Читать книгу La moglie di Sua Eccellenza - Gerolamo 1854-1910 Rovetta - Страница 7
IV.
ОглавлениеDon Luciano, dopo il telegramma che annunzia il suo arrivo a Bex, non dà più segno di vita.
Passano vari giorni, Maria è sempre sola e aspetta rassegnata, inerte.
Il signor Zaccarella è assai più inquieto di lei.
Con donna Maria si mostra impassibile, impenetrabile e più che mai ligio agli ordini ricevuti, ma in cuor suo disapprova la condotta del padrone.
Col pretesto degli affari, guardandosi bene dal dirlo a donna Maria, egli ha già telegrafato a don Luciano, all'hôtel Bristol: niente, nessuna risposta.
— Che il padrone non sia più a Parigi?
Il signor Zaccarella, borbotta fra sè, scotendo il capo:
— Perchè mò condannare donna Maria in questo forno, a servire di pasto alle mosche o alle zanzare? Con poca fatica, soltanto con un altro telegramma, potrebbe mandarla a Villars a raggiungere sua madre e gli altri! E lui, messa a posto la moglie, padronissimo di fermarsi dietro strada a studiare il bel canto!
Certe volte il fido Zaccarella non ha il coraggio di guardare in faccia la signora. Si vergogna lui per don Luciano. Tuttavia, con gli altri, tien duro e lo difende a spada tratta, specie con la Nunziatina, che l'ha a morte con il padrone.
La Nunziatina, rimasta a Bex, non fa altro che brontolare tutto il giorno. Brontola per il caldo, brontola per le mosche.
In questi brontolamenti ha la sua parte anche la lontananza di Eduardiello, il bel servitorino di Totò.
— Che si fa, signora? Come si fa? Non c'è più roba, non c'è più biancheria! Se crede, io potrei fare una corsa fino a Villars? Prendo un paio di vestiti e tutto il resto che occorre!
— Aspettiamo... Aspettiamo ancora un giorno... Poi si vedrà.
Questa è la sola risposta che dà sempre donna Maria col suo tono dolcissimo, malinconico e la lenta cadenza musicale.
Anche su, a Villars, ci sono mosche; ma a Villars fa fresco e alla Tête-pointue i giorni volano allegramente. L'Idola si diverte, tutta la sua corte, quindi, si diverte e la madre è raggiante. Il principe Rosalino trova ottimo il cuoco, buono l'albergo e il clima delizioso. — Chi sta bene, dunque, non si muova! — E quella gente beata ha soltanto paura di muoversi! Però, sono tutti d'accordo in questo: nel fare sfoggio di grande saggezza per ripararvi sotto la cura gelosa del loro benessere e delle loro comodità. Cercano e trovano sempre in qualche proverbio, non solo la giustificazione, ma anzi il conforto dell'antico buon senso a non muoversi, a non disturbarsi. Il proverbio che corre in questi giorni a Villars-Ollon è prudentissimo: «Fra moglie e marito non ci va messo un dito». Non si telefona, dunque, non si telegrafa, non si scrive a Bex, altro che «saluti e tenerezze». Mai nessuna domanda intorno a Luciano, mai nessuna maraviglia, nessun commento, nessun rimprovero per quello strano procedere, mai nessuna parola che esprima a Maria il rammarico per la forzata lontananza, il dispiacere di saperla sola, laggiù, e sola in quel modo.
— Driiin!
È la madre che telefona.
— .... Sei tu Maria?... Come stai?... — Anche noi benino! L'Idola si diverte! Piace assai!.. — Anche a Bex fa caldo?... — Il signor Trüb assicura che adesso avremo bel tempo per tutto il mese! Addio, cara! Saluti e tenerezze, anche dallo zio Rosalì.
Un altro — Driiin! — e basta.
Ormai è più di una settimana che Maria è ferma a Bex, aspettando il marito; passa i giorni girando attorno all'albergo, sempre in vista dell'albergo. Luciano potrebbe capitare da un'ora all'altra e se sua moglie, per caso, non fosse lì pronta a riceverlo, guai, cascherebbe il mondo!
