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PARTE PRIMA
Daria
IX

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Quella macchia bianca mi rimase negli occhi. Quella macchia bianca, senza nè forma nè sostanza, molto vaga e mobilissima, correva innanzi a me mentre andavo strisciando contro i muri, per vie buie e strette, senza veder nulla se non quella macchia bianca che saltava nell'ombra. Dovunque volgessi lo sguardo, la ritrovavo; sul marciapiede, sulle case, vicina e lontana, sempre egualmente mobile e bianca. Chiudevo gli occhi ed essa si rifugiava tra le pupille e le palpebre; e non potevo in nessun modo liberarmene. A un tratto urtai contro un corpo duro e provai un acuto dolore alla fronte. Toccai, e la mia mano si sporcò di sangue; sentii una goccia calda scendermi dalla fronte sul viso. Col fazzoletto premetti la ferita e continuai a camminare. Mi pareva di udire un suono di banda lontano ma molto distinto, una fanfara marziale, con prevalenza di trombe, di tamburi e di piatti, al cui ritmo cercavo di misurare il mio passo. Non sapevo dove andare. La testa mi doleva, e pensavo: – Questa cravatta, questa maledetta cravatta mi soffoca… Finalmente, dietro un arco, vidi una luce scialba nel buio, una porta illuminata. Dall'osteria non usciva nessuna voce, nessun rumore. Spinsi la porta ed entrai. L'oste stava seduto in fondo, dietro il banco, tra le bottiglie e i caratelli. Mi guardò (era guercio) e non si mosse. Io mi sedetti a un tavolo, battei il pugno due o tre volte, e gridai che mi portasse da bere. Egli si alzò, mi portò il boccale e il gotto, e rimase appoggiato all'altra sponda del tavolo, a guardarmi. Mi sembrava che il suo viso giallo e gonfio fosse liscio come una zucca, e che quell'unico occhio, umidiccio e peloso come un ombelico, gli si aprisse in mezzo alla fronte. Quell'occhio mi stizzì a tal punto che, per non vederlo, gli voltai le spalle. Poi inzuppai nel boccale il fazzoletto e incominciai a inumidire la mia ferita.

– Se mai un po' d'aceto, signore, – disse l'oste. – Il vino non serve…

Aveva la voce di una chitarra, di una chitarra fessa.

– Va bene! – gridai inviperito. – Che te ne importa?

Egli se ne tornò dietro il banco, a rintanarsi fra le botti. Il mio dolore cresceva. Se per poco cercavo di dirigere la mia attenzione sopra una qualunque delle cose che avevo intorno, subito rivedevo quella macchia bianca, bianca e inafferrabile, e il mio tormento cresceva tanto da non poterlo più sopportare.

– Ho la faccia sporca di sangue, – pensavo, – ma che importa? Non è questo che mi tormenta. Anche i Ciclopi avevano sangue rosso (rosso o azzurro?) e un occhio in mezzo alla fronte. Erano come scimmie bianche, gigantesche scimmie pelate, i Ciclopi. Ma che importano ora i Ciclopi?

Improvvisamente un colpo di vento sparpagliò questi pensieri sconnessi, mi ricordai e scoppiai in singhiozzi. Piangevo, e tutto ciò che non volevo ricordare mi ritornò alla memoria, e vidi ogni cosa come era avvenuta. – Daria! Daria! – urlavo in me stesso, e pareva che avessi una voce tonante e assordante, una voce immensa. – Daria! – e non sapevo trovare se non questa parola unica, questa parola fatata, e ripeterla in me stesso fino a stordirmi, fino al punto di non comprenderla più. Non sentivo ormai nessun male alla fronte. Il male era tutto dentro, una piaga dolorante e spasimante al posto del cuore, un coltello che mi colpiva, senza tregua, sempre al cuore. In tanta angoscia a volte pareva che la mia vita intera si arrestasse, e l'anima rimaneva sospesa, come sul punto di abbandonarmi.

