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PARTE PRIMA
Daria
II

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Quest'uomo, Carlo Clauss, venne per la prima volta in casa nostra quando io avevo appena vent'anni. Di lui avevo udito parlare come di un'anima perduta. Si sa che cosa intendono gli uomini timorati quando dicono: costui è un'anima perduta. A lunghi intervalli, dunque, se per caso nelle conversazioni famigliari il discorso cadeva sopra un parente morto o lontano, e mia madre prendeva il vecchio album di fotografie e cominciava a sfogliarlo, la sua mano invariabilmente si fermava sopra il ritratto di un giovane vestito di nero, con una grande cravatta pure nera e un'altissima tuba in capo, il cui volto ovale, circondato da una rada barba bruna e illuminato da due occhi stranamente dilatati e fissi, pareva la faccia di un ammalato o di un convalescente, o quella di un uomo bruciato dalla fiamma di una logorante passione. Allora il vecchio album passava di mano in mano, faceva il giro della tavola, e il nome di Carlo Clauss era ripetuto sottovoce, e seguito da misteriosi silenzi o da poche vaghe parole di commiserazione per quella «giovinezza irrequieta e avventurosa».

Ma un giorno, quando nessuno se l'aspettava, una lettera munita d'un francobollo molto grande, su cui era disegnato un paesaggio montuoso con alberi e animali inverosimili, ci portò la notizia del suo ritorno. Egli scriveva a mio padre da una città il cui nome parve nuovo a tutti noi, dicendo che «il desiderio di morire in patria» lo spingeva ad abbandonare il paese dove aveva vissuto fino allora felice. Parlava di una lunga malattia, dei molti giorni di mare che lo dividevano da noi, e, in fine, di mia madre, che egli chiamava, con un diminutivo infantile, la Minni. Quella lettera fu letta forte prima della cena e suscitò in tutti un vivo stupore. Mia madre pianse. Fu una triste sera in cui non si fece che rievocare avvenimenti dolorosi. Io seppi allora che Carlo Clauss era nostro parente e che a ventiquattro anni era scomparso dalla propria casa, era fuggito, solo, senza lasciar traccia di sè.

Due mesi dopo egli arrivò con la corriera del mattino, giacchè in quel tempo la ferrovia non passava ancora per queste valli e lungo il mare, e non se ne udiva neppure il fischio lontano. Noi, che stavamo sull'uscio in attesa, lo vedemmo scendere dalla diligenza seguito da un servo creolo, bruno e canuto, che portava i bagagli. La sua rassomiglianza con la nostra fotografia era ancor grande. Alto, diritto, con la barba e i capelli appena brizzolati, egli non rivelava nè stanchezza nè dolore. Il suo volto pallidissimo, di un pallore olivastro ed uguale, bruciava ancora di quella fiamma interna che gli splendeva negli occhi scuri, profondi e lucidi. Era bello. Anche la sua voce, il suo modo di gestire, la sua pronuncia un po' lenta e faticosa, mi parvero, al primo incontro, attraenti; pieni di quella grazia virile, così rara negli uomini non più giovani, che è fatta di serenità, di forza e di rattenuto ardore.

Seduto dinnanzi al tavolo, fra mio padre e mia madre, Carlo Clauss fece racconti meravigliosi. Io vedevo contro il paesaggio montuoso che, dietro piante frastagliate e grasse, si delineava sul francobollo della sua lettera, ingigantito dalla mia immaginazione, passare, come contro lo scenario di un teatro, carovane dietro carovane, cacce di elefanti e di tigri, pellegrinaggi, eserciti di bruni guerrieri con nuvoli di bandiere e sterminati campi di lance luccicanti, cortei nuziali d'asinelle candide, lettighe e tamburi; e battaglie, risse, mercati, pestilenze, rivolte, drammi da impazzire, e catastrofi spettacolose. Poi taceva per qualche minuto e rideva dello stupore che vedeva dipinto sui nostri visi.

– Eppure sono tornato! – esclamava. – Vi pare il caso, ora, di spaventarvi? Siamo passati attraverso il fuoco… Tutto è uguale per me.

Mia madre era quella che lo ascoltava con minor meraviglia. Il suo pensiero non era con noi.

– Quante cose sono cambiate… – diceva. – E chi le poteva prevedere?

– Certo… – rispondeva sorridendo Clauss. – Ma ora tutto è uguale per me…

Si volgeva poi a mio padre e lo guardava attentamente per dirgli:

– Tu no, tu non sei cambiato.

E mio padre si palpava il mento e le gote, e rispondeva seriamente:

– Ti sembra, ma non è così. Eravamo ragazzi allora, quando dici tu, ed ora ho un figlio grande. Non lo vedi laggiù? Sembra un querciolo…

Ma Clauss badava poco a lui e poco a me. Tutta la sua attenzione pareva concentrata sopra le mani di mia madre, ch'ella teneva posate sulle ginocchia stringendo un fazzoletto. Brillava l'anello sull'anulare. Raramente i suoi occhi si posavano anche su mia sorella Silvina.

– Eppure bisogna vivere ancora! – disse egli una volta, nel silenzio di tutti. E mi sembrò che parlasse soltanto a sè stesso, dimenticando noi altri.

Da mezz'ora l'aria s'era fatta scura, e pioveva. Ma, dopo poco, un tuono secco schiantò il silenzio e scompaginò le nuvole. Un po' di sole entrò nella stanza. Io che ero rimasto senza parlare, in un angolo, mi alzai per guardar fuori. Anche Clauss si alzò e si avvicinò alla finestra.

– Se volete, disse mia madre, potete andare sulla terrazza. Non piove più.