Il signor Zaccarella non ha più parole; la Nunziatina strepita.
Aspetta, aspetta, sono già due settimane che lo si aspetta... finalmente una sera, dopo le dieci, quando proprio nessuno ci pensa — téé-téé-téé — tuff-tuff-tuff — è don Luciano che arriva con la macchina sconquassata perchè vicino ad Aigle ha urtato contro un paracarro.
Don Luciano è furibondo. Appena messo piede a terra, nello sprazzo di luce elettrica, tutto bianco di polvere, con l'ampio regland di pelle e l'enorme berrettone, gesticolando, la voce rauca, sembra un orribile mostro della notte. Prima ancora di entrare nell'albergo, prima di salutare Maria, grida col povero chauffeur, che non ha nessuna colpa dell'accaduto e, sempre per la macchina, impartisce ordini sopra ordini, allo spaurito Zaccarella.
— Canaglia!
Con chi l'ha don Luciano?...
Forse con un vetturino, forse con un carrettiere incontrato lungo la strada e che non è stato pronto a cedere il passo. In ogni modo sono queste le prime parole che il marito rivolge alla moglie dandole appena la mano per salutarla. Poi nuove ire e brontolamenti, perchè non è arrivato un certo telegramma che aspetta. Trova, per conseguenza, l'albergo oscuro, le camere incomode, la cena cattiva, il servizio pessimo e in mezz'ora ha già strapazzato padrone, camerieri e portiere. Senza voler prendere il caffè — «in Isvizzera è veleno!» — entra nella sua camera, dove c'è Andrea, il servitore, con l'acqua calda e l'acqua fredda e chiude l'uscio in faccia a Maria.
Donna Maria non sa che cosa fare. Deve aspettare in piedi?... Può andare a letto?...
È già sonata mezzanotte, quando Andrea esce dalla camera del padrone. Ella, sottovoce, lo chiama dall'uscio del salotto, per sapere qualche cosa.
— Il signore è andato a letto. Mi ha ordinato di non entrare in camera domattina e di non svegliarlo assolutamente; nemmeno se arrivassero dispacci. Domani, vuol dormire tutto il giorno.
— Allora... buona notte!
— Buona notte, signora. — Andrea s'inchina profondamente e sparisce in punta di piedi, nel corridoio deserto e buio.
Invece, la mattina dopo, don Luciano è in piedi prestissimo. Lindo, profumato, tutto bianco nell'abito di tela, e con il piccolo panama dall'ala calata sugli occhi, non è più il mostro della notte. — Anzi, don Luciano, pallido, coi piccoli baffetti biondi, rivolti in su, è piuttosto un bel giovinotto, sebbene calvo. Della sera avanti non gli è rimasto altro che il cattivo umore.
Donna Maria, per buona prudenza, s'è alzata presto anche lei. Lo trova che brontola col portiere per le zanzare, le mosche e per il pessimo servizio telegrafico.
— C'est détestable! Assurément, vraiment détestable!
Poi, subito, appena si è impinzato rabbiosamente di burro, di miele, di pane tosto e s'è gonfiato di latte e cioccolatta, comincia le scene di gelosia.
La gelosia di don Luciano è una gelosia... in cui l'amore non c'entra affatto. C'entra la vanità, il capriccio, la boria di poter dire «a me non la si fa», ma c'entra, soprattutto, il sentimento dispotico, arrogante del padrone, il vanto di poter avere e godere lui solo, quello che gli altri desiderano e invidiano. Don Luciano è geloso dei suoi cavalli, del suo cocchiere, del suo chauffeur e di sua moglie: anche questa proprietà sua, roba sua.
