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LA REAZIONE CATTOLICA

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CONFERENZA

DI

Ernesto Masi.

Permettetemi, cominciando, di ricordare che l'anno scorso, parlando del come e quanto fosse risentita in Italia la Rivoluzione Protestante Tedesca, ebbi a distinguere tre tendenze diverse manifestatesi allora in Italia, la prima, che senz'altro aderisce al Protestantismo e molte volte lo oltrepassa; la seconda, che, allarmata delle disastrose conseguenze del Rinascimento nell'ordine morale e religioso, mira ad un tal rinnovamento interiore della Chiesa Cattolica da rendere anche possibile una conciliazione pacifica col Protestantismo e quindi il ristabilimento dell'unità nella Chiesa Cristiana; la terza, che vuole e organizza la resistenza ad ogni costo e la reazione a tutta oltranza.

La prima di queste tendenze è domata colla violenza. La seconda e la terza camminano per alcun tempo parallele: pare anzi che si diano la mano e si aiutino scambievolmente; ma infine la terza, quella della resistenza e della reazione, ha il sopravvento e rimane l'ultima e definitiva trionfatrice.

È di questa, che dobbiamo ora più specialmente occuparci.

Essa, come fatto politico, piglia le prime mosse dall'accordo stabilitosi nel convegno di Bologna fra Clemente VII e Carlo V, ove si conferma non solo la servitù dell'Italia, ma s'offre alla Roma dei Papi la possibilità di rifarsi, dopo che la Rivoluzione Protestante avea già staccato dalla sua dominazione spirituale tanta parte d'Europa ed il suo principato temporale s'era per un momento, nel 1527, ridotto agli spaldi di Castel Sant'Angelo, donde il Papa potè vedere messa a ferro ed a fuoco la sua città.

Deserta, spopolata, con pochi erranti a guisa di ombre fra muraglie crollanti e affumicate dagli incendi, Roma, a questo punto della sua storia, pare veramente la gran tomba del Rinascimento. Eppure è da questa tomba che la Roma dei Papi risorge a contrastare trionfalmente, e per secoli, ai suoi nemici il dominio spirituale del mondo!!

Il fatto è grande, signore, e sa di prodigio!

Consideriamolo nondimeno obbiettivamente; consideriamolo nella sua realtà e possibilmente senza passione e senza indifferenza.

Il troppo zelo o il non sentire affatto la potenza degli ideali religiosi e delle loro manifestazioni nella storia stroppiano egualmente in questi casi. Bisogna mirare, se non altro, ad un modello più alto e più sereno di storica imparzialità; e tra i moderni ce lo porge il Ranke, lo storico filosofo della Reazione Cattolica, se anche non vogliamo lasciarci andare agli entusiasmi dello storico artista, il Macaulay, che, Protestante al pari del Ranke, ma nondimeno rapito appunto dallo spettacolo di quella strapotente riscossa Cattolica, depone il suo orgoglio d'Inglese ai piedi di Roma e profetizza che Roma perdurerà sempre giovine e vigorosa, anche quando un pellegrino della Nuova Zelanda, sedendo su un arco rotto del ponte di Londra, in mezzo ad una solitudine desolata, disegnerà sul suo albo di viaggio i ruderi della chiesa di San Paolo.

In settant'anni e non più, quanti passano dal convegno di Bologna alla fine del secolo XVI, la Reazione Cattolica è compiuta; i suoi effetti religiosi, morali, politici sono già manifesti, e se potessi indugiarmi tra via, varrebbe la pena di farvi vedere appunto accozzati dal caso al convegno di Bologna, che fu delle maggiori e più caratteristiche solennità del Cinquecento, i superstiti dell'età del Rinascimento cogli uomini destinati ad inaugurare la Reazione Cattolica.

Vi vedreste, per dir solo d'alcuni, il successore di Clemente VII, Alessandro Farnese, che dovrà, suo malgrado, aprire il Concilio di Trento, il Cardinal Gonzaga e Monsignor Giberti, ai quali spetterà in quel Concilio una parte importantissima, Gaspare Contarini, il generoso utopista della Conciliazione fra Cattolici e Protestanti, e insieme, Pietro Bembo, il maggiore rappresentante dei fervori letterari e dell'indifferenza religiosa del Rinascimento, e con altre gran dame italiane del tempo la principale di tutte, Isabella Gonzaga, che rappresenta il passato in quello che ebbe di più squisitamente artistico e gentile, mentre le damigelle della sua corte lo rappresentano in quello che ebbe di più spensieratamente giocondo, perchè quelle care ragazze s'abbandonano in quella occasione a tale intemperanza d'amori cosmopoliti da contarsi per le vie di Bologna fino a diciotto morti fra gli intraprendenti gentiluomini, che si disputano a colpi di spada i loro favori.

Ma non andrà molto, ripeto, e la Reazione Cattolica avrà trionfato, sicchè essa è già in tutta la sua forza, quando il Cinquecento è in sul finire e s'apre il Seicento, l'età, vale a dire, che è il colmo e l'espressione più legittima e più genuina così della piena servitù dell'Italia sotto la Spagna, come della rinnovata energia Cattolica, la quale ferma di colpo i progressi, rapidissimi in sulle prime, del Protestantismo e riconquista tanta parte del terreno o minacciato o perduto.

