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UNA LEGGENDA

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C’erano una volta tre cavalieri. Si chiamavano Osso, Mastrosso e Carcagnosso e vivevano pacificamente in Spagna. Ma un giorno la sorella di uno di loro subì violenza, e i tre cavalieri si vendicarono del colpevole e dovettero fuggire. Salirono su una nave e raggiunsero l’isola di Favignana, dove si nascosero nelle grotte. Gli abitanti dell’estremo sud d’Italia erano poveri, avevano bisogno di cibo, vestiti, alloggio e di qualcuno che li guidasse. Così i tre cavalieri fondarono una società segreta dalle regole rigide. Perché erano uomini d’onore.

La regola più importante era l’omertà. Non rivelare mai niente a nessuno. Se qualcuno non avesse rispettato questa regola, i boss della società segreta avrebbero dovuto ucciderlo. Perché erano uomini d’onore.

Poi ci fu una guerra. I nobili possedevano molte terre. Non potevano sorvegliarle da soli, perciò chiesero ai boss della società segreta di diventare i loro scagnozzi. I piccoli contadini malvagi volevano portare via ai nobili tutti i loro averi. E i boss dovevano ucciderli. Perché erano uomini d’onore.

In quel periodo un fantasma si aggirava per l’Europa e raccoglieva intorno a sé altri spiriti maligni. Volevano rovesciare l’ordine stabilito da Dio. I boss dovettero combattere contro questo fantasma e gli spettri suoi seguaci. Perché erano uomini d’onore.

Così i boss salvaguardarono la moralità. La domenica e a ogni festa comandata andavano in chiesa e pregavano, e quando c’era una processione portavano le teche e le reliquie e mettevano molto denaro nella borsa delle elemosine. Perché erano uomini d’onore.

Più avanti due grandi guerre imperversarono per il paese. Si combatteva in tutto il mondo e di conseguenza gli uomini divennero così poveri che seguivano il fantasma a frotte. Allora i boss dovettero scendere di nuovo in campo contro il fantasma. Perché erano uomini d’onore.

Ma per farlo avevano bisogno di molti soldi. Perciò la società segreta fu costretta a mettersi in affari e iniziò a commerciare con ogni angolo del mondo. I suoi membri commerciavano esseri umani, donne che offrivano i loro servigi amorosi ed erbe officinali che facevano fare alle persone dei sogni piacevoli. E aiutavano anche le persone a trovare fortuna nel gioco. Perché erano uomini d’onore.

I signori del paese erano buoni sovrani. Aiutavano i boss e i boss aiutavano loro. Perché erano uomini d’onore.

Poi però l’accumularsi di queste ricchezze favolose indebolì i sovrani e così incaricarono i giudici di combattere contro i boss. I giudici iniziarono a perseguirli e cercarono di recidere tutti i rami della società segreta. I boss dovevano uccidere questi giudici. Perché erano uomini d’onore.

Oggi si parla molto delle vittime innocenti della mafia, delle persone assassinate da Cosa Nostra, dalla camorra e dalla ’ndrangheta. Ma ci sono anche casi molto meno spettacolari: uno di questi riguarda il sottoscritto. A sei anni fui strappato via dalla calda terra del sud, sradicato e trapiantato nel freddo e inospitale nord.

Mio padre era cresciuto in un paese fuori Napoli. Si dice che ci sia un abisso tra città e campagna, che le persone in campagna avrebbero meno opportunità. Nel paese di mio padre tutti potevano emergere, si provvedeva ad allevare i bambini, istruirli e avviarli al lavoro. Solo i fifoni e gli scansafatiche, quelli che si rifiutavano di imparare il mestiere, avevano dei problemi. Mio padre era uno di questi indolenti. Più tardi sostenne che si sarebbe fatto arrestare persino se a un passante fosse caduto il portafoglio dalla tasca dei pantaloni proprio davanti a lui e gli fosse toccato semplicemente raccoglierlo. Non era proprio tagliato per fare il borseggiatore, il truffatore o l’assassino. Anche a scuola questo suo difetto caratteriale era emerso presto. La sua pagella era tutta piena di dieci, solo di dieci. A casa aveva eretto un muro di libri intorno a sé. Eppure la sua vita non era piacevole, almeno fino a quando i suoi genitori non lo mandarono al liceo a Napoli. Più tardi frequentò l’università, un vero covo di vigliacchi e di falliti. In ogni caso io sono stato concepito laggiù, almeno così si dice. In un’aula universitaria di chirurgia, dove mio padre aveva conosciuto mia madre. Anche se dire che i due fossero andati subito al sodo non è esatto. Si incontrarono spesso, andarono insieme a una festa studentesca ed è allora che accadde. O forse avvenne solo in una delle notti successive, chi può dirlo con precisione?

