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PARTE PRIMA
Daria
VII

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Non so perchè gli angioli che si vedono negli antichi pittori e quelli che si librano sulle loro grandi ali variopinte, le pieghe dei camici piene di vento, sotto le grandi cupole delle chiese, abbiano tutti sembianze femminee, lunghi riccioli bene inanellati, e negli occhi un'amorosa luce. Noi le contempliamo da fanciulli, con vergine maraviglia, quelle incantevoli immagini, e ci insegnano ad adorarle, perchè sono la bellezza, la purità, l'amorosa musica del cielo. La nostra infantile fantasia, dipingendo poi di sogni la terra, scopre nel viso di nostra madre, in quel volto giovine e bello che si curva sopra di noi ogni sera a chiuderci con un bacio le palpebre al sonno, che ci veglia amoroso quando l'incubo ci desta improvvisamente in piena notte e il buio e la solitudine sono come un baratro che ci riempie di spavento, o quando, malati, la febbre suscita sinistri fantasmi da ogni angolo della stanza, la nostra fantasia scopre tratti di somiglianza con quelle soavi immagini di paradiso, lo stesso candore, una grazia uguale, una dolcezza altrettanto soave e serena per cui quel caro volto altro non è che angelico. Così la bellezza, il candore, la pietà, l'amore sono e rimangono per noi definitivamente tanti attributi della femminilità, che fanno di ogni donna, ai nostri occhi, una creatura celeste.

M'ero seduto in un angolo dei giardini pubblici, dove un piccolo specchio d'acqua offriva il suo grembo translucido a un ponticello di ciliegio, nella pia ombra di quattro enormi salici. Quell'angolo era deserto, e soltanto oltre alcune aiuole, dietro bei ventagli di palme, passeggiava la solita gente oziosa. Così, indisturbato, richiamavo alla mia memoria ad una ad una le fugaci impressioni di poco prima, e potevo tenerle ferme sospese dentro di me, analizzarle a lungo con calma, godendone finchè ne ero sazio. Scomponevo in mille parti la figura di Daria, per ricomporla poi tutt'intera in quell'immagine unica che mi era rimasta fissa negli occhi fin dalla sera prima. Ed erano ogni volta meraviglie e palpiti, come se mi fosse apparsa viva soltanto allora da un sogno incerto e intricato.

– Hai veduto come sotto la sua pelle diafana corrono le vene azzurrine? domandavo a me stesso. Che fragilità hanno le sue tempie, i suoi polsi! Come il suo cuore è indifeso! Le mani… le dita affusolate, le palme rosee e concave come i grandi petali del loto… Le muove lentamente quasi le sostenesse e le portasse l'aria: senza peso. Strana, strana cosa! Hai veduto? Chi ti ha detto che i suoi occhi sono neri? Come hai potuto sbagliarti? Sono azzurri e verdi… Ma la pupilla è enorme e le ciglia sono violette. Forse è nero lo sguardo, non gli occhi! E che grazia! Quando inchina la fronte e il suo viso s'adombra, sembra che si nasconda sotto i riccioli pesanti e cupi. Allora ti guarda dal basso, come una colomba innamorata, col capo un poco piegato sulla spalla, e sempre sempre sorride…

Tra due ventagli di palma, vidi d'un tratto veramente un volto ombrato che mi sorrideva, uno strizzar d'occhi e due labbra scarlatte che mi facevano: pss pss… E poi un ventaglio si abbassò e apparve un gran cappello di paglia, e poi un braccio, e poi una gamba sottile e lunga, e poi un gonnellino rosso che si gonfiò in un salto e si posò accanto a me sul sedile.

– Non mi riconosci? – domandò una voce acuta come un allegro campanellino d'argento.

M'inchinai sorridendo, senza parlare.

– Com'eri buffo! – continuò quella voce. – Che ridere ho fatto, che ridere! E non dicevi niente! Nemmeno un fiato! Eri buffo da morire!..

– Capisco! – dissi. – Lei, signorina, deve essersi divertita moltissimo… Ma io…

– Ma tu? Ma tu dovevi ridere più di me, ragazzo mio! – esclamò con tono grave di rimprovero. – Non la conosci dunque? La prima volta è così con tutti…

– Ecco, – dissi: – a lei forse sembrerà facile… Ma per me è diverso. Io sono un uomo.

– Un uomo!

Allargò le braccia sulla spalliera del sedile, stese le gambe, puntò in terra i tacchi alti delle sue scarpette e rovesciando indietro il capo disse con semplicità:

– Dammi pure del tu… Tutti quelli che danno del tu a Daria possano dare del tu anche a me…

La guardai stupefatto. Ella rispose calma a quello sguardo:

– È inutile che tu ti meravigli… Sono Soave… sua sorella.