L'uno e l'altro di questi due aspetti del grande fatto storico, che stiamo esaminando, svegliano in noi, come uomini e come Italiani, tale tumulto di pensieri e di sentimenti, tal cumulo di dolorose memorie, tale impulso spontaneo anche di postume ribellioni; che comprimere tutto ciò in fondo all'anima per narrare e giudicare con la maggior possibile serenità non è facile. Tanto è vero, che a scrittori Italiani non è riuscito quasi mai, e fra gli stranieri, per citar qualche esempio recente, il Philippson, Tedesco, che espressamente se lo propone, scatta ad ogni momento, ed il Symonds, Inglese, se per altezza e sincerità di mente mette in piena luce tutta la vastità dell'argomento, non può trattenersi però, invertendo le parti, dallo scomunicare in nome del Rinascimento, di cui è innamorato, la Reazione Cattolica, ch'egli detesta.

Eppure si rischia così di fraintenderla o d'intenderla a mezzo!

Facciamoci ora una prima domanda. La Reazione Cattolica è essa tutta dovuta all'occasione, allo stimolo della ribellione Protestante Tedesca, od ha altresì altre cagioni, da questa indipendenti, e che sorgono spontanee dal seno stesso della Chiesa Cattolica? Sì, o signore, le ha; e se così non fosse, non credo che la sua forza sarebbe stata, come fu, così grande ed intensa.

Quando il Rinascimento è ancora in tutto il suo fiore, una specie di arcana preoccupazione, una specie di vago presentimento di guai imminenti, immalinconisce, loro malgrado, le fisonomie dei più caratteristici attori dello stesso Rinascimento. C'è mestizia, come ha notato il Carducci, sul dolce viso di Raffaello, corruccio su quello di Michelangelo, l'interna pena si tradisce nelle figure del Machiavelli e del Guicciardini, una tristezza invincibile e quasi ira nel sorriso dell'Ariosto e del Berni!

Per altri è peggio, e allarmati, ripeto, delle conseguenze che possono recare l'immoralità pagana e l'indifferenza filosofica del Rinascimento, s'agitano e promuovono, per quanto possono, un rinnovamento del sentimento religioso, che a questo tempo, in cui i limiti che separano il Cattolicismo dal Protestantismo non sono ancora del tutto determinabili e determinati, sa spesse volte di eretico e di Protestante, o per lo meno è trattato per tale, se non s'affretta a travestirsi, a confondersi nella Reazione Cattolica, come dimostrano due esempi solenni: quello del Cardinal Gaspare Contarini che, dopo avere inutilmente tentata una conciliazione fra Cattolici e Protestanti, va a morir solitario in un convento di frati a Bologna nel 1542, e quello del Cardinal Giovanni Morone, che, processato e carcerato per eretico sotto Paolo IV, finisce invece ad essere il diplomatico di fiducia di Pio IV e la maggior figura forse del Concilio di Trento.

Questo rinnovato sentimento religioso, che andava serpeggiando, a guisa di latente cospirazione, per entro la più elevata società Italiana del Rinascimento e che dovea avere di certo larghe diramazioni fra il popolo, il quale partecipò sempre poco coll'animo ad un moto, tutto di cultura e d'arte, com'era il Rinascimento, questo rinnovato sentimento religioso, dico, parve vicino a trionfare, sotto l'immediato successore di Leone X, sotto Adriano VI, l'ultimo Tedesco, anzi l'ultimo straniero, che abbia seduto sulla cattedra di San Pietro. È lui di fatto, che pronuncia la gran parola: occorrere che la riforma vada dal capo alle membra, e vi si accinge con tale severità e tenacità, che mette i brividi a tutti i gaudenti della Corte Romana, i quali si disperdono maledicendo a questo barbaro del Nord con un coro d'improperi e di beffe, di cui ci resta l'eco nella satira del Berni:

O poveri infelici cortigiani,

Usciti dalle man dei Fiorentini

E dati in preda a Tedeschi e marrani.

.... Ecco che personaggi, ecco che Corte,

Che brigate galanti cortigiane,

Copis, Vinci, Corinzio e Trincheforte!

Nomi da fare sbigottire un cane.

.... Or ecco chi presume

Signoreggiare il bel nome latino!

Ma dopo il carnevale di Leone X, la tetra quaresima di Adriano VI fu breve. Quei gaudenti, per vendicarsi, gli tribolarono la vita, lo vilipesero, lo impedirono. Morì dopo un anno, nè gli restò che farsi incidere sul sepolcro l'amara espressione del suo disinganno: “ahimè! in che tempi mi sono imbattuto!„

Non si può dire tuttavia, che la sua fugace apparizione fosse inutile del tutto, perchè quel rinnovato sentimento religioso perdurò, e se anche andò poi confuso e travolto nella grande fiumana della Reazione Cattolica, pure avendo questa innegabilmente riformata in molte parti la Chiesa, se ne deve concludere che quel rinnovato sentimento religioso cooperò non poco a determinare questo movimento di controriforma, quasi ponendo esso alla propria Chiesa questo trilemma, che bisognava o conciliarsi coi Protestanti, o riformarsi, o perire. Un altro coefficiente della Reazione Cattolica, indipendente anch'esso dalla ribellione Tedesca, è il venir meno grado a grado dei primitivi impulsi, che avevano in Italia fatta la grandezza del Rinascimento. L'umanismo, riavuti i classici e dato vita ad un nuovo ideale di cultura, imbozzacchisce nell'erudizione, nel pedantismo accademico, e nell'imitazione. La pittura e la scultura, dopo Michelangelo, declinano nel manierismo. L'architettura s'immobilizza nei tipi fissi del Palladio e del Barozzi. Dopo l'Ariosto, la poesia non dà più guizzo di luce fino al Tasso, ma il Tasso è figlio, suo malgrado, d'altra civiltà e d'altro tempo. Ed ultimo coefficiente della Reazione Cattolica è esso finalmente il consenso, la partecipazione diretta, che l'Italia presta alla Riforma Luterana e Calvinista?

