Читать книгу Il perduto amore - Fracchia Umberto - Страница 4

PARTE PRIMA
Daria
III

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Clauss restò soltanto tre giorni in casa nostra. Durante quei tre giorni io cercai di sfuggirlo, e infatti non accadde più che noi ci trovassimo soli insieme. Il terzo giorno se ne partì improvvisamente, senza aver neppure sfatto le sue valige, per andarsene in città, dove disse che voleva comprare una casa. Confesserò, senza vergogna, che Clauss mi aveva profondamente toccato. Quasi mi faceva paura. Talora, non visto, mentre egli leggeva o parlava con altri, io lo spiavo a lungo, fantasticando. La sua partenza fu per me cagione di gioia: ma non ritrovai per questo la mia antica pace. Ben presto anzi mi accorsi che io non potevo più vivere senza di lui. Di giorno e di notte pensavo alle sue parole; Behela frequentava i miei sogni; e se socchiudevo le palpebre, lo rivedevo, non come era in realtà, ma come era, da giovane, nella vecchia fotografia dell'album, con quei due immobili e smisurati occhi. Quell'immagine era impressa in me fin dall'infanzia. Non mi abbandonò più.

Vivevo dunque come trasognato. In quella grande casa semideserta dove mia madre diffondeva la malinconia del suo sorriso senza nè inquietudini nè desideri, che mio padre dominava dalla cantina al granaio con la sua allegria d'uomo sano e soddisfatto, io cominciai a sentire il peso della solitudine e il mal sottile della malinconia che prima non conoscevo. Fino a quel tempo, per molti anni, m'ero accontentato della mia casa, del mio giardino, del villaggio e dei campi, nel limite della cerchia alpina. Ora non più. Clauss aveva lasciato cadere in me il suo seme diabolico, e quel seme aveva rapidamente germogliato. Ogni istante scoprivo un desiderio nuovo. E quantunque le mie brame fossero innumerevoli, si potevano tutte riassumere in una sola parola: amare. Avevo lunghe e confuse allucinazioni: visioni di una realtà inverosimile.

La mia salute fu tanto scossa da questi disordini spirituali, che mio padre, rammaricandosi di aver scoperto troppo tardi che io non gli somigliavo affatto, si decise a mandarmi in città perchè imparassi a mie spese ad apprezzare la famiglia e la casa.

– Ma non si vive di solo pane – dissi a mio padre; e in poche ore fui pronto per partire.

Ricordo il penoso distacco da mia madre. Io non le ero stato mai lontano neppure un giorno. Quando mi abbracciò piangendo e sentii il suo esile corpo tremare contro il mio petto, il suo cuore battere, le sue labbra cercare ansiosamente la mia fronte, ebbi come in un lampo il pensiero di rinunciare a tutti i miei pazzi propositi, per rimanere accanto a lei, in quella pace, in quella intimità semplice e solitaria che già allora, dalla soglia, mi pareva superiore ad ogni altra possibile felicità. Ma poco dopo, quando mi volsi per guardare da lontano il campanile roseo tra le piante, ebbi onta di quel momento di debolezza e me ne pentii. La strada costeggiava un fiume e i cavalli trottavano per la discesa. I miei compagni di viaggio erano gente rozza, due contadini e un mercante di porci. Uno dei contadini diceva:

– No, Obertello: quel giovane finisce male.

Il mercante, che era tutto lardo dentro e fuori, si dimenava sul sedile brontolando:

– Non è colpa sua. È colpa di Lisa Lama, di quella maledetta…

Ascoltavo, e vedevo Lisa Lama col suo muccetto di capelli tinti, seduta contro la porta verde della sua casa, come l'avevo veduta mille volte. Pensavo: – Per un pezzo non la vedrò più. In un paese c'era una fiera. Suonavano le campane. Un razzo matto rigò di giallo il cielo cinerognolo. Due preti neri trotterellavano per un sentiero attraverso le vigne, sopra due mule grige. Una processione di donne e di chierici, con una croce e lanterne e torce, fendeva lentamente e in disordine la folla pigiata contro le porte di una chiesa. Quella chiesa era bianca e pareva che le sue mura si gonfiassero a tratti per la troppa gente che vi si stipava dentro.

Io mi sentivo straordinariamente ilare; assaporavo con gioia la mia prima libertà. Ho un piacevole ricordo di quelle ore di viaggio. Il fiume andava tranquillamente per la sua strada, e le zucche maturavano secondo la stagione; gli asini onestamente giravano la stanga delle cisterne, la fiera in quel paese si svolgeva nel massimo ordine; la gente era allegra, gli uomini contenti, gli animali soddisfatti, il cielo senza troppo sole e senza troppe nuvole. Il mondo intero era calmo, ilare e soddisfatto: la vita non faceva paura.

Con la vicinanza del mare, che apparve poco dopo, l'aria divenne più densa e odorosa. Ogni tanto si intravvedeva, in fondo ad un vicolo, fra i muri, un po' di mare chiaro, vivace, una vela. Muri bianchi, muri grigi, cancelli verdi, facce sconosciute per la via, occhi curiosi alle finestre, tende svolazzanti, imbianchini appesi a un tetto, cocomeri rossi sopra un banco, bambini che mangiavano, una donna in camicia, grandi gabbie di canarini, un orto. I cavalli trottavano e io pensavo a Clauss. La mia ilarità a poco a poco si spegneva. Come viveva quell'uomo? Che avrebbe fatto di me, vedendomi?

