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I.

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Posciachè nella giostra, indarno deprecata da Caterina de' Medici, giacque, per l'asta infelice del Montgomery, Enrico II, lasciando a un adolescente infermiccio, e dopo questo a fanciulli fracidi di corpo e di spirito, il gran pondo della corona di Francia; gli effetti delle battaglie di San Quintino, e di Gravelines, mal contrappesati dal racquisto di Calais, parvero farsi di due cotanti più gravi, e stendersi più tetra e gigantesca che mai sulla pavida Europa l'ombra di Filippo II.

Egli allora sembrava attingere a un fastigio di grandezza, da gareggiare con quella dell'Impero romano ne' suoi giorni migliori; e superarla per taluni rispetti.

Sua la Spagna, tuttavia fremente nell'orgoglio delle recenti vittorie; suoi, pressochè per intiero, gli Stati, colla ricchezza e floridezza de' quali i Duchi di Borgogna s'erano avvisati di far fronte insieme e alla Monarchia francese e all'Impero germanico; suoi i Regni, prosperosi sino a que' giorni, di Napoli, Sicilia, Sardegna; e la pingue Lombardia; e i porti della Toscana, freno alle velleità Papali o Medicee; suoi i galeoni che„ carichi d'oro, gl'inviavano dagl'immensi possedimenti d'America i Vicerè senza scrupoli e senza ritegno; legato a lui dalla tema del particolarismo tedesco, della Riforma, de' Turchi, l'Impero germanico, colle austriache dipendenze d'Ungheria e Transilvania; stretto a lui dall'intento di ricuperare nell'unità della Fede il dominio delle coscienze, o di vietare almeno ulteriori conquiste ai Riformati, il Papato; vicino a cadergli in grembo, colle amplissime colonie d'America, d'Asia, d'Affrica, il Portogallo; dedita a lui, contro le ambizioni Savojarde e Francesi, Genova; poco meno che vassalli suoi Savoja, Farnesi, Medici; tenuta in briglia dalla minaccia turca la stessa Venezia; devoto a lui un partito in Francia, e sino in Inghilterra. La Monarchia Universale, di cui le due Diete d'Augusta (1550 e 1555), tenendo ferme le ragioni di Ferdinando I alla Corona imperiale, avevano sfatato il sogno, poteva parere anco una volta a Filippo una meta, che, volendo saldamente, e sapendo, sarebbesi pur conseguita.

Nè il volere gli faceva difetto; cupo insieme ed ardente, impetuoso e meditato; se gli facesse difetto il sapere, nella scelta e nell'uso dei mezzi, o se gli ostacoli fossero tali da non superarsi con forza ed arti maggiori di quelle adoperatevi da Filippo, mal potrebbesi dire di primo tratto; ma chi rimediti altri periodi storici, che con questo hanno più prossime analogie, s'accorgerà che la tradizione della Torre di Nimrud si perpetua, rinnovellata, per le intrinseche leggi, ond'è governato l'universo delle Nazioni.

Per quel ch'è di Filippo, nell'anima, alta no, ma vasta, egli accolse il disegno di dominazione tanto ampia ed intiera in ogni sua parte, quanto altra mai ne potè esser concepita da umana superbia e temerità. Dominare su tutti, dominare in tutto; penetrare gli arcani delle volontà; e a quelle dettar legge, e al pensiero, frugato con assidua scaltrezza ne' suoi recessi profondi; sradicare dall'anime, esterrefatte al bagliore de' roghi e al luccicare delle mannaie, sin la facoltà di creder possibile la ribellione; far parere norma alle coscienze, nell'ordine civile come nel religioso, la coscienza dell'Imperante; premio la sua approvazione; Ministri, Familiari adoperare come strumenti passivi, e, alla minima renitenza, annientarli coll'esilio, col veleno, col ferro; questa la visione che, nel delirio della sua oltrepotenza, vagheggiò e potè per un istante imaginarsi d'avere incarnata; questa la Torre babelica, che credette d'avere inalzata pei secoli lo sconoscente figliuolo di Carlo V.

Se il biblico “transivi, et ecce non erat„ ha trovato mai, per le meste profondità della Storia, una luminosa esemplificazione, ella è questa.

“E voi pensate

fa dire lo Schiller al suo marchese di Posa (nel Don Carlos)

“E voi pensate,

Seminando la morte e la sventura,

Piantar per gli anni eterni? Oltre lo spirto

Dell'artefice suo la vïolenta

Opra non vive!„

Filippo potè vedere cogli occhi proprî i primi vacillamenti ed i crolli dell'edificio, ch'egli aveva reputato imperituro; cogli occhi proprî, facendo accortamente buon viso a cattiva fortuna, vide rientrare ne' porti spagnuoli i miserabili avanzi dell'Armada, ch'erasi predicata invincibile; dovette egli, che aveva steso allo scettro di Francia, caduto, e non senza sua colpa, nel fango e nel sangue, l'artiglio rapace; e s'era lusingato d'avere almeno a porlo nella mano della figlia prediletta, d'un genero, alla peggio in quella d'un usurpatore per necessità legato a lui; dovette egli segnare la pace di Vervins, che quello scettro fermava in pugno al Monarca più odioso a lui dopo la Tudor, e contro al quale aveva scatenato tante ire e papali e granducali e duchesche. E morendo poco appresso, dovè portarsene nel paventato oltretomba il presentimento che, allettate invano colle tarde promesse d'una fallace e malsicura autonomia, le Fiandre erano sfuggite per sempre alla signoria degli Habsburgo.

L'orgoglio forse gli fece velo ad intendere e pesar tutti i danni di quella Spagna, che Carlo V gli aveva trasmesso in parvenze così floride. Non misurò il vuoto, che la migrazione de' più audaci, e intraprendenti a cercar repentine fortune in America lasciava nelle campagne, con ruina, irreparata sin qui, della pastorizia e della agricoltura; non quello lasciato da' Mori, traenti seco nella loro fuga al Marocco la industria delle pelli e delle armi; o da' Protestanti, che all'ospitale Inghilterra portavano, migliorata nel trapiantarsi, la industria de' tessuti; non lo svilimento de' metalli preziosi, che recati in copia, madidi di sangue e di lacrime, dal Nuovo Mondo, mal bastavano a comprar fuori i prodotti un tempo dalla Spagna esportati; nè capì, pago a noverare i monasteri e le chiese, a misurare gli amplissimi latifondi ecclesiastici, quanto la sua ipocrisia feroce aveva nuociuto alla nobile indole degli Spagnuoli; quante calunnie e quanto odio aveva accumulato su quella Fede, cui toccò, fra le altre, la sventura d'esser professata e protetta da lui.

La vita Italiana nel Seicento

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