Credo, aver indicati l'anno scorso i limiti di questo consenso e di questa partecipazione; credo (tale almeno era di certo la mia intenzione) di non averli nè scemati, nè ingranditi; credo aver dimostrato soprattutto che una storia della Riforma Protestante in Italia non solo esiste, ma è importantissima, e che negarle il posto che le spetta nello svolgimento del pensiero e della coscienza italiana, è un'intolleranza assurda in sè, incivile, ed irriverente ai martiri eroici e agli esuli venerandi, che il Protestantismo ebbe in Italia; ma contuttociò non si può dire, che, quanto a determinare la grande Reazione Cattolica o Controriforma, che dir vogliate, quest'ultimo coefficiente abbia avuto il valore e l'efficacia degli altri, meno che mai del maggiore di tutti, di quello che, quantunque non unico, sorpassa di gran lunga tutti gli altri, vale a dire della ribellione Protestante Tedesca, che vittoriosa, indomabile, progrediente d'anno in anno, costringe la Chiesa Latina, nonostante tutte le ripugnanze e le resistenze dei Papi e della Curia, nonostante tutte le ambagi della politica, a persuadersi della necessità di opporre una riforma sua propria a quella di Lutero, di Zuinglio e di Calvino per salvare ciò che le resta, riassodare ciò che vacilla, e riguadagnare in tutto o in parte, se possibile, il terreno perduto.

Ad ogni modo il trapasso dall'età del Rinascimento a quella della Reazione Cattolica, quantunque breve, non è a data fissa, senza oscillazioni e senza contrasti. Gli ideali del Rinascimento si vanno oscurando bensì, ma non tutti ugualmente, nè tutti ad un tratto, perchè questi mutamenti a scatto d'orologio nella storia non si danno, ed è già troppo, a mio avviso, assegnare per la sola pittura, ad esempio, il principio della sua decadenza al 1530, come fa il Burckhardt nel suo Cicerone, e non dico nulla del Ruskin, scrittore di grande ingegno, ma critico paradossale e Puritano intrattabile, il quale non si contenta dei fulmini e delle contumelie, che scaglia sulla povera arte, svoltasi poi sotto l'influsso della Reazione Cattolica, ma giudica già una decadenza lo stesso Rinascimento ed un manierista Raffaello!

In quella vece da Paolo III a Clemente VIII occorrono non meno di dodici regni di Papi, quattro dei quali bensì brevissimi o insignificanti, perchè si possa dire spostato il centro del Rinascimento, di cui va via via scemando in Italia ogni spontaneità creatrice, e perchè Roma ridivenga alla sua volta centro d'un altro gran moto, cioè della Reazione Cattolica, e così prevalga ancora nuovamente nel mondo.

Comunque, il termine di tempo è pur sempre cortissimo per così enormi risultamenti, settant'un anni e non più, anche calcolando non dal convegno di Bologna alla fine del secolo XVI, ma dal Papato di Paolo III, durante il quale si avverte appena che il Rinascimento sta per finire, a quello di Clemente VIII, in cui Roma e l'Italia sono talmente mutate da non riconoscerle più per quelle di prima.

Pur troppo il tempo cammina svelto nella eterna Roma, e strani giuochi di fortuna prepara, tanto più sbalorditoi, quanto più Roma vi dà l'ammaliante illusione che il tempo non passi mai e che si possa sempre fare a fidanza con esso!

Ne volete altra prova? Per certo la maggior parte di voi conosce Roma e per conseguenza San Pietro. Or bene, viaggiando colla fantasia, entriamo in San Pietro e nell'abside di fondo fermiamoci a sinistra dinanzi al monumento sepolcrale di Paolo III Farnese. Quella nobile e bellissima figura di Papa barbuto e meditabondo, quelle altre due figure di donna, coricate davanti al sarcofago, l'una vecchia e l'altra giovine, e rappresentanti la Prudenza e la Giustizia, vi dicono, nella loro composta e vigorosa magnificenza, che siamo ancora in piena arte del Rinascimento. Tanto più ve lo dice la tradizione storica, la quale riconosce nell'una di quelle donne il ritratto di Giulia Farnese, la Du Barry dei tempi Borgiani, e nell'altra il ritratto di Giovanna Caetani di Sermoneta, la madre del Papa; curioso accozzo in verità e di una disinvoltura quasi sacrilega in quell'occasione e in quel luogo. — Ora voltiamoci indietro e guardiamo all'altro monumento sepolcrale, che sta di fronte al primo. È il sepolcro di Papa Barberini, Urbano VIII. La testa del Papa col triregno è bella; è anch'esso barbuto, ma non colla barba all'Enrico IV o coi mustacchi alla Wallenstein di altri Papi del secolo XVII. Pur tuttavia quello scheletraccio alato e dorato, che, seduto a sghimbescio su un'urna nera, registra il nome del Papa nel libro dei morti, tutto quello svolazzo e tormento di pieghe nelle vesti, tutti quegli atteggiamenti teatrali, cascanti e manierati delle altre figure, non solo vi dicono che siamo già a tutt'altro tempo, a tutt'altra arte, ma il nome stesso del Papa, che per sua sventura condannò Galileo, che ebbe assai più sentimento di gran principe che di Papa, che, durante la guerra dei Trent'anni, per odio alla grandezza degli Absburgo, badò assai più ai motivi politici che non ai motivi religiosi di quella titanica lotta, vi dice altresì che il tempo della Reazione Cattolica è esso stesso oltrepassato e che il Papato s'incammina già per quella via di sfarzo principesco e di assolutismo monarchico, per la quale fu avviato bensì dalla Reazione Cattolica contro la Riforma Protestante, ma, seguendo la quale, dovrà poi scontrarsi a tutt'altri ostacoli ed a tutt'altre resistenze. Eppure tra l'una e l'altra età, a cui si riferiscono que' due monumenti, tra l'uno e l'altro di quei due Papi, tra Farnese e Barberini, neppure un secolo è corso, ottantanove anni e non più!!

