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SEDEVO SU DI UN MASSO

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Il mio ufficio era una stanza spoglia e triste in un vecchio edificio vicino al fiume Isarco, non era più grande di quella di Palermo ma meno torrida. In estate gli addetti alle pulizie mi installavano un grande ventilatore che fendeva l’aria calda con un gran ronzio. E sulla mia scrivania troneggiava una macchina da scrivere a testina rotante.

Entrò Sergio Martinelli, era nei Carabinieri da vent’anni. Figlio d’arte, diceva, già il padre era nella Polizia. Martinelli ricordava perfettamente gli esordi della Mala del Brenta a Venezia. Anche prima avevano ripescato parecchi cadaveri dai canali, ma con l’arrivo dei siciliani le cose avevano preso una piega diversa. Erano più brutali, più spietati e più metodici. I criminali del sud incassavano tangenti come erano soliti fare a casa loro, effettuavano estorsioni, trafficavano in armi e droga. E tutti pagavano e tacevano. Nel frattempo la Mala del Brenta si stava espandendo, si diffondeva verso nord. Gli chiesi se le persone qui subissero estorsioni. Sergio inclinò la testa: non sistematicamente, ma c’era una collaborazione con la criminalità locale. Lasciai cadere un nome e Sergio annuì. Gli domandai come si svolgevano le cose. Sergio mi spiegò che i mafiosi riuscivano a sapere dai loro contatti dove c’era qualcosa da prendere e le informazioni erano passate agli interessati. La contropartita era la solita: una quota del bottino, un piacere qui, un appoggio là. Era un sistema molto comodo per i boss, perché non si esponevano direttamente al pericolo e incassavano lo stesso il denaro.

Era possibile infiltrare qualcuno nell’organizzazione?

“Certo”, rispose Sergio. “Ma non me, ormai mi conoscono. Dev’essere uno più giovane, uno che abbia fegato perché questi tizi sono pericolosi. Non stanno a soppesare tanto i pro e i contro. Se ti scoprono sei morto.”

Chiesi se ci fosse uno disposto a prendersi questa incombenza.

Già il giorno seguente Sergio tornò con un tipo dall’aria risoluta che si chiamava Luigi, masticava chewing gum e si lamentava per il caldo. Accesi quella specie di frullatore, Luigi si sollevò la maglia per farvi entrare l’aria, poi si sedette e chiese una Coca Cola. Sergio andò al distributore automatico e tornò con due bottigliette. Luigi ne vuotò una e si mise l’altra sulla fronte.

Luigi era un pentito, in precedenza aveva fatto parte anche lui della Mala. Gli raccontai di Max e Sergio disse che Max stava preparando qualcosa. Cosa esattamente non si sapeva. Una rapina, questo era certo, forse a una banca o forse a qualcosa di più grosso.

“Devo dargli una dritta?”

“Sì”, risposi io. “Ci ho pensato.”

Luigi si passò di nuovo la bottiglietta di Coca Cola sulla fronte come un rullo: “Un furgone portavalori potrebbe essere un’idea. C’è molto da guadagnare”.

“Come faccio ad agganciarlo?”

Tastai i bicipiti di Luigi e li trovai bisognosi di allenamento, gli consigliai di fare qualche serie con i pesi in palestra. Luigi si mostrò contento, si sarebbe fatto vivo.

Non ebbi più sue notizie per un bel po’, poi una sera mi chiamò. Ci incontrammo a un chiosco di panini fuori città. Io ordinai un würstel e una birra, Luigi costine di maiale con delle salse unte. Mi raccontò della palestra: la gestiva la moglie di Max Leitner, Katharina, una brunetta con gli occhi scuri, il volto ampio e il fisico slanciato. Luigi aveva provato a flirtare con lei, Katharina era stata al gioco. E poi era arrivato Max. Luigi gli aveva portato i saluti di Massimo, avevano cominciato a chiacchierare. Di questo e di quello, di Dio e del mondo e del benedetto denaro e di come veniva trasportato.

“Si fida di te?”

“Sì.” E come a mostrarmi che razza di mafioso fosse, si frugò tra i denti con il dito.

“Non esagerare”, gli dissi indicando l’anello con un teschio che portava all’anulare destro.

“Questo?” Luigi si guardò l’anello come se avesse scoperto proprio in quel momento di averlo al dito. “Me l’ha regalato mia moglie.”

“I nazisti regalavano anelli come questo.”

“I nazisti? Non lo sapevo.”

Preparai l’operazione. Parlai con le unità speciali e richiesi elicotteri e veicoli corazzati, studiai il fascicolo di Max Leitner. Era bello grosso, era il sospettato principale di parecchie rapine a banche, tutte piccole filiali sprovviste di telecamere. Tre uomini facevano irruzione, tutti in tenuta militare e armati fino ai denti. Uno spingeva la borsa sul bancone, tenendo il mitra con la mano destra, gli altri restavano a distanza con le armi spianate e osservavano la situazione. Quando la borsa era piena – una borsa sportiva, senza alcun marchio riconoscibile – i criminali si precipitavano fuori, saltavano su un’auto parcheggiata di fronte all’ingresso e partivano. Nessuno dei vicini aveva mai notato nulla. Nessuno aveva notato l’auto, non risultavano multe per eccesso di velocità.

Da quando in Germania aveva iniziato a imperversare la RAF in molte città erano state montate telecamere nelle piazze e nelle strade pubbliche. Ma i comuni italiani non avevano soldi per congegni tecnici, e se anche li avessero avuti non ci sarebbe stato abbastanza personale per controllare i nastri… e neppure abbastanza prigioni. Qui in Alto Adige c’era il denaro ma non c’era la mafia. Le Brigate Rosse assaltavano le banche per procurarsi il denaro, e in Alto Adige ce n’era da portare via. Il forziere delle Brigate Rosse si stava riempiendo, e non solo quello: molti saltavano sul carro e procedevano in modo allegro e incosciente. Non avevamo nessuna registrazione video, l’unico indizio era la borsa sportiva, rossa o violetta con una striscia bianca, o azzurra o gialla. Non era proprio una striscia, ma un’onda, disse una cassiera e un’altra affermò che la borsa era a tinta unita, azzurra. La palestra non vendeva borse sportive.

Le armi facevano pensare a contatti con la mafia. I mitra non si trovano al supermercato e le armerie locali vendevano solo fucili da caccia. Furono condotte comunque indagini nei negozi, dopotutto ci sono anche gli accessori, fondine, borse. Ma anche questa debole traccia si perse nel nulla.

Invitai Sergio a prendere un caffè e gli domandai della famiglia di Luigi. Sergio fece una smorfia e mormorò qualche cosa su Predappio. Cercai di capire meglio. La famiglia di Luigi aveva il culto del Duce, già da bambini con il padre andavano in pellegrinaggio al suo paese natale e acquistavano i ritratti del dittatore.

Gli raccontai dell’anello. Sergio rimestò la schiuma di latte nel suo caffè. L’anello non significava nulla, disse, lo portavano in tanti, piaceva soprattutto ai motociclisti. Annuii, dissi che sosteneva di aver ricevuto l’anello in regalo da sua moglie. Sergio scosse la testa: sicuramente non dalla moglie, perché Luigi non era sposato. Nessuna restava con lui, le trattava troppo male.

Gli informatori non devono essere per forza simpatici.

Max Leitner

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