Читать книгу La moglie di Sua Eccellenza - Gerolamo 1854-1910 Rovetta - Страница 8

V.

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Passano così, non allegramente, vari giorni, e Luciano D'Orea non accenna nemmeno alla partenza per Villars. E se non ne parla lui, gli altri, naturalmente, non fiatano. Qualche volta Maria Grazia, per tastare il terreno alla lontana, gli comunica i saluti della madre o dello zio: Luciano cambia subito discorso.

Che cosa pensa di fare?... Rimanere a Bex tutta l'estate? Chi sa!

Continuano le strapazzate, le furie gelose e la sera «l'amor ch'è palpito...» Poi Luciano, d'un tratto, muta d'umore. Non grida più, non strapazza più, non canta più, ma forse si sta peggio di prima! Egli è diventato muto; — tutti muti! Se per forza gli si deve domandare qualche cosa, non risponde. Bisogna sempre indovinare, e non si indovina mai! Non ha fame, non vuol mangiare: a tavola respinge i piatti e li fa portar via con un atto di collera, prima ancora che gli altri abbiano potuto servirsi. La Traviata, s'intende, è messa da parte.

Donna Maria e il signor Zaccarella passano tutta la sera in giardino, dove si soffoca, a sentirlo soffiare e sospirare.

Che cosa mai è accaduto di nuovo?... Che cosa c'è di nuovo?

Donna Maria e il signor Zaccarella, cercano di indovinare, corrono direttamente, col pensiero, fino a Parigi. Ma s'ingannano tutti e due.

La cattiva luna spunta, questa volta, dalla parte di Bologna. Il primo a saperlo, s'intende, è sempre il fido Zaccarella, il quale, in tutta fretta, comunica l'importante notizia alla signora.

— A giorni, deve arrivare Sua Eccellenza.

— A Bex?

— A Bex, per venire con noi a Villars. Anche Sua Eccellenza ha scelto Villars per passarvi l'estate. Don Luciano — non c'è nessuno, ma il signor Zaccarella abbassa la voce — don Luciano avrà certo paura di qualche osservazione, di qualche contrasto... Ecco spiegato il suo cattivo umore!

— Già, sicuro! Ecco spiegato il suo cattivo umore! — ripete Maria com'un'eco. Ma in cuor suo, prova un senso di sollievo. Vede avvicinarsi qualche ora di tregua, se non di pace.

Giacomo D'Orea, — o Sua Eccellenza come lo chiama rispettosamente il signor Zaccarella, — è l'unico fratello di Luciano: fratello maggiore di una decina d'anni. È stato un po' il suo tutore, gli ha fatto un po' anche da padre. Ha cercato di educare Luciano con idee moderne, di abituarlo allo studio, al lavoro, di innamorarlo, di appassionarlo alle cose belle... inutilmente. Il ragazzo rompe il freno e gli scappa di mano prima del tempo. Niente studio, niente lavoro: le sole cose belle che lo innamorano sono le belle donne e lo appassionano quelle, specialmente, che costano molto.

Don Luciano, tuttavia, anche diventato uomo e libero di sè, ha sempre un certo timore di suo fratello. Se non per amore, per forza, lo sopporta e lo rispetta.

Giacomo, in fatti, è per tutti, ed anche per Luciano il capo visibile ed invisibile della grande Casa.

Si è imposto con l'autorità dell'intelligenza e del lavoro; con la rettitudine e la semplicità della vita. Si sarebbe detto che in quell'uomo mingherlino, dalla barbetta rada e già brizzolata, che in quella testa quadra di lavoratore, si fosse accumulata l'energia produttiva di secolari generazioni, che in lui fosse però scomparsa ogni rozzezza atavica, ogni lievito di grettezza e di cupidigia. Egli è il nepote di una schiatta forte e utile, che anzichè degenerare, procede con lui e per lui verso una perfezione armonica e vittoriosa. Egli ha compresa l'età sua nelle caratteristiche buone e cattive, nello spirito egualitario e sovvertitore, nelle energie e nelle audacie. Egli ha intuito quell'assioma economico che i finanzieri del nord-america respirano nell'aria del loro paese; cioè, che il possedere molto danaro è una gran buona cosa, che il possederne moltissimo è una cosa ancora più buona e più bella, ma che, d'altra parte, i milioni e i miliardi non valgono un dollaro e nemmeno un penny, se nella fatica angosciosa di accumularli non si mette da parte quel tanto di tempo, d'ingegno e di salute, che occorre per saperli godere.