Un singolare destino ebbe Paolo III! Ch'esso sia il vero Papa della transizione fra il Rinascimento e la Reazione Cattolica lo dimostrano dall'un de' lati essere stato fatto cardinale (e per che vie!) da Papa Borgia, essere stato educato all'umanismo nell'Accademia di Pomponio Leto e al gusto dell'arte nella Corte di Lorenzo il Magnifico, aver fatto compire a Michelangelo il Giudizio e voltare la cupola, fatto lavorare il Cellini, edificato il Palazzo Farnese e, non scoraggiato dall'esempio dei Borgia, aver mirato ed essere riescito a fondare un regno ai nipoti, e dall'altro lato aver esso creato cardinali il Sadoleto, il Polo, il Giberti, il Fregoso, il Contarini, il Caraffa, i primi quattro inchinevoli bensì a conciliazione coi Protestanti, ma tutti zelantissimi di una riforma interna della Chiesa, ed il quinto il rappresentante della repressione e della resistenza a tutta possa, aver introdotta in Italia l'Inquisizione spagnuola, approvata la Compagnia di Gesù, la riforma e l'istituzione di altri ordini religiosi, e finalmente avere aperto il Concilio di Trento, con che si può dire che Paolo III, quantunque per indole e per gusti fosse di suo assai mediocremente zelante e appartenesse più al Rinascimento che alla Reazione Cattolica, pure, spinto dalla forza delle circostanze e soprattutto dal risveglio dello spirito religioso manifestatosi nella Chiesa, organizzò sotto il suo pontificato tutti i principali e più formidabili strumenti della Reazione Cattolica.

All'apertura del Concilio però non s'indusse che con la maggior ripugnanza e resistette sinchè potè. Ricordava con terrore gli ultimi quattro: quello di Pisa, che avea deposti due Papi; quello di Costanza, che sotto la presidenza dell'Imperatore avea condannata bensì l'eresia di Giovanni Huss e di Girolamo da Praga, ma s'era poi trasformato in vero tribunale giudicante il Papa e il Papato, avea costretto tre Papi ad abdicare ed accentuata all'estremo la tendenza delle Chiese nazionali ad emanciparsi da Roma mediante i concordati; quello di Basilea, che era stata una vera ribellione alla supremazia dell'autorità Papale; e finalmente il Lateranense, opposto da Giulio II ad una ripresa del vecchio conciliabolo Pisano, e che Leone X avea dovuto con disinvoltura Medicea affrettarsi a chiudere, affinchè non uscisse di carreggiata.

Paolo III quindi resistette, ripeto, sinchè potè, e quando piegò per forza alla deliberata volontà di Carlo V, che già alle prese coi Protestanti di Germania lo imponeva ad ogni patto, traccheggiò ancora, ed il Concilio, dopo infiniti sì e no, convocato a Trento nel 1542, si prorogò al 1543 è in realtà non fu aperto che nel 1545.

Se non che fin dalla prima sessione nè corrispose ai desideri di Carlo V, il quale, benchè Cattolico fervente, vagheggiava qualche mezzo termine, che gli consentisse d'intendersi coi Protestanti e pacificare la Germania, tutta in subbuglio, nè giustificò le timide apprensioni del Papa, se pure anzi non superò ogni sua aspettazione.

Per mia e vostra fortuna, signore, io non posso neppure compendiarvi la storia esteriore del Concilio di Trento, nonchè entrare nel merito delle sue discussioni. Il Concilio di Trento ebbe, come sapete, due grandi storici italiani, l'uno Fra Paolo Sarpi, l'altro, il cardinale Pallavicini, gesuita. Sono due storici classici, ma due storici di partito, e chi si colloca su questo terreno (una trista esperienza ce lo mostra ogni giorno) non può, non vuole nè conoscere, nè dire la verità. Tant'è che queste due storie sono non solamente l'opposto l'una dell'altra, ma il mondo Cristiano è, dice il Ranke, diviso in due nel giudicarle, nello stesso modo che è diviso in due nell'apprezzare pro o contro l'opera del Concilio di Trento.

Certo l'uno, il Sarpi, tira tutto al peggio e interpreta tutto sinistramente, l'altro, il Pallavicini, difende tutto e, scrivendo per confutare il Sarpi, non gli lascia passare una parola, un fatto senza contraddirlo, e dove la verità di ciò che ha scritto il Sarpi salta agli occhi, allora gira largo, o ricorre alle fiorettature, agli sbalzi, ai bagliori incerti dello stile, dei quali gli scrittori del suo Ordine sono sempre stati maestri, e nei quali in Italia purtroppo hanno fatto tanti discepoli.

In buona fede piena non lo sono nessuno dei due, perchè il Sarpi, acceso d'amore per la sua Venezia, che lotta contro le usurpazioni di Roma, detesta la Roma di Paolo V Borghese, quell'orgoglioso, che ha scritto il suo nome di famiglia sul frontone di San Pietro, non meno del Concilio di Trento, che ha costituita Roma qual egli la vede al suo tempo, ed il Pallavicini scrive per commissione del suo Ordine, ch'era stato il grande inspiratore e maneggiatore del Concilio di Trento.

Quanto a me però dico il vero, il Pallavicini lo intendo e me lo spiego. Tutto invece nel Sarpi, tranne il suo patriottismo Veneziano, mi rimane, come ad Edgardo Quinet, un enigma. Il suo libro somiglia al Principe del Machiavelli. Nel Principe, coi fatti della storia alla mano si mostra con che arti si fondi e si mantenga uno Stato in tempi corrotti. Nel libro del Sarpi si mostra con che arti si pretenda riformare una religione, quand'essa ed il tempo sono corrotti del pari.

