Читать книгу Max Leitner - Clementine Skorpil - Страница 16

TARDA ESTATE

Оглавление

Cosa ci fa Max in un carcere austriaco? Dopotutto è italiano, lui appartiene all’Italia, all’Alto Adige. Adesso Kathi può venire a trovarlo con Julia. Erano arrivate a Innsbruck quando Max era ancora in ospedale. L’avevano portato lì con l’elicottero. Pensavano che non se ne sarebbe neppure accorto, tanto gravi erano le sue ferite. Invece se ne era accorto. Era disteso nell’angusta cabina del velivolo, legato stretto a una barella, con la maschera dell’ossigeno sulla bocca. A volte perdeva coscienza, poi tornava in sé e si assopiva di nuovo. Qualcuno impartiva degli ordini. E poi c’erano delle luci sopra di lui, tubi al neon su soffitti bianchi che passavano veloci come le strisce sull’asfalto di un’autostrada. Quando la luce si era accesa di nuovo era sdraiato in un letto con le sponde laterali alzate. Gli facevano iniezioni e flebo, gli cambiavano le bende e le tagliavano intorno a lui, ma lui non se ne accorgeva. Più tardi, una volta estratti i proiettili e diradate le nubi dei dolori e delle pastiglie, era arrivato il maggiore Müller, si era seduto accanto al suo letto e l’aveva tempestato di domande: svolgimento degli eventi, pianificazione, deposito delle armi. Max non aveva risposto, erano arrivati i dottori a medicarlo, poi il maggiore si era seduto di nuovo vicino a lui ed erano andati avanti così a lungo: medicazione, interrogatorio, medicazione, interrogatorio… Perché ha sparato a un poliziotto? Max aveva risposto di non avere sparato.

Poi alla fine erano arrivate le visite. Prima Kathi, poi i suoi genitori. La mamma l’aveva rimproverato. Perché gli diceva queste cose? A Max erano venute le lacrime agli occhi e allora lei l’aveva piantata con le ramanzine. Alla fine si era seduta molto vicina a lui e gli aveva preso la mano, quella sana. Gli aveva sussurrato che sarebbe andato tutto bene. Alla fine – questo i giudici l’avrebbero considerato – non era un cattivo ragazzo. Non era una persona malvagia o un assassino, era solo un rapinatore. Max le aveva chiesto come andasse a casa. Oh Gesù, a casa! Giornalisti ogni giorno. Della televisione, dei giornali. Vogliono sapere tutti com’è andata. Tutta Bressanone è in subbuglio, tutti si informano su Max. Oh, non ci crede nessuno! Max ha assaltato un furgone portavalori? Lui? Ma va’, impossibile, sarà uno scambio di persona. Max va a messa tutte le domeniche, Max aiuta gli anziani e i deboli. Max lascia i poveri diavoli allenarsi gratis nella sua palestra perché non si facciano venire strane idee, non può essere stato proprio lui. È tutto vero. Lui va in chiesa ogni domenica, nella chiesa parrocchiale della parte alta del paese, quella con il campanile a punta e la Madre di Dio sul piccolo altare laterale con il panno ricamato: Maria piena di misericordia, io ti ringrazio. Qualche volta scende in città, si siede nella chiesa grande e ascolta la predica del vescovo. Dopo la messa va nel chiostro a destra dell’entrata, passa di fianco al bassorilievo con i vescovi sulla parete e arriva davanti agli affreschi pieni di colori. Si ferma di fronte all’immagine del presepio e guarda in su verso la Madonna con in braccio Gesù Bambino. Di fronte a entrambi sta inginocchiato un re che ha portato in dono l’incenso, dietro ci sono gli altri re magi che stanno per consegnare i loro doni. Ma la Madonna non è felice. Lei sa già che il bambino si allontanerà da lei, che le verrà sottratto. Persino il bue e l’asinello in piedi sotto il tetto di paglia pieno di buchi lo sanno: le cose non finiranno bene.

Max era stato operato due volte, alla coscia e al ginocchio. I colpi di striscio sulla schiena erano guariti da soli, la mano invece era rimasta simile a una zampa, curva e deforme.

Dopo le operazioni era rimasto a letto e solo raramente gli avevano dato delle pastiglie. Le pastiglie lo annebbiavano, Max dormiva per gran parte del tempo e quando non dormiva sentiva la rabbia nello stomaco, come un grumo acido e compatto. Come accadeva anni addietro a Cesenatico quando le suore lo rinchiudevano e non vedeva il sole per giorni interi.

Poi da un giorno all’altro era cambiato tutto. Il viceprimario era venuto tre volte al suo capezzale e gli aveva chiesto come stesse. Gli avevano dato gli antidolorifici tutte le volte che voleva. L’avevano operato ancora, questa volta bene, e una fisioterapista gli aveva massaggiato le gambe e le braccia e spiegato gli esercizi da fare. Era ora, aveva pensato Max. Poi aveva fatto una telefonata in Italia: è finita, stanno seguendo le tracce. Lo riferirò, aveva detto uno che si chiamava Massimo. Max non aveva parlato direttamente con il boss. Non dal carcere, non al telefono. Ma la cosa importante era che i ragazzi non l’avevano dimenticato.

Il detenuto che avevano messo a spingere Max sulla sedia a rotelle si chiamava Michael. Era un misero borseggiatore, l’avevano beccato per la terza volta. Michael l’aveva portato allo spaccio dell’ospedale, lì c’erano vari generi commestibili e Max aveva comprato speck, salamini affumicati, pane e acqua minerale. Mangiare tiene insieme il corpo e lo spirito, si dice.

