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IL PREZZO DEL NOLEGGIO

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Continuavamo a girare in tondo, ci eravamo persi. In realtà l’entrata Bolzano Sud avrebbe dovuto trovarsi proprio di fronte a noi. La mamma studiava la carta, non capiva perché davanti a noi avessimo una collina se la carta mostrava semplicemente una pianura verde: la carta era sbagliata, il territorio era sbagliato, tutto era sbagliato. Tirò giù il finestrino della nostra Giulia 1600 bianca, ma non si vedeva nessuno. Proseguimmo fino all’ingresso del paese di Colterenzio. Mia madre fermò l’auto, ecco finalmente delle persone.

“Non chiedere ai vecchi, raccontano balle”, dissi. Avevo otto anni.

Perché si dicono così tante sciocchezze sull’essere innamorati? Chissà. Essere innamorati è lo stato di aggregazione più faticoso da sopportare. Improvvisamente le parti del mio corpo passavano dallo stato solido a quello gassoso. Sul collo, dove prima c’era la testa, cresceva un palloncino. Perdevo ogni aderenza con il terreno, rischiavo di sollevarmi in aria in qualsiasi istante portato via dal vento. Poi la gravità mi schiacciava di nuovo a terra, non riuscivo più a fare neppure un passo.

Solo una cosa mi rendeva libero: stancare il mio corpo in ogni sua fibra. Il giorno 20 andai in montagna e il 21, il 22, il 23 e il 24 pure. Sempre da solo. Infilavo gli scarponi, uscivo di casa, andavo in bici al bosco più vicino e poi salivo lungo il sentiero. Facevo sempre lo stesso percorso. Non vedevo nulla, né il paesaggio né le piante, né gli animali. Non c’era nulla. Ah, sì, qualcosa c’era: alberi, radici, pietre, detriti, ancora pietre. Le immagini mi restavano impresse nella retina.

Il direttore del club alpino aveva cercato un itinerario che desse soddisfazione. Dalla malga Leiteralm al valico della Hochgangscharte fino al Lago Verde, poi giù alla malga Oberkaseralm e ritorno. Un giro per gente giovane. Anita camminava faticosamente accanto a me, con la treccia al vento. Sotto la canottiera con le spalline si intravvedeva la forma del seno. Non i capezzoli, quelli no. Sullo stretto sentiero non c’era posto per camminare affiancati, così non dovevo parlare. Del tempo avevamo già parlato. Il cielo era azzurro, faceva caldo.

Giungemmo a un tratto di sentiero ripido. A sinistra la parete di roccia, a destra il precipizio. I vecchi erano davanti. Anita si fermò, prese l’acqua dallo zaino e bevve. Ci sedemmo sul bordo del sentiero, con le gambe a penzoloni sull’abisso. Il mio ginocchio sfiorava il suo. Lei si spalmava la crema solare sul naso e sulle guance. Tra le nostre due ginocchia ormai c’era solo un piccolissimo spazio. Feci un nuovo tentativo di mettere la mia coscia contro la sua. Lei non si scansò. Il mio cuore batteva, lo sentivo fino al collo. Respiravo a fatica. “È ripido questo tratto.”

“Sì, molto ripido.”

Ci sono persone che scalano la parete nord delle Tre Cime di Lavaredo senza funi, altre che si immergono fino a cento metri senza ossigeno o saltano dagli aerei e in genere il paracadute si apre. Io misi il braccio attorno alle sue spalle scoperte. La pelle delle spalle di una ragazza di quattordici anni è morbida come le piume di un fenicottero appena nato. O almeno credo. Sentii il sudore scendermi lungo la schiena e poi scorrere sulla fronte, bagnare la camicia sul collo. Proprio là dove sentivo battere il cuore. Accarezzai con le dita la parte superiore del suo braccio. Ora. Potremmo scivolare giù e baciarci mentre moriamo.

Ed ecco i vecchi. Dove siete finiti? Facemmo finta di non sentirli, una, due volte. Ma ormai mio padre si era messo le mani a megafono sulla bocca e stava urlando per la terza volta: “Dove siete?”. Lo scricchiolio dei sassi sotto le sue suole si fece sempre più forte. Balzammo in piedi. Che cosa stavamo facendo? Abbiamo fatto una pausa, abbiamo bevuto e ripreso un po’ di fiato. È abbastanza ripido questo sentiero.

I vecchi brontolarono qualcosa. Alla Hochgangscharte mio padre mi indicò un lago da ammirare. Attorno a noi la roccia si era liberata ormai dai prati e tra le pietre nude il pennacchio bianco faceva di tutto per farsi notare con la sua morbida lanugine.