Se non che il Machiavelli almeno ci avverte che la morale non ha da far nulla coll'arte di Stato, e che la religione sarebbe bensì un grande aiuto, se ci fosse, ma quando non c'è, si fa a meno anche della religione. Il Sarpi invece rimane sacerdote di questa religione; respinto anzi da essa, le rimane fedele a costo anche della vita e tutto ciò nell'atto stesso ch'egli scruta questa religione nelle sue fondamenta, la sorprende in peccato e la denunzia al mondo. Come si spiega questo mistero? Con motivi volgari, no certo, perchè questo povero frate non chiede nulla per sè, non esce mai dal convento, vive povero e virtuoso e muore, augurando soltanto alla sua Venezia di durare eterna. Ma è Protestante il Sarpi? è Cattolico? è un precursore di Portoreale e dei Giansenisti? anticipa puramente i giurisdizionalisti del secolo XVIII? è un precursore dei Vecchi Cattolici odierni? Noi sappiamo i suoi odii, perchè ce li ha detti lui. Delle sue predilezioni conosciamo soltanto quella a Venezia. Il resto è uno dei soliti enigmi del pensiero Italiano, che n'ebbe tanti in quei tempi.

Il Sarpi ha chiamato il Concilio di Trento l'Iliade del suo secolo, denominazione che può avere molti significati e gli è stata molto rimproverata. Considerandolo soltanto sotto l'aspetto umano e storico, mi pare però che sì per la lunga durata, come per l'importanza e le strane vicende, quella denominazione non gli disconvenga del tutto. Si protrasse per quasi ventidue anni, si adunò a intervalli per diciotto anni tre volte, senza contare la sua momentanea traslazione a Bologna nel 1547, fu interrotto da paci, da tregue, da guerre, e quando, dopo inconciliabili discordie fra i Padri stessi del Concilio, parve perduta ogni speranza di tenerlo unito e tirarlo a conclusione, fu appunto allora, che con uno sforzo eroico ed un'arte sopraffina approdò. Dopo di che ognuno giudicò dei risultamenti del Concilio secondo le proprie speranze, le proprie tendenze intellettuali e le proprie aspirazioni religiose, positive o negative che fossero.

A me basta dire che superato il disgusto del veder precorsi in quell'assemblea tutti gli artifizi, i lacciuoli, i giuochetti, i retroscena, le divisioni per gruppi e sottogruppi, le comparse che votano, le infornate che spostano le maggioranze, tutte le macchinette insomma del parlamentarismo moderno, e giudicando il fatto con criterio umano, ma pure ammettendo che i più dei membri del Concilio erano sinceri, dotti e di tutto cuore aspiranti ad una seria riforma della Chiesa, due forze mi sembrano aver prevaluto a far riescire il Concilio come riescì: i Gesuiti, tutta colpa o tutto merito dei quali è la inespugnabile rigidità dottrinale, in cui il Concilio si contenne, e la Corte di Roma, la cui finissima arte diplomatica rese essa sola possibile fra tante difficoltà politiche, che ad ogni poco l'interrompevano, la continuazione e la fine del Concilio.

Corrispose esso alle speranze degli spiriti più temperati fra i dissidenti e dei più elevati fra i Cattolici? Per me dico: no. Altri dirà: sì; e saranno due convinzioni egualmente rispettabili. Certo è che i risultamenti immediati, se si guarda soltanto al fine che ebbe Roma nel riunirlo, furono grandissimi. Determinato cioè per sempre il dogma Cattolico, ristabilita la gerarchia e la disciplina ecclesiastica, tolta la confusione d'idee, che fra gli stessi Cattolici regnava prima del Concilio, arrestate le tendenze centrifughe nazionali, l'autorità Papale riconosciuta superiore ai Concilii e grandemente aumentata, il clero inferiore sottomesso ai Vescovi, scartata ogni novità nel culto, dato al Papato un nuovo carattere, diversissimo da quello che ebbe nel Medio Evo e nel Rinascimento, migliorato coi Seminari il valor morale e intellettuale del clero, disciplinati i Conventi, imbrigliata la stampa coll'Indice.

In tutto questo è il bene e il male del Concilio. Quanto all'Italia, la sua servitù politica era già piena, allorchè il Concilio incominciò. Le si aggiunse ora la piena servitù del pensiero e della coscienza, con tutti i guai che ne conseguono alla civiltà, al carattere ed alla vita d'un popolo, e Roma ebbe fidi e terribili strumenti a quest'opera l'Inquisizione ed i Gesuiti.

Dei cinque Papi, che regnarono durante il Concilio di Trento, tre soli meritano particolare attenzione, Paolo III, Paolo IV e Pio IV. Degli altri due, Giulio III rappresenta una parentesi volgare nella Reazione Cattolica, e Marcello II, che regnò tre settimane, non potè se non dare il suo nome alla famosa Messa, con cui tra le prescrizioni e i divieti del Concilio il Palestrina riescì (e fu un grande trionfo) a portar fuori salva la musica sacra.

Ma notate bene, o signore, a conferma di quanto io vi diceva, che non due Papi zelanti, ma due Papi politici, Paolo III e Pio IV, sono quelli che iniziano e conducono a fine il Concilio.

Paolo IV, che sta fra i due, il fondatore dei Teatini e quegli che da cardinale persuase Paolo III a trapiantare in Roma l'Inquisizione Spagnuola, era troppo fiero e troppo invadente personaggio da sopportare l'aiuto del Concilio, sebbene fosse stato il leader della sua prima sessione, e non sapendo piegarsi neppure alla dominazione Spagnuola, tentò levarsela di dosso, gettandosi con uno scarso aiuto Francese nella più disperata avventura guerresca, che mai si potesse immaginare.