Salimmo dunque, noi due, sulla terrazza. L'arcobaleno era molto pallido. Il sole, già mezzo nascosto dietro il monte, dardeggiava sulla pianura un gran fascio di luce. Clauss girò intorno gli occhi, si soffermò un istante a guardare i fianchi delle montagne rigati di cascatelle candide; poi si volse a me e bruscamente mi domandò:

– E tu, ragazzo, che fai?

Per la prima volta i suoi occhi si posarono attentamente sulla mia persona. Io li sentii che mi penetravano dentro, nell'anima. Era uno sguardo impudico, un contatto quasi carnale che mi riempì di vergogna.

– Nulla… – balbettai.

Egli rise.

– Come è possibile, nulla? – soggiunse, distraendo da me le pupille, come uno che stacca le labbra da una tazza dopo aver bevuto abbastanza. – Ho avuto anch'io vent'anni. Non ridere! A vent'anni io, per esempio, non desideravo che una sola cosa: morire. Ma volevo morire eroicamente. Immagina: uno compie un'azione nobile, un atto memorando. La gente dice: – Questo ragazzo è stato capace di tanto. – Un ragazzo? Veramente un ragazzo? – Sì, un ragazzo… Aveva appena vent'anni. – Questa è la gloria. Ora sono quasi vecchio, e quel sogno mi sembra ancor più bello di allora. Morire senza aver provato nulla della vita, se sia buona o cattiva; non l'amore di una donna: senza avere nè amato, nè odiato, nè goduto, nè sofferto; ignorando che cosa valga tutto ciò… Non credi che sarebbe una pazzia degna di te?

Rise di nuovo guardandomi. Anch'io cercai di sorridere.

Clauss si volse dove il sole era scomparso. Grandi nitide nuvole scavalcavano le montagne e le prime stelle, due o tre, brillavano nel cielo che s'andava rasserenando. Ma io non avevo occhi per quelle lontane apparizioni. Avevo ascoltato Clauss senza quasi comprenderlo, tanto la sua stravagante eloquenza mi riusciva nuova e mi turbava profondamente. Vivere e morire? Amare? Odiare?

– È dunque necessario amare o odiare qualcuno? – balbettai ad un tratto senza pensare.

Stavamo entrambi appoggiati alla ringhiera. Eravamo vicinissimi. Ora, rievocando quella scena, lo rivedo mentre s'accarezzava la barba con un gesto languido delle mani; riodo la sua voce, pacata, come una musica sopra una nota, stanca.

– Ti racconterò una storia, – disse, – e tu stesso giudicherai. Io avevo, a Karsan, un servo giovane. Era un meticcio, un essere semplice e sano, una creatura riccamente dotata. Lo avevo raccolto fanciullo in una strada. Era cresciuto con me, mi era fedelissimo. Un giorno lo sorpresi in un angolo del cortile mentre si flagellava con un grosso staffile di cuoio, uno staffile da schiavi. – Sarkis! – grido afferrandolo per un braccio. – Sei pazzo? – Egli mi guarda con gli occhi di un cane e, arrossendo, mormora: – Behela… Behela era una fanciulla della fattoria vicina. La conoscevo. Sembrava un bell'animale, con lunghi capelli neri e grandi occhi violacei. Sarkis era stato preso da una così violenta passione per lei, che ogni giorno, dopo averla veduta, dopo averla spiata da lungi e da presso, si flagellava, parendogli di non essere degno di lei, di non poter meritare il suo amore. Un altro servo mi narrò queste cose, più tardi. Alfine essi si sposarono. – Sei felice? – chiesi a Sarkis dopo le sue nozze. – Vorrei esser morto! – rispose. Scese la notte sulla loro capanna di giunchi. All'alba Behela uscì dal letto ancor caldo per andare alla sorgente. Egli la seguì da lontano, la spiò lungo tutto il sentiero. Si nascose poi tra le canne e attese che ritornasse. Behela riapparve, camminando lentamente. Teneva gli occhi chiusi e sorrideva come in sogno. – Behela! – chiamò lo sposo nascosto. Ella si arrestò. – Questa è la tua voce! – disse dolcemente. – La riconosco… – E questo è il mio coltello! – gridò l'altro saltando fuori. L'abbracciò stretta e le piantò la lama nel cuore. Quando mi fu condotto dinnanzi per essere giudicato, perchè io ero il padrone, egli cantava come un forsennato. – Sarkis… – esclamai afferrandolo per i capelli: – sai tu di avere ucciso la tua sposa? Egli ammutolì, mi guardò con occhi che non esprimevano nè stupore, nè vergogna, nè tristezza. – Vorrei esser morto… – mormorò, e ricominciò a cantare.

Clauss sollevò il capo. Il suo volto si animò: balenò nei suoi occhi quella strana luce.

– Questa, – disse, – non è una storia straordinaria. Questa è la storia dell'amore, una storia d'amore, cioè una delle innumerevoli storie che si possono raccontare. È necessario amare qualcuno? Era necessario uccidere Behela, sacrificare quel fiore meraviglioso, distruggere quella felicità? Immagina che cosa mi avrebbe risposto quell'uomo se io gli avessi rivolto, una dopo l'altra, tali domande! Noi lo legammo in mezzo alla corte. Ma, di notte, prima di coricarmi, andai, tagliai le corde, e gli ordinai di fuggire.

– Tu! – esclamai stupefatto. – Tu lo hai liberato?

– Io, disse, io stesso.

Mi guardò sorridendo.

– E non potevo forse uccidere anch'io come lui, – mormorò, – quel giorno o il giorno dopo, con quell'arma o con un'altra simile?

– Ah! non è così facile! – esclamai, nascondendo il viso fra le mani. – Non è così semplice uccidere! Non tutti uccidono…

– Infatti, – disse Clauss per consolarmi, – non è per tutti egualmente facile.

Il perduto amore

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