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PARTE PRIMA
Daria
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L'uscio si mosse come se un soffio di vento o una mano leggiera lo sospingesse. Dallo spiraglio spuntarono quattro dita. Poi l'uscio non si mosse più, e quelle quattro dita rimasero così, immobili, nella fessura. Dietro l'uscio qualcuno ora stava spiando nella stanza o attendeva di essere invitato ad entrare. Sterpoli era ricaduto bocconi sul letto, le braccia incrociate sul capo, la faccia schiacciata contro le coltri. Mi alzai lentamente, e, cercando di vincere il tremito dei miei ginocchi, in punta di piedi mi avvicinai all'uscio e feci l'atto di aprirlo. Subito quella mano intrusa scomparve. Ma io trassi bruscamente a me l'imposta e vidi contro il muro, nell'oscurità fonda del corridoio, una ombra confusa di cui non discernevo chiaramente che il bianco degli occhi. Riconobbi subito Soave. Ella fece un passo verso di me. Prima che io avessi il tempo di parlare, mi prese con forza per la mano e mi tirò fuori dell'uscio, che rapida ella stessa richiuse alle mie spalle senza rumore. Quando fummo tutti e due nel buio, non staccò la sua mano dalla mia, anzi la strinse più forte e se la premette sul seno, mentre con tutto il corpo aderì al mio corpo, tanto che sentivo il suo cuore battere contro il mio.

– Pazza, pazza, – dissi con voce soffocata, – che cosa vieni a fare qui a quest'ora? Questa non è casa mia. E come hai potuto entrare?

Dai suoi capelli, con la densità di un fumo di incenso, vaporava contro il mio viso un odore acuto di gelsomino che io penavo a respirare. Il suo cuore batteva sempre più forte. E non parlava.

– Rispondi! – esclamai con forza. – Rispondi e vattene, vattene subito…

Ma per tutta risposta Soave mi trascinò verso il fondo del corridoio e si fermò soltanto sulle scale, dinnanzi alla grande finestra illuminata dalla luna. Allora, guardandomi fissamente con i suoi immensi spiritati occhi, mi bisbigliò:

– Dov'è Daria?

I suoi occhi erano veramente pieni di spavento e di follia. Le sue labbra, il suo mento tremavano, e le sue mani non cessavano un istante di aggrapparsi alle mie, convulsamente, come se avesse voluto spezzarmele. I suoi capelli erano arruffati e le piovevano in tanti radi ciuffi sulla fronte e sulle gote. Il suo povero corpo scompariva nelle pieghe di uno scialle di lana nera.

– Dov'è Daria? – ripetè con l'accento della disperazione. – Dov'è? Dov'è?

Io mi sentivo morire. Nuovamente il mio cervello si riempiva di confuse e plumbee nuvole, e dinnanzi ai miei occhi tutto ricominciava a rotare. Per non cadere chiusi le palpebre. Risposi con un filo di voce:

– Non so… Da Clauss. L'ho lasciata laggiù.

– Ah! – esclamò Soave. – Dunque non mi ero ingannata! Non era lei nella tua stanza!

– No, – dissi, – non era lei. E mi salì alla gola un rantolo di riso.

– E chi era nella tua stanza? – domandò Soave, con tono imperioso.

– Non ti riguarda, – risposi. – Del resto, se vuoi saperlo, era Sterpoli, quello che conosci.

– Lui! lui! – gridò Soave, e fece un moto improvviso come se avesse voluto fuggire. Ma io soffocai le sue grida chiudendole la bocca con una mano, e afferrandole un braccio la costrinsi a rimanere.

– Non gridare, idiota! – le ordinai infuriato. – Vuoi destare tutta la casa?

Soave si lasciò cadere sopra un gradino, e come svenuta si abbandonò contro il muro. Poi riaprì gli occhi, e levandoli umilmente su me, sussurrò:

