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PARTE PRIMA
Daria
XII

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A traverso le tende semichiuse filtrava una luce scolorata e falsa: era come una mano fredda che mi sfiorasse le palpebre. Stavo disteso sul letto, con gli occhi socchiusi, senza muovermi. Quella luce non mi cagionava nessuna maraviglia, nè il fatto di esser disteso sul letto, vestito, nè il fatto di esser desto, nè le rose gialle e spampanate sulle pareti con certi lor gambi intrecciati e irti di spine, nè gli abiti appesi in un angolo come impiccati. Bensì cercavo di spiegarmi che cosa fosse una macchia nera che vedevo a piè del letto, un groviglio nero da cui uscivano, non si sa come, due, due mani… Sì… Vedevo che erano due mani, due mani lunghe e pelose, con strani luccichii sulle dita; e la loro positura era così stravagante che ora pareva chiedessero un'elemosina e ora offrissero un'invisibile offerta, e ora non offrissero e non chiedessero nulla, ma fossero là, abbandonate e senza vita, estranee a qualunque corpo di uomo di donna. Immobilità. Ed io non riuscivo a comprendere. In quel viluppo nero, vicino a quelle mani, si scorgeva anche una macchia rossiccia, come un involto di carta rossa: la testa fulva di Sterpoli. Ma proprio non riuscivo a trovare un cominciamento in quel garbuglio di cose, non una fine, e nemmeno un ordine qualsiasi che me ne spiegasse la natura. Sapevo che avrei potuto alzarmi e toccare, frugare, trovare ciò che cercavo. Ma mi pareva di non potermi muovere senza turbare la gran pace che, coricato, riposava con me. E poi c'era qualche cosa, non so quale, che continuamente mi distraeva e mi svagava, deviando i miei sensi mal desti. Ora erano gli abiti appesi al muro, quelle gambe e quelle braccia vuote e pendule, quelle ridicole membra di stracci; ora una rosa purpurea che vedevo sul mio petto e che pareva una bella macchia di sangue. Che cos'era quella rosa? Chi me l'aveva appuntata sul petto? O meglio: chi mi aveva fatto quella bella ferita? Ecco: io non riuscivo a comprendere, e di nuovo i miei occhi si posavano su quel mucchio di cose immobili a piè del letto, su quella macchia fulva, e su quelle mani, su quelle due mani abbandonate. Una voce interna mi diceva: – Tu devi esser felice. Ed io, con la stessa voce, rispondevo: – Sono, sono felice. E ancora: – Tu volevi morire. Ed io: – Sì, è vero, volevo morire. E c'era un nodo stretto nel mio cervello, che non si voleva sciogliere; c'era un fiore chiuso che non si voleva aprire; intorno al quale i miei pensieri vaghi, incerti, s'aggiravano come farfalle…

Così vissi. A lungo, a lungo, nere farfalle si aggirarono intorno a quel fiore chiuso.

Il perduto amore

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