Per sua fortuna Carlo V, stanco e disgustato della sua stessa grandezza, aveva abdicato, e Filippo II, il suo successore Spagnuolo, era un Tiberio bigotto, che al Duca d'Alba, il quale guidava gli Spagnuoli, ordinò di trattare il Papa vinto, come se fosse stato vincitore. Da quel momento il Papa mutò; i nipoti, che avevano fomentate le sue aberrazioni politiche, furono esiliati; Roma, la Corte, la Curia, la Chiesa, la città si trasformarono sotto l'impulso di rigori, quali potea imporli un Paolo IV umiliato e forse pentito; l'Inquisizione in tutta Italia e in Ispagna fece il resto. In queste due nazioni fu quindi soffocata ogni velleità eterodossa, ma in questo tempo medesimo il Cattolicismo perde l'Inghilterra e la Scandinavia; quasi tutta la Germania è divenuta Protestante; la Polonia e l'Ungheria balenano; Ginevra s'atteggia a piccola Roma Protestante, e la Riforma è già in armi e già combatte in Francia e nei Paesi Bassi.

In tali condizioni cominciò a regnare Pio IV. Se non che ebbe un'idea chiara ed ardita: riaprire il Concilio, fidarsi ad esso in apparenza, ma regolarlo lui d'accordo coi Principi, persuadendoli che l'assolutismo Papale e l'assolutismo Monarchico erano l'uno il necessario sostegno dell'altro.

Troppo dovrei dire, se volessi mostrarvi che capolavoro diplomatico sia la condotta di Pio IV col Concilio e colle Potenze Europee in relazione al Concilio; con che mano leggera e vellutata egli sappia toccare tutti i tasti e far loro rendere il suono che gli conviene; come superi, ora cedendo, ora resistendo, ogni difficoltà. Fu aiutato dal cardinale Morone, indole mansueta e quasi timida, ma ferma, intelletto acutissimo, anima onesta e schiettamente religiosa e che, figlio del famoso cancelliere degli Sforza, l'arte diplomatica, si può dire, l'avea nel sangue. Fatto è che a fronte di questi due preti, Filippo II, il Duca d'Alba, Caterina de' Medici, il cardinale di Lorena, Ferdinando I non sono che dilettanti di bassa sfera.

Le discussioni nel Concilio sono tempestose; ogni giorno minaccia di sfasciarsi; e nondimeno tutto sempre ripiglia e finisce dove e come il Papa ha voluto. La satira contemporanea si sfogò a dire che lo Spirito Santo viaggiava in posta da Roma a Trento. Sarebbe stata del pari irriverente, ma più esatta, se avesse detto che da Roma faceva il giro d'Europa e portava a Trento la volontà del Papa, quand'era divenuta la volontà di tutti.

Così il Concilio potè chiudersi; così Roma ricostruì il suo colossale edificio, circondandolo di tali muraglie, appiè delle quali venne ad infrangersi l'onda, fino a quel momento irresistibile, della Riforma Protestante, e da questa rocca Roma uscì di nuovo con un esercito rifatto di entusiasmo, di disciplina e di fede e tutto stretto nella sua mano, come un'unica spada, alla riconquista del mondo.

Non direi il vero, signore, contribuirei anzi colle mie parole a darvi un falso concetto della Reazione Cattolica, se arrecassi tutti i suoi effetti prossimi e remoti a sola arte di regno, a sola finezza diplomatica della Corte di Roma. Ciò che assicura anzi quegli effetti è principalmente il fervore di quel nuovo sentimento religioso, ch'io dissi già ricomparso, quando il Rinascimento incominciava ad allarmare le coscienze più timorate; è una successione di Papi irreprensibili e di una terribile severità, come quella che va da Pio V, Gregorio XIII e Sisto V a Clemente VIII; è un clero presente in ogni dove e dopo il Concilio migliorato d'assai; è l'apparizione quasi simultanea di uomini di una fede ardente, di una carità veramente apostolica, di una abnegazione a tutta prova, quali Ignazio di Lojola, Francesco di Sales, Carlo Borromeo, Filippo Neri, il Calasanzio, il Saverio e tanti altri; è la riforma degli ordini religiosi antichi e la creazione di nuovi, dei quali si contano diciannove dallo scoppio della Rivoluzione Protestante nel 1521 alla pace di Vestfalia nel 1648; è la repressione inesorabile dell'Inquisizione e dell'Indice, che ne è una propaggine, la quale spegne ogni libertà di coscienza e di pensiero; è finalmente la furia di combattimento e di espansione dei Gesuiti. Tutto questo coopera ad un sol fine, obbedisce ad un solo comando, si muove com'un uomo solo, e se confrontate la nostra presente confusione ideale e morale con quella salda e tremenda compagine, sarà il miglior mezzo di convincervi non della nostra debolezza, chè forse non ne avrete bisogno, ma della enorme potenza di quella organizzazione.

Dell'Inquisizione, dico chiaro, mi ripugna a parlare. È un'instituzione abietta ed odiosa fino dai suoi principii, durante il Medio Evo, come ha tanto bene dimostrato di recente e con grande imparzialità un illustre storico Americano, Enrico Carlo Lea, e tale si conservò, anche quando, nel 1542 fu trapiantata in Italia.