Questa leggenda, comunque, viene raccontata nella famiglia di mio padre per riabilitarlo. Sua madre era preoccupata che lui potesse essere dell’altra sponda perché – anche se era già alla fine dell’università – non aveva ancora una ragazza. Quando infine mia madre comparve improvvisamente all’orizzonte, si sposarono subito.

Mio padre lavorava in ospedale e lì si trovò di fronte dei vecchi nemici. I quali tutto d’un tratto fecero finta di non averlo mai insultato, maltrattato o addirittura pestato anni addietro nel cortile della scuola o sulla strada per tornare a casa. Fecero a mio padre un’offerta: gli chiesero se poteva togliere a questo o quell’altro simpatico giovane una pallottola dalla pancia, o procurare della morfina dalla farmacia della clinica. Un piccolo gesto per rinsaldare la vecchia amicizia e proteggere la sua famiglia – la graziosa moglie e il principe ereditario.

Mio padre si rifiutò. A un congresso conobbe un collega che aveva un ambulatorio in Alto Adige. Il bonario e un po’ noioso Alto Adige, in cui persino i terroristi avevano una mentalità talmente piccolo-borghese da fare solo danni materiali e da scusarsi prima di far saltare i piloni dell’alta tensione. Nel paese vicino si era liberato proprio allora un ambulatorio. Bieder, piccolo-borghese: il suono di questa parola per lui era evocativo quanto per gli ebrei la Terra Promessa. Non avrebbe più dovuto far rotolare incessantemente la sua pietra come Sisifo. E così poté lasciarsi conquistare dalla sua seconda grande passione, oltre all’essere piccolo-borghese: camminare inutilmente su e giù per le montagne. Ed io con lui. Io, Fabio Pagano, un ragazzetto delle pianure campane abituato ai piaceri della spiaggia, ogni domenica dovevo raggiungere faticosamente la vetta di qualche montagna vestito da perfetto sudtirolese con i pantaloni grigi alla zuava, i calzettoni di lana ruvida, la camicia a quadretti bianchi e rossi e il cappello con il pennacchio di peli di camoscio. E alla fine arrivavamo a un rifugio dove ci ingozzavamo di panini imbottiti di salsiccia di fegato, salamini affumicati chiamati Kaminwurzen e mele dall’aspetto rubicondo e bevevamo acqua pura di fonte. Il cappello con il pennacchio mi rifiutavo di portarlo, una piccola vittoria in questo insulso mare di indegnità.

Dovetti imparare una nuova lingua. Il che è una vera benedizione per il cervello di un bambino, perché si sa che i bambini assimilano tutte le frasi e le parole nuove che passano loro accanto. Solo l’1,27 per cento dei bambini fa fatica a imparare una lingua straniera, ci sono degli studi che lo confermano, mentre solo il 5,32 per cento degli adulti riesce a impararla alla perfezione o quasi.

Nella nostra famiglia solo mio padre rientrava in quella statistica. Ecco perché aveva solo pazienti di lingua italiana. Quelli che si ostinavano a parlare in tedesco li mandava al volo da mia madre, anche se non avevano problemi urologici ma solo i piedi piatti o qualche chiazza sulla pelle.

