificazione; le nozze di Maria de' Medici col Re di Francia, l'attivo intervento papale nella faccenda di Saluzzo, l'accorta e non disinteressata sapienza d'Enrico IV nella pace di Lione, davano segno manifesto che la esclusiva preponderanza spagnuola sugli Stati italiani era scossa.

Delle stipulazioni di Brusolo pare fossero bene informati e paghi Venezia, il Papa e il Granduca; non la Corte Farnese, veramente raccostatasi a Francia solo al tempo di Rinuccio II. Senonchè, prima ancora che la repentina morte d'Enrico IV richiamasse i piccoli Dinasti italiani a più cautelosi pensieri, e lasciasse Carlo Emanuele in quel terribile impaccio, da cui, colla tardità, che una mal dissimulata decadenza ingenerava in ogni moto di Spagna, contribuirono a trarlo i buoni ufficî della Diplomazia papale, erasi fatto manifesto come, pur di fronte alla decisa politica e al saldo animo d'Enrico IV, questi Dinasti non credessero avere completa identità d'interessi, da potersi tutti ugualmente alienare la Spagna. La cessione di Saluzzo a Savoja, frutto non meno del perseverante coraggio del Duca, che della accorta temperanza del Re, spiacque a' Medici e agli altri, perchè ne pareva fatto men pronto e presente il sussidio francese. Nè di ciò sembrava ad essi compenso sufficiente l'incremento sabaudo in Italia. Che se poi questo fosse stato, per avventura, maggiore, e più se ne sarebbero doluti; perchè meglio s'acconciavano a conseguire una relativa indipendenza mercè il contrapporsi d'uno ad un altro Potentato straniero in qualche parte d'Italia, che a subire la egemonia d'uno fra gli Stati italiani, cresciuto abbastanza per tutelar gli altri da qualsiasi straniero; al quale ufficio era manifesto oramai non potere, per la situazione a confine con Francia, per la mole dello Stato, pe' suoi ordinamenti militari accingersi, con qualche speranza di successo, se non casa Savoja. E di questa misera e colpevole gelosia non sono da riprendere soli que' Principi italiani, a taluni de' quali converrebbe anzi fosse più equamente pietosa la Storia, e che, conosciuti più da presso (Cosimo II, Ferdinando II, Edoardo I, Rinuccio II), guadagnano; ma ne sono da riprendere, per lo meno al pari di loro, i Popoli, ne' quali il particolarismo, ambizioso, sospettoso, era vivo pur troppo; tantochè, quando, nella guerra di Valtellina, pareva che le armi di Carlo Emanuele si vantaggiassero soverchiamente in Lombardia contro alle spagnuole, il Senato milanese, in tante altre faccende sì corrivo e sì docile, fece pervenire a Madrid le alte e veramente patriottiche sue lagnanze, perchè il governatore Duca di Feria capitanava con poca fortuna contro il Principe italiano le genti di Spagna. Tal quale come quando, sollecitandosi, un secolo e mezzo prima, per Pio II, una lega di Stati italiani, che formata contro il Turco, sarebbe stata efficace contro ogni altro Straniero, lo ammonivano del pericolo (?!) di far tutta veneziana l'Italia gli Oratori fiorentini; a' quali il Papa rispondeva: meglio in ogni modo farla veneziana, che turca, o comechessia straniera.

La Storia italiana, di questo periodo almeno così poco divertente, non è, o abbastanza nota o meditata abbastanza. Più nota o più meditata avrebbe, FORSE! risparmiato all'Italia il vano conato del federalismo neo-guelfo, chiarendo impossibile a conseguire od a conservare col buon volere di Dinastie, tutte recenti, e aventi fuor d'Italia le loro radici e la nativa ragione dell'esser loro, quello, che non erasi potuto o saputo volere, sotto la ignominia e la rapina spagnuola, da antiche Famiglie italiane, congiunte le più in parentela fra loro, e strette anche con casa Savoja da quella “catena d'amore„ di cui le figlie di Carlo Emanuele avrebbero dovuto essere gli anelli. Più nota o più meditata, questa Istoria ci farebbe meno corrivi e più oculati a tutela della conseguita unità.