Non è così dei Gesuiti. Per quanto è dato discernere il vero fra tanto furore di accuse e di difese, a cui furono fatti segno in ogni tempo, per quanto sembri provato che la Compagnia di Gesù incominciasse a deviare dal proprio instituto quasi subito dopo la morte di Ignazio di Lojola, per quanto sia certo che in progresso di tempo, inebbriata della propria potenza, ricca, intrigante, presente e agitantesi ovunque dalle reggie ai tuguri, ne deviò sempre più, e si corruppe e intristì nella setta; pure ne' suoi primordi, o in relazione almeno al momento storico, di cui ci stiamo occupando, quand'essa cioè incarnava ancora, al pari del Lojola, lo spirito cavalleresco e il misticismo Spagnuolo, l'uno e l'altro fecondati da un ardente ambizione, quando colla più strana mescolanza di pietà, d'abnegazione, di fanatismo, d'astuzia, d'energia selvaggia, senza scrupoli sulla scelta dei mezzi, come senza esitanza, si gettava a corpo perduto nella lotta, quando alla fine del secolo XVI si vedeva già sparsa nelle quattro parti del mondo, dominare in Italia, in Spagna, in Portogallo, guadagnare in Francia un terreno contrastatole palmo a palmo, e serrare da presso in Germania il focolare del Protestantismo da Vienna, da Praga, da Ingolstadt e da Monaco, non possiamo, comunque si pensi, difenderci da un sentimento d'ammirazione per questo audace manipolo d'uomini, che giustamente furono chiamati i Giannizzeri del Papato e della Reazione Cattolica. Esagera bensì il Macaulay attribuendo loro ogni merito d'avere salvato il Cattolicismo, fermati i progressi della Riforma e respintala dai piedi dell'Alpi alle coste del Baltico, perchè si dimenticano così Filippo II, l'Inquisizione, il Concilio di Trento, la Casa d'Austria e quella dei Wasa di Polonia, le grandi forze insomma, senza le quali poco o nulla avrebbero potuto Ignazio di Lojola e la sua milizia.

Non è men vero ad ogni modo che in quel momento, in cui la Chiesa Cattolica si trasforma tutta in una grande missione, i Gesuiti, tipo vero di quella nuova specie di frati, non più puramente ascetici e contemplativi, ma in continuo contatto con la vita, i Gesuiti, operosi, instancabili, sono all'avanguardia della parte più militante, e nel tempo stesso che disfanno il passato, preparano l'avvenire, sottentrando colla loro azione, che sa trasformarsi in mille guise alla libera azione individuale, non per sopprimerla, ma per dominarla e avviarla ai fini soltanto che si propone la Chiesa.

Or eccovi, signore, il grande edificio della Reazione Cattolica compiuto in tutte le sue parti. L'assolutismo Spagnuolo dal 1559 al 1700, dal trattato di Castel Cambrese alla prima guerra di successione, domina quasi tutta l'Italia. L'assolutismo papale, ritempratosi nella Controriforma, stende la sua azione al di là delle Alpi e del mare, ma strettamente unito al dominatore Spagnuolo, fa sentire in Italia più immediata e continua la sua potenza. La quale è in realtà così grande, che con Pio V sembra quasi ridestare lo spirito delle Crociate e oppone ai Turchi una Lega, vincente a Lepanto l'ultima gran battaglia cristiana, e con Sisto V pare non avere più confini ne' suoi sogni d'ambizione e vagheggia un'alleanza colla Persia e la Polonia per abbattere l'Impero Turco, congiungere il Mediterraneo al mar Rosso per restituire il primato marittimo all'Italia, conquistare il Santo Sepolcro, di cui il Tasso cantava la liberazione, e trasportarlo a Montalto, l'umile paesello presso Ascoli, dove Sisto V era nato. Sogni, deliri di potenza, e non più, perchè se l'Italia, sotto la duplice dominazione, da cui è compressa, perde quasi la coscienza dell'esser suo, la Spagna si accascia via via sotto il peso della grandezza in una decadenza irrimediabile, ed il Papato devia, durante il Seicento, dal concetto religioso, che gli avea rifatte le forze, in un concetto sempre più personale ed esclusivamente principesco, che ha bensì nello splendido San Pietro, come ha dimostrato Giacomo Barzellotti, la sua più caratteristica e monumentale espressione, che fonda in Roma bensì col nepotismo finanziario una aristocrazia nuova, ma dischiude al Papato altre lotte, alle quali non potrà più opporre il sentimento, la vigoria e la rinnovata giovinezza di prima, quantunque sia riescito per ora nient'altro che a far di tutti gli Stati Cattolici un istrumento della Chiesa.

Innanzi che incominciasse questa seconda fase della Reazione Cattolica, i Papi e la Corte, Roma e l'Italia, a dar retta almeno a quanto scrive nel 1576 l'ambasciator Veneto, Paolo Tiepolo, erano già divenuti modelli di pietà, d'onesto vivere e di cristiani costumi. Ma c'è da fidarsi del tutto a queste impressioni di viaggiatore? Non v'ha dubbio che un gran mutamento era avvenuto, un gran fervore di sentimento religioso s'era ridestato, ma c'è d'altra parte il terrore, che domina ovunque; c'è l'ombra dell'Inquisizione, che aduggia tutto; c'è il fare accomodante, procacciante, instancabile dei Gesuiti, che s'insinua per tutto; c'è il costume Spagnuolo, tutto cerimonie e sussiego nobilesco, tutto boria e gale di titoli, di privilegi e di pretesi dogmi cavallereschi, che nella vita di Corte accentra ogni ideale delle alte classi e sempre più le separa dal popolo, sfruttato a sangue, e cui non rimane altro conforto, che la rassegnazione consigliatagli da un cappuccino, o altra speranza, che quella della vita eterna, annunziatagli dal campanile della parrocchia; c'è finalmente il vecchio scetticismo pratico Italiano, il quale o combina il di dentro e il di fuori in modo da non aver seccature, e avete la falsità nei caratteri e l'ipocrisia nei rapporti sociali, o non piega e si ribella, e allora avete i martiri, che sfidano la tortura ed il rogo, oppure avete la vita eslege del brigante, frutto indigeno dell'Italia e della Spagna, o la vita, eslege del pari, del signorotto violento, gli Innominati e i Don Rodrighi dei Promessi Sposi.