Infine l'oste si mosse e mi battè sulla spalla.

– Ora basta, – disse. – Ora si chiude e andiamo via.

– Andiamo via? – balbettai. – Ma dove, dove andiamo?

Egli sogghignò. S'era messo un berrettone nero in capo e una sciarpa intorno al collo.

– Queste disperazioni io le conosco! – disse mentre mi alzavo. – Per pochi soldi qualcuna te le farà passare.

Mi sbattè la porta dietro le spalle ed io ricominciai a camminare a caso. Con un certo sforzo compresi che di fronte a me stava il mare e che quella striscia d'argento, interminabile, era la luna sull'acqua, e che quel rumore fastidioso era appunto il rumore dell'onda. La luna fendeva le nuvole grige di perla. – Bum! bum! scioc scioc! cu cu! bau bau! – e di scoglio in scoglio mille grida confuse, lugubri, beffarde, si propagavano con lunghi echi.

– Mi ucciderò! – dissi. – Perchè non uccidersi? È molto semplice, molto facile…

Il desiderio di morire era così forte che già mi pareva d'esser morto e di vedere ogni cosa da lungi, dall'alto di un monte, di una montagna altissima tra le nuvole. Giunsi fino all'estremo limite della spiaggia; poi mi volsi e rapidamente me ne tornai a casa.

Nella mia stanza c'era qualcuno che russava. Era buia, ma nella penombra scorsi una forma umana sul letto: un uomo vestito che russava. Accesi un lume. Sterpoli stava placidamente disteso e addormentato sul mio letto.

– Sterpoli! – gridai afferrandolo per un braccio.

Egli scosse il capo, sospirò, si volse sopra un fianco, senza aprire gli occhi.

– Sterpoli! – gli urlai in un orecchio. – Svegliati!

Allora egli tentò di rizzarsi su un gomito. Ma ricadde subito e cominciò a mugolare:

– No, non voglio… Per amor di Dio… Bambola… Un po' d'acqua. M'è rimasta una lisca in gola…

– Che lisca! – esclamai. – Sono io!

Sterpoli schiuse finalmente gli occhi e si guardò intorno stupidamente. Si toccò la fronte e poi rise, d'un riso idiota idiota, da ubriaco.

– Ah! ah! sei tu? – disse. – Sì, sì, mi ricordo. Ma lei dov'è andata? Mi scappa sempre, quel demonio! Non sta ferma un minuto.

Si mise a sedere sulla sponda del letto e mi fissò attentamente, a lungo, perplesso.

– Scusa, – disse poi, – non ti avevo riconosciuto. Ora ti vedo… Sei tu.

Tese la mano verso di me e ammiccando soggiunse:

– Anche tu hai bevuto. Ti si vede il vino rosso, sulla faccia. E che vuol dire? Si beve. Ma perchè si beve? È chiaro. Si beve perchè si ha sete, molta sete, sempre sete. Tu le dici: – Su via, amore, sii buona. Dammi un bacio, un bel bacio… Porgi la bocca e senti che non c'è niente; non trovi mai niente con la bocca. Dici: – Perchè dunque non vuoi darmi nemmeno un bacio? Sii ragionevole, trottola. Tutti abbiamo diritto di vivere. Non è vero? Ora, che c'è di male se certi uomini hanno un cuor tenero, un cuore di burro? E che c'è di male in un bacio? E lei ride e ti risponde: – Va là, allontanati. Non mi voglio sporcare. Allora è quando si cerca la bottiglia e si beve. Sì, fratello mio: questo ci consola…

Io l'ascoltavo. M'ero seduto accanto a lui, sul letto, rassegnato ad ascoltarlo.