Al Lago di Latte ci sedemmo sul terreno roccioso. Noi due vicini ma non troppo. Anita mi sussurrò che venerdì aveva intenzione di andare a trovare Lydia. Venerdì. Meno di una settimana per riuscire a procurarmi un motorino partendo da zero. I vecchi studiavano la carta escursionistica. Oltre il Giogo di Quaira si tornava a valle. Ci misero in guardia dai rischi del precipizio: non guardare a destra né a sinistra, fare un passo alla volta, guardare sempre dritto davanti a sé. Come se fosse la prima volta che camminavamo su una cresta stretta.

Nel pomeriggio prendemmo il caffè a Merano. Eravamo seduti sotto gli ombrelloni rossi con il logo bianco di una marca di caffè. Scacciai via una vespa dalla mia Coca Cola, mentre il direttore del club alpino afferrava al volo un giornale dal tavolo accanto e leggeva ad alta voce titoli e brani di articoli. La SVP di Brunico è riuscita a far approvare la costruzione di una nuova strada importante per i contadini che portano il mais e il grano ai mulini. A Caldaro hanno rapinato la banca Raiffeisen, i criminali sono riusciti a fuggire. La banda Baader-Meinhof ha compiuto un attentato con l’esplosivo a Francoforte.

“Ma questi qui non si calmano mai?”, chiese il padre di Anita. Posò il giornale e così iniziai a leggere l’articolo sulla rapina alla banca. Quattro giovani con le calze da donna in testa avevano portato via parecchi milioni di lire. Ce n’era abbastanza per un’intera flotta di motorini.

I vecchi discutevano di assassini e sequestratori. Il padre di Anita si infervorò parlando delle Brigate Rosse. Mio padre replicò che la mafia aveva metodi altrettanto brutali, bastava pensare a John Paul Getty, il nipote del petroliere americano che anni prima era stato rapito a Roma. Solo per avidità, per pura, schifosa avidità.

Non capivo nulla di rapimenti ma ne capivo invece di avidità, della necessità di ottenere qualcosa che ci si vedeva negata dal destino, o dalla propria madre. Quali altri mezzi restavano se non la violenza più brutale? Avevo bisogno del motorino!

Ma il destino era meno spietato di mia madre: mi concesse un rinvio. Anita si ammalò e così utilizzai il tempo guadagnato per dare inizio alla mia carriera criminale. Come primo esercizio rubai la cioccolata dalla cartella di Vio. La mamma la sgridò perché non era nemmeno capace di badare alle sue poche cose. Ma io puntavo già a un obiettivo più grosso. Se mio padre poteva essere un moralista un po’ codardo, io certo non lo ero. Così andai al minimarket Despar e guardai attraverso la vetrina: la cassiera era impegnata, c’erano tre persone in coda. Arrivato all’interno aprii lo zainetto e feci scivolare dentro la refurtiva. Sabine stava rovistando nel cassetto del denaro, io mormorai che non avevo comprato nulla. Lei annuì, lesse i prezzi del burro, del latte e delle uova e li batté alla cassa. Una volta fuori saltai sulla bicicletta e iniziai a pedalare. Il mio bottino erano due matite di durezza 2H.

Il direttore voleva espellermi da scuola, ma il motorino non l’avevo rubato, l’avevo solo preso in prestito. Il mio compagno di banco Michele e Alessandro della terza venivano a scuola con i loro KTM. Non avrei mai preso niente a Michele, eravamo amici. Mi aveva mostrato la moto e spiegato quello che si doveva fare per farla andare: tirare la frizione, dentro la prima, seconda, terza, la quarta in basso. Mi aveva fatto salire, io avevo premuto la frizione, l’avevo lasciata andare, la mia corsa si era spenta nel cortile. Ero come in Easy Rider, il vento rinfrescava il mio animo surriscaldato.

Alessandro invece era uno spaccone, indossava i guanti e pontificava sull’accelerazione della sua moto, un Bomber. I ragazzi lo ascoltavano attentamente, le ragazze avevano il permesso di fare un giro con lui. Non ero io il ladro, ma l’occasione. Il martedì Alessandro aveva lasciato la chiave sul banco nel seminterrato.

Quattro giorni. Quattro dannati giorni volevo tenerlo, poi l’avrei rimesso a posto.

“Suo figlio ha rubato la moto di un suo compagno”, sbraitò il direttore al telefono. Di un compagno che ha impiegato un’ora a mezza per andare a scuola. I suoi genitori avevano risparmiato un anno intero per comprare la moto al figlio.

Papà mi venne a prendere, in auto restammo in silenzio. Mamma invece non tacque. Non l’avevo mai vista così.

Andai in camera mia, lei spalancò la porta prima che potessi renderla a prova di genitore. “La colpa è tutta vostra”, urlai. Mia madre girò i tacchi e se ne andò.

Max Leitner

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