Chè se i Lombardi, calpestati, dissanguati dagli Spagnuoli, delle vittorie savojarde si contristavano e si querelavano a Madrid, resta agevole intendere le fiere ripugnanze di Genova repubblicana contro le monarchiche insidie di Carlo Emanuele; intendere come co' Sovrani loro consentissero i Popoli in quelle gare di precedenza, che fecero, anche dopo la coronazione di Cosimo I Granduca, spargere tanti fiumi d'inchiostro, e minacciarono fare spargere fiumi di sangue fra Estensi e Toscani; intendere il furore della guerricciuola fra Lucca e gli Estensi, omai ridotti a Modena e Reggio, per la Garfagnana. E s'intende per questo modo quel correre addosso a Carlo Emanuele per vietargli l'acquisto del Monferrato; e quella suprema vergogna del lasciarlo solo, quando, non più pel Monferrato, ma sosteneva la guerra con Spagna, ed a quella invitava, come a debito loro, gli altri Principi d'Italia, per la indipendenza italiana, ch'egli ad un modo e quei Principi intendevano a un altro, e stimavano forse minacciata non meno che dalla Spagna, da lui, che della eventuale vittoria avrebbe raccolto in aumenti territoriali il massimo frutto. Il fatto è che mentre per la Francia, per la Spagna, per l'Austria, contro i Turchi, contro i sollevati Fiamminghi, contro gl'Inglesi troviamo a combattere volontarî di varie parti d'Italia, e taluni, per vero merito militare, ne' primissimi gradi, niuno ne troviamo con Carlo Emanuele in quella, che a lui sembrava guerra d'indipendenza nazionale; a troppi altri guerra di mero interesse dinastico. Degli altri Stati italiani lo Stato ecclesiastico, arrotondatosi cogli incameramenti di Ferrara e d'Urbino, protetto dalla maestà della Religione, e sperante da uno sconquasso degli Spagnuoli un incremento d'influenza sul Regno meridionale, si mostrava il meno geloso de' possibili ingrandimenti sabaudi. Gli errori e le colpe del Governo pontificio, che tanto contribuirono a far possibile la unificazione italiana, gli sono stati rimproverati abbastanza; è ufficio della Storia veridica ed equanime il riconoscere che, nè alla indipendenza d'Italia, nè all'ufficio di potenza moderatrice e conciliatrice, cui i Papi aspiravano fra gli Stati italiani, nocquero i predetti incameramenti d'Urbino e di Ferrara, nè il nepotismo politico, di cui furono frutto i Medici ed i Farnesi, e avrebbe potuto esser frutto un principato Barberino od Aldobrandino di Valtellina. Le generose illusioni sono da rispettare; e la difesa, che delle loro libertà repubblicane fecero Firenze e Siena, onora i Fiorentini, i Senesi, l'Italia; ma erano illusioni! Se la Lega, che il Burlamacchi sognò più tardi, si fosse potuta stringere cinquant'anni prima, se la voce di Pio II e di Paolo II non fosse andata perduta fra i pettegolezzi delle Repubbliche e delle Signorie tuttora immuni da contagio straniero, Firenze, che fu percossa da' grossi cannoni forniti agli Imperiali da Siena; Siena che cadde sotto le armi di Firenze collegate alle Spagnuole, avrebbero combattuto effettivamente per conservare i loro ordinamenti repubblicani; ma nel 1530 per Firenze, nel 1554 per Siena, si trattava, non già di rimanere Repubbliche o di diventar Principati; sibbene d'essere o Spagnuole o Medicee, e fu gran ventura che rimanessero a' Medici; gran ventura che tornasse a' Farnesi Piacenza.

S'intende che qui si risguardano il nepotismo e i suoi effetti sotto il rispetto della politica positiva italiana; non sotto quello più generale de' morbi, da cui giova sperare che la catastrofe del Poter temporale sia per far monda la Curia romana.

Ai torti del Papato temporale nella guerra Barberina, bruttissima, fanno contrappeso, durante il secolo, che ho cercato ritrarre nel suo complesso, meriti religiosi e civili non piccoli. Pio IV, forse soverchiamente severo agli orgogliosi Caraffa, mentre, animato dal nipote Carlo Borromeo concludeva il Concilio di Trento, fortificava contro i Turchi, sbarcati testè a Manfredonia, la città Leonina, Ancona, Civitavecchia; aiutava pur contro a' Turchi di denaro, di navi, di gente, Malta e l'Impero; ampliava il Vaticano; ornava Porta Pia. Pio V, oltre il sagace ardimento d'avere, colla incoronazione, contro le proteste del Corpo germanico, contro le rinforzate guarnigioni spagnuole, ed i clamori d'Este e Savoja, contribuito alla autorità e grandezza di Cosimo, che purtroppo consegnavagli il Carnesecchi, ma dava puranco galere per le guerre turchesche; ed oltre l'accorgimento con cui difese contro le insidie di Don Giovanni d'Austria la libertà genovese, ha il merito sommo d'avere, nonostante tutto il malvolere di Filippo II, menata a conclusione la gran Lega cristiana, e preparata quella battaglia di Lepanto, mercè la quale, sebbene non se ne raccogliesse a gran pezza ogni debito frutto, si protrasse la vita, e vita non tutta ingloriosa, a Venezia. Se pur non è più giusto il dire che quella Lega, come l'altra, che più tardi Innocenzo XI Odescalchi stringeva fra l'imperatore Leopoldo e re Giovanni di Polonia, salvassero per secoli dalla barbarie turca la civiltà cristiana.