– Fratello, fratello mio… – continuò prendendomi una mano e stringendola fra le sue, – io ti volevo domandare qualche cosa di molto importante. Sono venuto proprio per rivolgerti una domanda. Ho detto fra me: – Quel ragazzo m'ha l'aria di uno che può illuminarmi con un consiglio leale. – E ti ho aspettato. Ora ti domando: – Perchè noi ci consoliamo così presto? Un po' di vino basta dunque davvero? Ah! quanto mi addolora! Tu non sai quanto mi affligga questo pensiero sciocco che un po' di ebbrezza basti per consolarci. Vogliamo forse essere consolati dal vino? No! No, noi non chiediamo queste consolazioni. Tu dici: – No, Sterpoli, ciò ci lascia indifferenti. Ed io ti rispondo che è vero, e che noi non vogliamo consolarci. Noi vogliamo godere. Noi vogliamo amare. Noi vogliamo che quando le diciamo, supplichevoli: – Su, amor mio, mia vita, dammi un bacio! – ella risponda con un bacio. E che questo bacio non mentisca; che ella non pensi, mentre tu senti che in realtà un bacio s'è posato sulla tua bocca, un bacio tepido come una colomba, non pensi: – Contentiamo questa bestia, questo animale cornuto. Noi vogliamo essere amati, fratello, teneramente, appassionatamente, come fanciulli, come malati, come moribondi. Godere dell'amore. Che cosa importa tutto il resto? Che cosa può darci il vino? Il nostro cuore è frollo, delicato, sensibile, dolce come lo zucchero. Perchè esse ce lo rendono duro e amaro, duro e malvagio? E anche questo volevo sapere: perchè amiamo? E che cosa si aspetta da queste femminucce color di cera, da questi piccoli serpenti dorati?

Egli parlava e mi guardava teneramente con occhi semispenti, ma pieni di lacrime.

– È vero… – sospirai, – hai ragione. Non sai quello che dici, ma Dio in persona ti suggerisce.

– Quale Dio? – domandò Sterpoli, aggrottando le sopracciglia. – No, non può essere.

Tacque e scosse il capo. Strinse più forte la mia mano e mormorò:

– Ora ti dirò tutto. Non spaventarti. Non mi insultare. Abbi pietà di me. Sento qualcosa qui, nel petto, che gira. Non è il cuore. Sento anche il cuore. È un'altra cosa. Ora, io non posso sopportare… Questo peso, questo enorme peso, non posso reggerlo tutto da solo. Ascolta. Mi aveva detto: – Da questa sera sarò tua. Sarò per te. Non amo che te. Tu non lo sai, ma io ti ho sempre amato, così, in segreto. Lippi! Non ti pare un nome dolce, un nome amorevole? Un nome da innamorato, da amante? Ebbene: da questa sera sarò tua. Tutto il male sarà compensato. Tu sarai felice. Mi ha detto così ed io l'ho aspettata un'ora, due ore, quattro ore. Pensavo: – Verrà. Fra poco, prima che io abbia contato fino a cinquanta, fino a cento, sarà qui. Avevo preparato un piatto di dolci, un mazzo di fiori, una bottiglia di vino leggiero. Non per consolarmi, ma per goderlo con lei, tutti e due insieme. E, a sera inoltrata, quando attendevo e speravo ancora, quella vecchia maledetta è venuta e mi ha detto: – È inutile che tu aspetti. – Come? esclamo. Non viene? – No, dice, non viene. Non verrà. – Ma dove, dove è andata? La vecchia sogghigna e risponde: – Non so. Certo non è andata lontano. – Per la tua vita! grido torcendomi le mani. O mi dici dov'è, o ti uccido! Allora impaurita balbetta: – Da Clauss… È andata da Clauss! – Basta! Io son cieco d'ira e afferro tutto ciò che mi capita fra le mani e tutto riduco in frantumi.

Sterpoli si arrestò ansante.

– Comprendi? – mi domandò.

– Comprendo, – mormorai. – È vero. Erano insieme. Si sono baciati. Li ho veduti con i miei occhi…

– Tu! – esclamò Sterpoli. – Anche tu?

– Anch'io…

Il perduto amore

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