Questo in pieno Seicento. Prima c'è un tempo d'intervallo, di contrasto spasmodico fra il vecchio e il nuovo e di tale contrasto il tipo e la vittima è Torquato Tasso. Una volta la storia di lui era assai semplice. Un gran poeta innamorato d'una principessa; un tiranno spietato, che lo castiga del suo ardimento collo spedale dei matti, colla carcere, colle beffe dei pedanti e dei cortigiani, e il poeta che muore di sfinimento in un convento di Roma, mentre s'odono di lontano le campane del Campidoglio suonare a festa per la sua coronazione. Ora questa leggenda è sfatata. Non per questo il Tasso è divenuto un felice di questo mondo, ma è infelicissimo per tutt'altre cagioni: perchè non può mettere pace nell'animo suo, nè come uomo nè come poeta, fra i ricordi del Rinascimento e le violenze della Reazione Cattolica; perchè dubita e crede; perchè vorrebbe esser uom libero e la vita di Corte è per lui come certe donne, con le quali non si può vivere nè viver senza di loro; perchè si sente originale e grande e nello stesso tempo indulge e piega per vanità e per paura ai cattivi gusti del tempo; perchè è mistico e sensuale; perchè ha ragione il Carducci di definirlo il solo Cristiano del Rinascimento, come ha ragione il Quinet di definirlo il solo umanista della Reazione Cattolica. Di tutto questo contrasto, che gli avvelena la vita, impazza e muore.

Non più in contrasto fra due tempi, ma in pieno accordo col Seicento, è invece il Marini con la sua vita e con l'opera sua. Si giunge a lui, passando a traverso l'idillio sensuale e musicale dell'Aminta del Tasso e del Pastor fido del Guarini, e la sua intima correlazione col tempo non sta tanto nella goffa e proverbiale esagerazione della forma, quanto e più nel fatto che il suo poema, l'Adone, è il vero poema epico del Seicento, il poema della voluttà sentimentale, dissimulata sotto il velo ipocrita dell'allegoria, il poema della pace, ma dell'ignobile pace dell'Inquisizione, del Gesuitismo e della dominazione Spagnuola. È lui, il Marini, il dittatore universale, nè gli si oppone che il poema eroicomico, la Secchia Rapita del Tassoni, della cui misteriosa ironia l'Inquisizione diffida, ma non sapendo bene da che lato colpirla, processa il poeta per aver regalato alla sua serva un diavoletto chiuso in una boccia d'acqua, che a premerne il tappo sgranava gli occhi e andava su e giù, come se fosse vivo.

Opposizione vana ad ogni modo quella del Tassoni; al pari della satira politica del Boccalini e di qualche nobile accento di Salvator Rosa, poichè il Marini fa scuola e le due caratteristiche del Marinismo, la sentimentalità voluttuosa e lo sforzo della forma, cogli svolazzi, le riprese, i trilli, i gorgheggi variati all'infinito, si rispecchiano nell'architettura barocca del Maderna e del Bernini, artisti grandi, ma compiutamente travolti dalla corrente del loro tempo, e nella scultura e nella pittura, barocche esse pure ed insieme enfaticamente sentimentali, del Maderna e del Bernini stessi e dei Carracci e dei Carracceschi.

L'architettura barocca non ha più leggi nè limiti, neppure di buon senso, nella sua smania decorativa, di cui sono tipo le chiese dei Gesuiti col

grosso angel paffuto,

dice il Carducci,

Che nelle chiese del Gesù stuccate

Su le nubi s'adagia

Su le nubi dorate e inargentate,

Che paion di bambagia,

e sembra presa invero d'una specie di frenesia, anche quando, come spesso in Roma, e soprattutto in San Pietro, riesce pure a intonarsi di qualche guisa, e, se non altro, colla grandiosità, alle belle linee del Rinascimento.

La scultura e la pittura, per lo più di soggetto sacro, non possono più contenersi neppure esse e anche nelle opere migliori, nella Santa Cecilia del Maderna in Trastevere, nella Pietà del Bernini o Berniniesca della Cappella Corsini in Laterano e peggio ancora nella Santa Teresa a Santa Maria della Vittoria, al pari che nelle pitture dei Carracci, di Guido e del Guercino, pare che nulla più basti allo sforzo, alla posa, al gigantesco di questa scultura e di questa pittura, e la divozione diventa delirio, l'estasi agonia, il martirio carnificina.

Letteratura ed arte, le quali dimostrano pur troppo che sotto a tutto questo eccesso di forme, sotto a tutto questo spettacolo esteriore di reazione Cattolica (i cui effetti morali lo Schiller ha con tanta poesia rappresentati nell'ascetismo erotico di Mortimero nella Maria Stuarda) un gran vuoto s'è fatto nel pensiero, nella fantasia e nella coscienza italiana. E con questo vuoto un silenzio di tomba. Restano vive ancora la musica e la scienza: la musica, che è accusata d'aver cullato il sonno degli schiavi e divertito i padroni, ma che sarà il capolavoro artistico del Settecento e ricorderà di nuovo il sacro nome d'Italia all'Europa: la scienza, che rivendica i suoi diritti all'avvenire colle divinazioni e il sacrificio eroico di Giordano Bruno e che con Galileo, umiliato ma non persuaso, intima, misteriosamente minacciosa, alla Reazione Cattolica: “hai vinto sì, ma di troppo!

La vita Italiana nel Seicento

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