La fama popolare predica ancora flagellator grande di banditi, e severo riordinatore dello Stato Sisto V. E meritamente invero; quantunque i buoni effetti dell'opera sua non durassero tutti, e gl'inquieti spiriti di certe popolazioni italiche tornassero a prorompere nelle geste epicamente brigantesche di quel Battistella, le cui imprese nella Maremma grossetana finirono solo quando la Spagna n'ebbe prese a' suoi stipendî le masnade nello Stato de' Presidî; o di quel Marco Sciarra, arcifamoso, che, dopo fatta contro a Pontificî e Toscani vera e propria guerra guerreggiata, finì al soldo de' Veneziani, mandatone, pe' giusti reclami di Clemente VIII, a militare in Candia. Co' quali, tra i prosecutori ed eredi di Ghino di Tacco, che il confine ecclesiastico e toscano fecero teatro d'imprese vive pur troppo ancora nella memoria e nella imaginazione del popolo nostro, convien noverare quell'Alfonso Piccolomini duca di Marciano, che prima negoziò col Papa da potenza a potenza la consegna del suo complice Pietro Leoncillo, poi, vinto da' Toscani in battaglia campale, a San Giovanni in Bieda, era da Ferdinando I, reclamandolo invano i Tribunali ecclesiastici, fatto impiccare.

Ma, per tornare alla politica italiana de' Papi, se lo zelo intemperante di Paolo V dette luogo alla nota contesa della Repubblica veneziana, restano ad onore suo e d'altri Papi le sapienti ed efficaci sollecitudini loro per tutti i Principi italiani, ed in specie quelle d'Urbano VIII per Carlo Emanuele I; ch'egli chiamò replicatamente “Onore d'Italia„ “Difensore della libertà italiana.„ Poichè, infine, a quel più di “libertà italiana„ che i tempi lasciavano allora sperare, indirizzarono i Papi la loro azione politica: e la egemonia, alla quale aspiravano sugli altri Stati italiani, si esercitò tutt'altro che in detrimento di questi.

Del resto, questi piccoli Stati, che unirsi ad impresa di comune indipendenza contro la Spagna non seppero o vollero mai, per una troppo gelosa cura di loro autonomie e precedenze; che insensibilmente declinarono col declinare di lor dinastie locali, presto degenerate; potevano tutti, al precipitar della mole spagnuola dire, come quell'uomo di Stato francese al cessar del Terrore: Ho vissuto! E l'aver vissuto, l'aver saputo vivere quando, morendo, sarebbesi fatto luogo a un incremento di dominazione straniera, di dominazione obbrobriosa, corruttrice, rapace, era già qualchecosa.

Ma se i singoli Stati italiani s'erano ridotti a vivere nel più modesto significato della parola, il pensiero italiano visse nel significato più alto e fecondo. Affermando contro la pervadente Teologia i diritti della Scienza, separando dal campo della Fede quello dell'esperienza e del raziocinio, contrapponendo alle fole di uno pseudo-aristotelismo i procedimenti del metodo sperimentale, Galileo Galilei recava alla famiglia umana beneficio di poco minore da quello, che le aveva recato la libertà di coscienza.

E di che vita fremessero ancora, non ostante le vecchie colpe paesane e la ignorante oppressione straniera, le viscere della gran Madre Italia, ben si pare dalla perseveranza e dal coraggio con cui, in nome della Verità scientifica, Gentiluomini, a' quali le vie dilettose de' facili onori erano aperte, Scienziati che dovevano, fatti nuovamente discepoli, disdire sè stessi, affrontarono le contrarietà, gli scherni, e le minaccie di peggio; si pare da que' luoghi del Galilei, e degli altri scrittori della sua scuola, ne' quali l'animo loro, commosso a portenti di che erano o ritrovatori o testimoni novelli, chiama a Dio, che di tanto dono li aveva privilegiati.

Nè già potevano essi allora prevedere, o solo in parte assai piccola le applicazioni, che della verità per essi certificata sarebbersi fatte alla industria, con aumento di comodità a' men privilegiati dalla fortuna, e con appressamento della umana famiglia a quella æqualitas, che San Paolo auspicò, e alla quale è preciso debito nostro il cooperare colla parola e co' fatti. Ma amore del Vero li scaldava; del Vero per sè medesimo, supremo Bene dell'anima umana dal quale, non cercati, non sperati o intraveduti talvolta, tutti gli altri Beni derivano; perocchè a ogni ordine d'umano pensiero, opera, affetto, si convenga quell'evangelico: “Zelate la giustizia ed il Regno di Dio, ed il resto verrà da sè.„

Lacera, conculcata, travolta dagli errori e dalle colpe proprie, e da necessità poco meno che ineluttabili, la Patria nostra aveva, pure nel secolo per lei sì melanconico, che dalla pace di Cateau Cambrèsis va a quella de' Pirenei, recato alla universa civiltà il cospicuo suo contributo.

La vita Italiana nel Seicento

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