Quando torna da Parigi, peggio che mai: è geloso frenetico. Egli riversa e fa scontare alla moglie anche tutta la gelosia atroce che gli ha fatto e gli fa soffrire Fanfan, ma che è costretto a dominare. Fanfan, è vero, gli costa più che non gli sia costata la duchessina Moncavallo, ma per questo non ha mai voluto essere «roba sua». Oh, con Fanfan non si fanno scene! Con Fanfan non si fa l'Otello! Guai! Si provi una volta sola don Luciano, a fare il prepotente e il noioso: è già bell'e pronto il miliardario americano mister Kennet, il re della glicerina, che aspira a un posto di successore nel gran cuore della Trécoeur!... Così, la moglie virtuosa, paga anche per l'amante irresistibile, ma poco resistente!
Maria Grazia, non dà mai il più piccolo motivo di gelosia; ma questo non vuol dire che a Luciano manchino i pretesti. A Bex, il pretesto è un povero giovane tisico, in viaggio per il sanatorio del Mont Blanc, a Leysin.
Donna Maria ha soltanto scambiata con lui qualche parola, a distanza, da una poltrona all'altra della veranda, e presente, s'intende, l'oculato Zaccarella. In quella giovane signora dai nerissimi capelli, dagli occhi nerissimi, pensosi e profondi, l'infelice sogna Napoli, Roma, Venezia; l'Italia, della quale è innamorato, sebbene non abbia mai potuto fermarsi che a San Remo e a Bordighera. Il viaggio in Italia è il sospiro suo per quando sarà guarito, e intanto rivolge a Donna Maria sempre le stesse interrogazioni sul Ponte dei Sospiri, i Piombi e i migliori alberghi di Venezia, su Pompei, il Vesuvio e la Funicolare, sulla casa di Dante e di Giulietta e Romeo, e domanda che cosa vuol dire piedigrotto o piedigrotta.
Quella mattina, appunto, mentre i D'Orea fanno colazione, il giovane inglese pallido, sparuto, si avvicina a Maria Grazia per congedarsi: parte in quel momento per Leysin.
Don Luciano lo guarda bieco, risponde al saluto, senza nemmeno alzarsi, poi, appena l'altro volta le spalle, assale di domande la moglie per sapere come, quando, in che modo ha conosciuto quell'importuno; e appena di sopra, soli, dà in escandescenze. Maria non risponde, non dice più una parola; ma Luciano non si calma, tutt'altro.
— Avvertite il direttore, — ordina al signor Zaccarella — da oggi in poi, colazione e pranzo qui, nel mio appartamento.
E continua tutto il giorno a gridare, a interrogare, a far scene, a far processi. Siano presenti il signor Zaccarella, la Nunziatina, anche il servitore e i camerieri poco monta, egli continua lo stesso, anzi, quando c'è gente si riscalda di più. Continua tutto il giorno, tutto il giorno!
Maria, pallidissima, non risponde, non dice mai una parola. Soltanto la sera, a pranzo, quando Luciano, che divora come una belva, comincia a tacere, le si riempiono gli occhi di lacrime. Non è dolore; è oppressione, è stanchezza. Stanchezza dei nervi. Sono i suoi nervi che non ne possono più, proprio più!
Dolore no. Il dolore, come l'amore, e ciò che un'anima nobile, squisita, ha di più bello, di più alto e di più puro. Dolore no. È troppo fiera per sentir dolore di quell'ingiustizia sciocca e vile, vile e sciocca. Suo marito è un ragazzo viziato e malato, un pazzo. Ella ne sente compassione; non vuol ancora disprezzarlo. Ma che stanchezza! Come si sente stanca, affranta, moralmente e materialmente.
È orribile quella vita; e non potersi sfogare con nessuno!
Sa già che cosa le avrebbero risposto sua madre e lo zio Rosalì.
— Luciano, cara figliuola, non è cattivo; è soltanto geloso, e ciò, da un certo punto di vista, dovrebbe farti piacere: «Amore e gelosia nacquero insieme!» Non si può avere proprio tutto, tutto a questo mondo e tu sei fra le donne più invidiate e fortunate! Luciano, è vero, monta in collera facilmente, ma anche presto gli passa.