Strana creatura! Il suo corpo aveva quindici anni: era infantile, ancora magro; magre le gambe che dal ginocchio in giù uscivano dal gonnellino fatto di tutte piccole pieghe; magre le braccia, nude dalla spalla, alla cui estremità pesavano due grosse mani arrossate, che parevano prese in prestito a qualche gran donna e attaccate con un grosso chiodo ai suoi polsi. E il suo viso era invece senza età, e somigliava a quello di Daria come la copia mal riuscita d'un'opera d'arte, esatta in ogni sua parte, sbagliata nel suo insieme. I suoi occhi erano tutto bianco, appena adombrati da rade ciglia, e parevano sempre dilatati in uno stato ipnotico. L'ovale del volto terminava in un mento aguzzo, che cominciava quasi sotto le orecchie, ed era tagliato a metà da una bocca carnosa e sanguigna, inutilmente arrotondata da due piccoli punti di rossetto. Solo i capelli, che in lunghi riccioli le rotolavano sulle spalle, erano gli stessi capelli di Daria, neri e azzurri, e pesanti come il ferro.

– Ah! io capisco tutto! – esclamò dopo un breve silenzio, guardando fissamente i rami del salice che ci piovevano sul capo. – Perchè non dovrei capire? Perchè sembro ancora una bambina? Ma non sono più una bambina… È un pezzo che non lo sono più… I vecchi le capiscono queste cose! Quel signore che venne a trovarci sabato scorso, credo che sia un senatore, un conte, che ha quelle belle basette arricciate (lo avrai incontrato mille volte) ah! ah! mi dette subito ragione. E mica solo con me! Anche a Daria lo disse: – Lascia andare, amica mia… Soave non è più tanto bambina… – Ma voi giovani queste cose non le volete capire. Ebbene io so tutto, come te, e come Daria… Tutto, tutto…

– Ma io, veramente, – dissi impacciato, – io non so niente…

– Povero piccolo! – esclamò la signorina Soave. – E allora io ti posso insegnare… È da ieri che sto con l'orecchio attaccato agli usci! È da ieri che Kate mi racconta tutte le storie che sa, da quando è nata… Ma si ostinano tutti a tirarmi per le trecce e a guardarmi ridendo le sottane corte! Piacerebbe anche a me avere la coda lunga un metro, e le scarpine di raso d'oro, e un bel diadema con un paradiso in testa… E che cosa sono questi cappelloni di paglia con le ciliege che mi fanno portare?

Con un gesto sgraziato si strappò di testa il grande cappello di paglia di Firenze, tutto coronato di ciliege rosse, e lo gualcì, lo pestò con i pugni chiusi, e me lo riaprì sotto il naso. Poi mi si buttò con tutto il suo peso contro la spalla e guardandomi sorridente mi confidò:

– Vuoi sapere come mi piacerebbe un cappellino? Come quello che ho veduto ieri in una vetrina del Corso… Era di paglia blu rossa e nera, lucida lucida tutta arricciata, tutta tutta arricciata la tesa, e poi un nastro di seta scozzese con un gran fiocco da un lato, e la cupola invece liscia e intrecciata, che faceva un disegno di tanti piccoli quadrati neri rossi e blu. E di sotto al fiocco usciva un uccellino piccino ma con una coda lunga e sottile, terminata da piccole pagliuzze d'argento che sembravano goccioline di rugiada. Quella era una bella cuffietta! Coi capelli neri, i colori vivaci mi stanno che è un amore.

– E perchè non dice a Daria che le regali questo cappello?

– Ah! – sospirò. – Se io dovrò aspettare Daria non ne avrò mai di cappelli come quello!

Rimase silenziosa qualche minuto, giocò con i riccioli, poi domandò:

– Quanto immagini che possa costare? Chissà che somma esagerata pensi tu…

Io scossi il capo ed ella soggiunse:

– Venticinque lire…

Mi guardò come aspettando da me qualche gran segno di stupore. Poi disse malinconica:

– A tutti piace Daria. Eppure è molto sciupata… Anche a te piace molto?

– Molto? Non so… – risposi.

Poi domandò ancora:

– Quanti anni hai tu?

– Vent'anni, – risposi.

– E io ne ho quindici, quasi sedici…

Ancora una volta mi guardò, ma quel suo sguardo non mi disse nulla. Mi ero già distratto e già ripensavo che la sera era prossima, e che avrei riveduto Daria fra poco, e forse quel nuovo incontro sarebbe stato decisivo. Forse avrei potuto rimanere solo un istante con lei, forse baciarle la mano, certamente stringergliela fugacemente, nell'ombra discreta o sotto la tovaglia. Ella avrebbe avuto al collo qualche gioiello maraviglioso e la sua gola mi sarebbe sembrata più candida e la sua bocca più rossa. E vidi senza allontanarmi dalla mia cara immagine la piccola irrequieta, la piccola ciarliera, Soave, alzarsi dal mio fianco, la sua testa ricciuta scomparire di nuovo sotto le grandi tese spioventi del cappello, e le sue grosse mani spianare in fretta in fretta le pieghe gualcite della sottana. A un tratto mi si buttò sulla bocca, mi dette un morso, e fuggì via gridando: – Arrivederci quando sarai sveglio!

Ed io non capii allora che era un bacio.

Il perduto amore

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