Verso sera, la città apparve lontana, in fondo al golfo. I giardini, gli orti erano finiti. Si vedeva il porto; s'incontravano carri carichi di botti; le osterie erano piene; si cantava, si ballava sotto i pergolati di canne, intorno ai tavoli gremiti. Finalmente, prima del crepuscolo, passammo la porta. Mio padre aveva già provveduto al mio alloggio. Discesi dunque dinnanzi alla casa del notaio Sterpoli, che era un vecchietto smilzo, pelato e cerimonioso. Egli mi aspettava sull'uscio, vestito d'una palandrana color tabacco; mi guidò su per una scala semibuia e mi assegnò una camera al secondo piano. Le suppellettili fruste e polverose, i dagherrotipi appesi ai muri, le facce estatiche di due santi sconosciuti, il letto di ferro, tutto mi dispiacque fra quelle quattro pareti. L'unica finestra si apriva sopra un cortile. A mala pena, oltre una interminabile fila di tetti, si scorgeva un filo di mare.

La malinconia di quell'ora mi è rimasta per molti giorni nell'anima. Anche la cena, servita da una bambina zoppicante, in compagnia del notaio e di suo figlio, Paolo Sterpoli, fu lunga magra e uggiosa. Eravamo in tre, intorno a una tavola da refettorio, immensa, sotto un lume lamentoso. La bambina girava facendo con i suoi piedi disuguali una bizzarra musica sull'impiantito. Dopo cena il notaio, con molte carezze, ( – Ti ho portato sulle mie braccia. Si può dire che ti abbia allattato io – ripeteva ogni tanto), se ne andò a letto e noi rimanemmo ancora a fumare. Quello Sterpoli figlio era un giovanotto di forse ventiquattro anni, di pel rosso, con il naso tozzo e la bocca tonda e un paio di mostaccini arricciati con cura. Egli aveva fumato due sigarette placidamente, leggiucchiando il giornale; ora aveva acceso la terza, ma pareva che la sua calma fosse d'un tratto svanita, perchè s'era alzato in piedi e se n'andava da un capo all'altro della stanza, gettando sguardi inquieti all'orologio, alla finestra e a me che me ne stavo seduto. Finalmente si fermò a due passi dallo specchio e disse:

– Insomma, perchè fingere? Bisogna che io me ne vada. È tardi. Non siamo amici? Se vuoi venire con me, troveremo certamente Clauss, che ci aspetta…

– Davvero? – esclamai. – E dove?

– Dove? E dove vuoi trovarlo? Te lo dirò.

Mi infilai il soprabito e chetamente uscimmo.

– Sai che cos'è un caffè concerto? – mi domandò Paolo quando fummo per strada. – Ora andiamo. Oh! non c'è niente di male; non è un luogo di perdizione. Clauss ci va ogni sera. È innamorato. Ti stupisce? Innamorato di una donna (si sa), di una donna che si chiama Daria.

La sua mano strinse forte il mio braccio.

– Vuoi credere che tutti sono innamorati di lei? – soggiunse Paolo con voce più sommessa. – Ella canta. Canta e balla. Ebbene: perchè tutti debbono essere innamorati di lei? E chi può spiegare questo mistero? Tu stesso vedrai fra poco…

– È bella? – domandai esitando.

– Ah, ah! se è bella? C'è una canzone che dice (mi pare): Je ne sais pas de quel côté, sa clarté me pourra conduire… Au loin une étoile je vois – qui me darde des étincelles… Non importa. Sì, è molto bella.

– E Clauss?

Entrammo in una sala piena di luce, di fumo, di rumore, di gente. In fondo c'era un piccolo palcoscenico su cui erano dipinti alcuni pavoni su una pagoda. Gli spettatori, intorno, gridavano e bevevano. Un vecchio vestito di nero diceva:

– Sì, signori: le gambe di quella donna sono le corna del diavolo!

Sterpoli mi guardò e disse:

– Siamo arrivati troppo tardi. Ha già finito di ballare…

Un'orchestrina cominciò a miagolare una polka, il velario si schiuse e comparvero tra fischi e urli due fakiri indiani. La platea tumultuò. Giovani o vecchi: una strana umanità imberbe o canuta si agitava in quello spazio angusto. Alcune donne, in abiti rossi e gialli, con bizzarri pennacchini e grandi ventagli di piume, se ne andavano intorno precedute da sorrisi incantevoli e da sguardi striscianti come bisce. Incendi. Ed io pensavo per quale miracolo quelle donne potessero avere carni così bianche, e occhi così lustri, e bocche così rosse e attraenti; essere tanto angeliche e tanto peccaminose; e per quale miracolo di continenza gli uomini si accontentassero di guardarle senza strappare violentemente dai loro corpi quei pochi abiti rossi e gialli che ancora le ricoprivano. – Le belle incendiarie! – pensavo io stupefatto. E quelle donne mi sorridevano senza guardarmi, e senza toccarmi mi accarezzavano.

Salimmo una scaletta a chiocciola ed entrammo in una piccola stanza azzurra. Clauss stava seduto sopra un divano. C'erano altri quattro con lui.

– Ti conduco un nuovo discepolo! – gridò Sterpoli sbatacchiando la porta dietro le mie spalle e inchinandosi fino a terra.

Clauss mi guardò.

– Sei tu? – disse senza muoversi e senza sorridere. – Avanti! C'è posto per tutti.

Mi avvicinai ed egli mi baciò. Poi ordinò che portassero bottiglie e bicchieri.

Il perduto amore

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