Presto no, ma sulla fine del pranzo, anche per merito di un Mumm cordon rouge squisito, gli passa anche quel giorno.
Con gli occhi lustri, annunzia al signor Zaccarella una prossima gita di un paio di giorni a Losanna e sorbendo il pessimo caffè, comincia a canterellare.
— La musica! L'arte del canto! Arte divina!
Forse a Luciano, nella sua vanità persino morbosa, non dispiace di lasciar trapelare anche a Maria, le proprie avventure galanti; certo, non si dà molta pena per nasconderle.
— L'arte del canto! Arte divina!
Luciano domanda a Maria, alla quale si prepara così un nuovo tormento, se da basso, nella sala, c'è un buon pianoforte.
— Credo...
— Andiamo a provare.
Luciano ha una voce che egli vanta di tenore, ma che, invece, è di pecora, di vitello, di vari animali insieme. Nei giorni lieti canta per ore e ore e Maria deve accompagnarlo, applaudirlo e divertirsi. Fedele, in musica, quando comincia con un'aria, canta sempre quella per tutta la stagione. Adesso, forse in omaggio a Fanfan, il suo cavallo di battaglia è l'aria, anzi il duetto della Traviata: «Un dì felice, eterea — mi balenasti innante...» E fa tutto lui, anche il soprano, pur di arrivare a sfogarsi e a sgolarsi a «quell'amor ch'è palpito!»
Lì, a Bex quella sera, due o tre vecchie inglesi dell'albergo, vanno addirittura in estasi al «di quell'amor...» Il D'Orea è gongolante, è felice. Gli applausi, come il suono dell'arpa davidica, mettono in fuga gli spiriti maligni, ma quando il trionfo è più strepitoso, arriva dalla stazione un telegramma d'urgenza a rompere in un attimo il benefico incanto.
«Luciano D'Orea — Grand hôtel de Bex».
«Après succès Joujou, éclantant, inoubliable, unanimement constaté, engagée pour créer le rôle de Germaine, dans Le corset envolé. Pour ma petite course à Lausanne il faut attendre la semaine prochaine. Tous mes regrets, tous mes adieux.
Fanfan».
Luciano, dietro quel dispaccio, vede apparire il fantasma del re della glicerina. Pianta lì il suo pubblico, maravigliato, e se ne va via di colpo. Sua moglie, il signor Zaccarella, lo seguono inquieti, arrischiando appena qualche domanda.
Don Luciano soffia, sbuffa, poi risponde che non vuol nessuno.
— Via tutti!... Tutti a dormire!... Sarò padrone, almeno una volta, di restar solo!... Di poter respirare! Non sono uno schiavo, finalmente!... Via tutti!... A dormire! Che vita! Che vita! Che inferno!
Corre solo, a piedi, alla stazione. Strepita con l'impiegato che a quell'ora, di notte, non vuol aprire l'ufficio, e telegrafa. Telegrafa prima ordini e minacce, poi, quasi subito, telegrafa di nuovo, chiedendo perdono, concedendo tutto, supplicando.
Maria lo vede capitare in camera sua, stravolto, mentre sta per andare a letto.
Che notte! Che notte orribile! Nessun rispetto, nessun ritegno. Baci furiosi e rimproveri atroci. Accusa Maria di non aver cuore, di non aver mai avuto cuore! È una donna fredda, di ghiaccio! Egoista, superba e niente altro! Non sa voler bene, non gli vuol bene! Ha voluto un marito, s'è venduta a un marito, per farsi mantenere lei, e tutta la sua famiglia!
Poi Luciano sospira, si dispera.
— È il mio destino! È il mio destino infame, di non essere amato da nessuno, da nessuno!
Si rivolta nel letto smaniando, gemendo, e finisce con lo scoppiare in lacrime. Sono lacrime vere.
Maria ne sente prima ribrezzo, terrore, sdegno. Poi, quando lo vede piangere, disperarsi a quel modo... finisce ancora per sentirne compassione e pietà.