– Non sai dunque nulla? Kate era appena rientrata in casa, ed io mi stavo spogliando. Era già tardi. Kate piangeva e non riuscivo a farla parlare. – Ma parla, dunque, per l'amore di Dio! supplicavo. Che cosa è accaduto? E lei singhiozzava e non riusciva a spiccicare una nota. Improvvisamente si ode un tonfo alla porta, uno schianto, e lo sbatacchiare delle due imposte contro il muro, un tumulto di passi su per le scale, e un mugolio sordo che sembra di belva. Sterpoli, lui, proprio lui, si sente correre per le stanze gridando: – Dove siete, maledette ruffiane! Fuori! Fuori, ch'io vi scanni! Tutta la credenza della stanza da pranzo precipita con un fracasso enorme, tutto va in pezzi, sembra che crolli la casa, e sento Kate che grida: mamma mia! Io non mi muovo: ero fredda come il marmo. Si direbbe che tutti siano morti. Non odo più nulla. E poi la voce di Sterpoli grida: – E ora scanno quell'altra! – e si butta giù per le scale. I suoi passi si allontanano per la strada, ed io con il cuore in bocca mi affaccio sull'uscio, e vedo Kate lunga distesa fra uno sterminio di bicchieri, le sottane rovesciate, come morta. Ma non era morta. Apre gli occhi e dice: – Madonna mia perdonatemi… E si mette in ginocchio e prega. Mi avvicino a lei, e quando vede che sono io: – Brutta bastarda, – dice, – ti fosse cascata la lingua per il troppo gridare! E si mette a piangere e a battersi il petto: – Maria Vergine, perdonatemi voi… Io penso a Daria e a Sterpoli che è impazzito, e prendo questo scialle, e mi butto anch'io per le scale, e corro corro a casa di Clauss, e, arrivata dinnanzi al cancello, vedo Sterpoli che ne esce. Il vicolo è stretto e non posso più fuggire. Mi faccio piccina contro il muro. Sterpoli cammina adagio, si ferma a ogni passo come un ubriaco, parla a voce alta, e ride. Mi passa dinnanzi senza vedermi. Ma, non so come, a un tratto si volta, e allora i suoi occhi si fissano dalla mia parte, e torna indietro. Io mi nascondo il viso nello scialle e non vedo più nulla. Lo sento che è a un passo da me, la terra che sgrigliola sotto i suoi piedi, lui che dice: – Sii buona, rondinella. E mi pare che mi stia addosso e che voglia abbracciarmi. Allora spicco un salto e mi butto giù per la scesa come una pazza, mi nascondo in una pianta di oleandro e non mi sono mossa più. Mi parve un secolo. Finalmente Sterpoli passò e disparve. Allora sono uscita, sono tornata su, il cancello era aperto, una finestra era illuminata, sono entrata in giardino, ho chiamato, nessuno ha risposto… Ho avuto paura che qualcuno dalle ville vicine mi udisse. Ho aspettato. Poi ho pensato a te e sono venuta a cercarti.

Tacque e incominciò a singhiozzare.

– Bene! – dissi io. – E dopo tutta questa storia perchè Daria dovrebbe essere qui con me? Che cosa sono io? Che cosa è Daria? Finitela con questa commedia! Non temere. Sterpoli non ha scannato nessuno.

– Sì, ma allora, dimmi, dove sarà?

– E che importa a me di saperlo? – risposi. – Vuoi che io vada a cercarla nel letto di Clauss per farti contenta? E dove vuoi che sia? Vuoi che ti porti io per mano dietro la porta della loro camera, e che contiamo insieme i baci che si danno, e gli abbracci, e il resto? Vuoi che io faccia, io, quello che Sterpoli non ha fatto, perchè lui è ubriaco e io sono sveglio? – Ah! sono sveglio, ora, ben sveglio, bambina mia! – esclamai, trascinato da una specie di esaltazione ironica. – Sveglio! Non mica addormentato come oggi! Così avessi veduto sempre tanto chiaro! Non sono più un ragazzo ingenuo, non credo più a nulla. Se tu non fossi tu, ma Daria in persona, e non stessi lì a piangere, ma a supplicarmi, ma ad adorarmi in ginocchio, ma a baciare la terra dove posano i miei piedi, non ti crederei, non ti crederei, e scoppierei dalle risa. Altro che carezze sulla bocca, altro che bisbigli di parole tenere nell'orecchio, altro che sguardi caritatevoli voglio io! E io stesso ti porterei per mano da Clauss e gli direi: Eccola questa sgualdrina! Te l'ho portata. Prenditela…

Sudavo freddo, la testa mi doleva. Nelle orecchie avevo il tumulto di una burrasca. Non ci vedevo più.

– E ora vattene! – dissi. – Vattene via…

La urtai più volte con la punta del piede, ma sopratutto il mio ridere a scatti, a sussulti, dovette spaventarla. Senza altre parole, singhiozzando, Soave scese le scale e scomparve. Mentre, barcollando, disfatto, esausto, ripercorrevo il corridoio per rientrare nella mia stanza, la voce di Sterpoli echeggiò dietro l'uscio socchiuso, chiamandomi per nome.

Entrai. Stava seduto sul letto, voltato verso l'uscio, con la faccia dipinta di paura.

– Ah! – disse, – sei tu…

Abbassò il capo, si passò un fazzoletto sulla fronte e domandò:

– Dove sei stato?

Il perduto amore

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