Arrivò il momento di andare a scuola. Mia madre si rivelò una spietata sostenitrice della stimolazione cognitiva e mi spedì alla scuola elementare di lingua tedesca. Il tedesco lo capivo a malapena, a parlarlo non riuscivo proprio. In classe non avevo nessun amico e restavo in silenzio. Tutto quello che accadeva durante la lezione mi passava davanti come un film muto. In compenso avevo tanto tempo per studiare le preferenze della maestra in fatto di moda. La signorina Linninger era una donna piuttosto anziana e grassa, con i capelli biondi che tendevano a diradarsi. Il suo guardaroba comprendeva due vestiti d’ordinanza per la scuola, uno verde pisello e uno grigio chiaro. Avevano entrambi lo stesso taglio ed erano di lana sottile, cosa molto pratica perché così la signorina Linninger poteva indossarli sia in estate che in inverno. I vestiti avevano il colletto ed erano abbottonati fin sulla pancia. La gonna era cucita alla giacca. Sul davanti i vestiti arrivavano appena sopra il ginocchio, sul dietro erano più corti. Se allora avessi già posseduto le giuste nozioni fisico-matematiche sullo spostamento dei corpi avrei saputo perché era così. I due vestiti avevano un altro vantaggio non da poco: la signorina Linninger poteva anche spiegazzarli, ma nonostante questo mantenevano sempre la loro forma. Insomma, li sfruttava per bene.

Nei giorni di festa grande la signorina Linninger portava un abito di colore beige. In effetti era una mise alquanto particolare, perché la gonna e la giacchetta erano elementi separati. Anche se la lunghezza della gonna non era diversa dal solito: davanti sopra il ginocchio, dietro fino a metà della coscia.

Una di queste feste era il giorno della distribuzione delle pagelle. Una come quella di Fabio Pagano la maestra non l’aveva mai consegnata. Era piena in gran parte di brutti voti – in una scuola elementare! La mamma si precipitò con la pagella dalla maestra e quest’ultima disse che poteva darmi solo degli uno e dei due perché non aprivo mai bocca e mi limitavo a copiare dalla lavagna in modo meccanico; di capire non se ne parlava neppure. Solo in aritmetica riuscivo a tenere il passo con gli altri bambini, ecco perché nella mia pagella spiccava un luminoso dieci.

La mamma mi trascinò da uno psichiatra, il quale constatò che non sapevo il tedesco perché non aprivo bocca. Nella mia infanzia la storia dell’uovo e della gallina non era pura teoria. Mia madre minacciò di chiudere l’ambulatorio e di fare esercizi con me tutto il giorno. Io restavo imperturbabile, non dicevo una parola.

In tutta la scuola c’era un solo bambino i cui risultati scolastici erano scarsi come i miei. Era due classi avanti a me e si chiamava Max Leitner. Già allora si rifiutava di collaborare con le autorità. A quell’età l’unica autorità con cui avevamo a che fare era quella scolastica ed era a quella che lui si ribellava. Marinò la scuola così tante volte che alla fine fu trasferito a Cesenatico. Cesenatico! Una città di mare. Ogni giorno sole, spiaggia, bagni, conchiglie da raccogliere. E soprattutto poter parlare, con chiunque capiti a tiro. Feci di tutto per poter andare a Cesenatico ma a nessuno veniva in mente di mandarmi laggiù. In compenso nella mia cameretta si accumulavano i fogli con gli esercizi e i libri: “Impariamo il tedesco con Hansi e Petzi”. Se facevo bene i compiti ero ricompensato con un vasetto di miele dall’orsetto Petzi o con delle carote dal coniglietto Hansi. E dovevo incollarle su un quaderno.

Raccolsi tante carote di carta e così per qualche domenica ebbi il permesso di restare a casa a guardare la televisione. Quando persino mia madre si rese conto che invece di un piccolo Einstein stavo diventando un analfabeta mi tirò fuori dai guai. Potei passare alla scuola in lingua italiana. In tedesco ero persino il migliore. È una lingua complicata e poco affascinante che solo in seguito mi è diventata utile.

Max Leitner

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