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TRADIMENTO

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Fui messo agli arresti domiciliari. Mi andava bene, perché non volevo vedere nessuno. Era solo stupido che non avessi neanche la televisione in camera. Michele ne aveva una e sicuramente anche quel fanfarone di Alessandro. Tutti avevano una televisione in camera, solo io no.

Almeno non dovevo fare i compiti a casa. Ero sospeso dalla scuola fino a quando la situazione non fosse stata chiarita. Cosa c’era poi da chiarire! Mi avrebbero ficcato in prigione, così non avrei più dovuto andare a scuola.

Scrissi una lettera ad Anita, spiegandole che non potevamo vederci perché non potevo uscire.

Due settimane, mi avevano appioppato — due settimane che sembrarono infinite. Mancava poco alla fine della scuola, gli altri andavano a nuotare, andavano allo stagno, sfrecciavano con il motorino, andavano a prendere di nascosto le ragazze dalle amiche, giocavano a pallone. Io invece sedevo nella mia muffosa cameretta e mi giravo i pollici. Mi avevano lasciato solo il giradischi. I Sex Pistols non piacevano ai miei genitori, loro erano del partito della musica classica. Andavano a Verona a vedere l’opera, a sentire strilli da far drizzare i capelli cacciati fuori da donne e uomini sovrappeso vestiti in modo ridicolo. Leggevo i vecchi albi di Asterix o addirittura alcuni comics ancora più vecchi di Superman, riflettevo su come avrei potuto modificare la mia camera. Per esempio gettare la biancheria per terra invece di sistemarla nel cassetto. Dipingere quadri neri. Appendere quadri neri. Appendere altri quadri ancora più neri. Per mangiare avevo il permesso di scendere in soggiorno. Ma io restavo in camera. La mamma allora metteva il piatto davanti alla mia porta, io ne lasciavo lì metà, aspettavo fino a quando il pane non ammuffiva e il salame non si pietrificava ai bordi prima di rimettere quegli orribili resti accanto allo stipite della porta. La mattina in bagno Paolo mi informava sulle novità. Emilio della sua classe era in piena muta della voce, la nostra vicina si era slogata un piede facendo legna, la mamma piangeva perché una delle sue pazienti era morta di cancro alla vescica. Una donna che aveva assistito per anni.

Anita mi rispose per lettera proponendo un nuovo incontro. Io non ci andai. Ci vedemmo a una mostra sulla storia dell’alpinismo a cui mio padre mi aveva costretto ad andare. Lui stava pontificando davanti a una vetrina piena di scarpe chiodate e corde di canapa, Anita si avvicinò da dietro di soppiatto e mi mise le mani sugli occhi. Non vedevo più nulla. Non me l’aspettavo e non mi venne in mente nulla da dire. Così le dissi la verità, che non potevo andare a prenderla perché non avevo il motorino. Mi disse che ero un cretino e se ne andò.

Non arrivarono più né lettere né telefonate. Di domenica andavo a camminare con i vecchi, solo io. Nel giro di poche settimane ero riuscito ad avere tutti contro: genitori, amici, ragazza. Violetta aveva capito che ero stato io a fregarle la cioccolata e fece immediatamente la spia. L’unico che stava dalla mia parte era Paolo. Stava seduto con me in camera per ore, anche se gli parlavo a malapena. Spesso avevo parlato male di lui, ma era un bravo ragazzo. A un certo punto finii per soffocare nel mio stesso silenzio e così sputai fuori tutta questa storia così complicata. Forse la migliore delle sue qualità è che non mi dava mai consigli, si limitava ad ascoltare.

Quattro giorni dopo, di mattina, mia madre era seduta sul mio letto. Balzai su con uno scatto fulmineo e le chiesi furibondo cosa ci facesse lì. Rispose che dovevamo parlare. Paolo le aveva raccontato di Anita. Paolo! Che stronzo! Che sacco di…! Che topo di chiavica! La mamma restò in silenzio fino a quando la mia scorta di tre imprecazioni si fu esaurita. “Tu l’hai offesa”, disse. “Adesso devi riparare.”

“Perché l’ho offesa?”

Sorrise. “Pensi davvero che si sia innamorata di te perché credeva che tu avessi il motorino?”

Sbuffai, deglutii. “Cosa dovrei fare ora?”

“Scrivile una lettera, invitala a prendere un gelato, vai al cinema con lei. E parlale. Dille che ti dispiace. Che è stato stupido abbandonarla, che ora l’hai capito.”

“Non volevo rubare il motorino. Volevo prenderlo in prestito per andare a prendere Anita dalla sua amica e fare un giretto con lei. E poi l’avrei rimesso a posto.”

“Lo so”, disse la mamma.

“Mi credi?”

“Sei mio figlio!”

“Ma tutti dicono che sono un ladro.”

“Non mi interessa cosa dicono tutti. Io ti conosco. Tu non sei un ladro.”

“Mi butteranno fuori dalla scuola e i genitori di Alessandro mi denunceranno.”

Mamma mise la sua mano sulla mia. “Papà sistemerà tutto.”

Mi abbracciò e il suo petto era così morbido e consolante che mi vergognai un po’ e scoppiai a piangere.

Mi accarezzò i capelli. “Non te la prendere con Paolo. Gli chiedevo di te ogni giorno, lo assillavo con le mie domande, lo torchiavo di continuo. Ora ha paura che non gli parlerai più. Lui non è ancora pratico di ragazze. Per questo dovevo parlare io con te.”

Paolo, un bravo ragazzo.

Non so quanto denaro fosse stato versato, in ogni caso nessuno ci mandò via da casa e continuammo a tenere l’Alfa Romeo. E andammo in vacanza al sud, come ogni anno. Ma non spendemmo molto perché eravamo ospiti dei nonni.

Mi toccò tornare a scuola, fare i compiti a casa e promettere una cosa ai miei: non sarei mai salito su un motorino, neppure con uno dei miei amici. E assolutamente mai se avevano bevuto. Troppi ragazzi perdono la vita sulle strade dell’Alto Adige.

Max Leitner

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