Davanti alla sua cella aveva trovato degli agenti, dentro era seduto Franco. Max gli aveva dato una pacca amichevole sulla schiena, aveva fatto un cenno verso i tizi in corridoio e aveva alzato gli occhi al cielo. Chi ha paura dell’uomo nero? Franco. Lui aveva paura di tutto e di tutti. Nessuno sapeva l’italiano, Franco si esprimeva a malapena in tedesco e parlava solo con Max. Se si incontravano in corridoio Franco si girava tre volte per vedere se ci fosse qualcuno dietro di lui. I suoi bulbi oculari vagavano a destra e a sinistra, sembrava Buster Keaton in un vecchio film muto. Parlava in modo precipitoso e sconnesso. Una sera stavano seduti nella cella di Max, Franco fumava, aveva spento la sigaretta, aveva preso la successiva dal pacchetto e ci aveva guardato dentro, ne erano rimaste solo due. Max gli aveva messo la sua manona sulla mano. “Guardami”, aveva detto. “Mi è andata male, ma starò di nuovo bene. Non resteremo in carcere. Devi essere contento di non sapere il tedesco, quando ti interrogano sono costretti a prendere sempre un interprete e gli costa dei soldi. Si stuferanno presto!”

Franco non gli credeva. Camminava strascicando i piedi e tenendo le spalle basse, con la testa ritratta come una tartaruga che si rifugia dentro la corazza. Max lo guardava. Fausto si faceva vedere più raramente, avevano preso anche lui. Tutta la sua banda annientata in un colpo solo, erano rimasti solo tre cacasotto e uno storpio.

Max aveva presentato domanda per essere trasferito in Italia. Si era fatto vivo il maggiore Müller: nessuna agevolazione senza qualcosa in cambio.

“Che cosa volete in cambio?”

“Dove avete nascosto le armi? Dove avete depositato l’esplosivo?”

Max si era rifiutato di deporre.

Michael, quello che lo spinge, era entrato nella cella di Max con un amico, un tizio con le spalle larghe, gli occhi azzurri come l’acqua e la testa pelata. Il tipo si era seduto sul letto, aveva dato una pacca sulle spalle a Max, gli aveva detto che era un ragazzo straordinario, poi aveva raccontato di essere dentro per una rapina in banca. Max aveva dato un morso a un salamino duro e sottile. Con un coltello avrebbe potuto tagliarlo a fettine ma non ci sono coltelli in prigione, non si può tenere neppure un temperino. L’uomo continuava a blaterare, raccontava di uno che aveva violentato una donna e aveva tagliato la corda. Dal reparto dell’ospedale, diceva il pelato, si può scappare in qualsiasi momento perché lì non ci sono inferriate alle finestre ma solo pali di cemento. Si possono allargare con un attrezzo a vite. E dove posso prenderlo, aveva domandato Max.

“Lo si può comprare”, era stata la risposta del pelato. “Ne fanno uno di questo tipo nell’officina metallurgica. Bisogna parlare con i detenuti. Però costa…” Il pelato aveva strofinato insieme pollice, indice e medio.

A cena c’erano zuppa di patate e salsiccia con piselli e carote.

Max aveva spedito in officina Michael, che era tornato con un certo Christian. Quest’ultimo si era annotato tutto quello che serviva.

Max è seduto sulla sedia a rotelle e fissa il cielo di fuori. È di un azzurro intenso, non ci sono nuvole, solo una luce forte. In questi giorni è ancora più inquieto del solito, non riesce a tenere ferme le gambe; dondola le ginocchia avanti e indietro, si alza e si abbassa come se dovesse segnalare che è ancora in vita all’“uomo morto”, quel dispositivo che usano i macchinisti. Intanto il treno corre senza sosta e Max non può fermarlo, ormai è partito da un pezzo. Ma nella direzione sbagliata. Dietro di lui c’è la libertà, davanti una detenzione interminabile. “Rapina a mano armata con sparatoria, per una faccenda del genere ti becchi quindici anni”, gli ha detto il maggiore Müller.

Quindici anni. Quando uscirà sarà vecchio, impotente, senza denti e con i capelli grigi. Quindici anni. Max avrà quasi cinquant’anni.

Il congegno a vite avrebbe funzionato? Prima che Max potesse applicarlo ai pilastri di cemento gliel’avevano scoperto sotto il materasso. Era finito in isolamento. Dal reparto dell’ospedale alla cella di isolamento, completamente solo: intorno a lui nient’altro che muri e una minuscola finestra con un’inferriata. Non poter parlare con nessuno per tutto il giorno, fissare il soffitto, essere felice quando una mosca entra per sbaglio nella cella o un ragno tesse la sua tela. Che vivacità, aveva scritto Theodor Storm. Ma Max ha avuto modo di leggerlo solo dopo, quando un detenuto qui a Stein gli ha regalato il libro. Poi Max è andato in biblioteca e ha cercato altri libri di Storm. Ma non li avevano e allora ne ha preso un altro, uno più lungo di Stifter. “Tarda estate” si intitolava, e Max era contento che avesse così tante pagine. Ma poi la felicità è terminata, in “Tarda estate” non accadeva niente. Proprio come qui in carcere, dove non accade mai niente.

Max Leitner

Подняться наверх