Nel salire al trono... di casa sua, Giacomo D'Orea ha tutto saputo, tutto veduto e quindi tutto rinnovato e migliorato. Nelle sue molte aziende rurali, egli ha recato i criteri suoi e lo spirito di previdenza, di assistenza e di cooperazione proprio dei nuovi tempi.

Industriale di ampie vedute e anche un po' artista, ha sempre posto in tutto quello che ha fatto e creato, uno schietto sentimento di armonia e di bellezza. Ha dato il suo consenso e il suo nome alle imprese più simpatiche e originali, mantenendosi nei rapporti nuovi, complessi e difficili lo stesso uomo fiero e forte, sotto un'apparenza mite e quasi timida, semplice e serio, conoscitore pronto ed arguto di sè stesso e degli altri.

Senza spiccate predilezioni per la politica, ha però dovuto dedicarvisi. Onestamente liberale in tempi in cui molti lo sono disonestamente, è presto eletto deputato e dopo un paio di legislature, in uno degli ultimi ministeri della destra rosea, il portafoglio delle finanze gli è inflitto come un dovere verso il partito e verso il paese.

Non è certo la coltura, non è l'intuito, non è l'energia che gli facciano difetto. Gli manca, invece, quella virtù o vizio — secondo i casi — che lo Spencer chiama «l'adattabilità agli ambienti».

Alla mancanza di sincerità e di probità politica egli non ha voluto, nè saputo piegare. Dopo pochi mesi di governo, mentre è tutto infervorato in un piano di riforme nel quale vede un rinnovamento economico del paese, si trova di fronte alla necessità politica di tergiversare, di rinunciare al meglio delle sue idee per manipolare una delle solite «esposizioni finanziarie» a base di transazioni, di lustre, di ipocrisia e di falsità. È preso da un impeto di sdegno. Tutto il suo orgoglio di galantuomo si ribella alle pretese dell'affarismo e dell'arrivismo che gli si stringono d'attorno ed infischiandosene della crisi e dello scandalo, lascia il governo per tornare ai suoi stabilimenti industriali, a' suoi poderi e alle sue imprese.

Vi torna senza rimpianti e senza amarezze, ma più istruito e più cauto. Del suo intermezzo politico parla il meno possibile e con una discrezione degna del sapiente antico. Della gloria del potere non gli è rimasto che il titolo «Sua Eccellenza» e soltanto nella spagnolesca e fastosa espansione meridionale dei parenti e dei clienti di sua cognata: e nemmeno, ben inteso, in presenza sua.

Egli si chiama e vuol essere chiamato semplicemente Giacomo D'Orea, — anzi Dorea — senza apostrofe. Non nasconde, ricorda compiacendosene, le origini umili, bottegaie della sua famiglia. «Molini e mortadella» come diceva sdegnosamente missis Eyre al signor Trüb. L'apostrofe, il don sono innovazioni di quel sempiterno ragazzaccio di Luciano! Giacomo ha cominciato coll'arrabbiarsene, e ha finito per riderne... e ne ride, specialmente, con la zia Gioconda, una vecchietta vicina agli ottanta, ancora piena di salute, di buon senso e di brio che vive in campagna, perchè non ha mai saputo risolversi a mettersi il cappellino, come le contesse, e che manda saluti, auguri e regali a tutti quei «vicerè spodestati dalla nuova corte di Nannetto», dai quali non ha mai voluto e non vuol lasciarsi vedere... per paura di farli arrossire!

A proposito di quel «don» nuovo di zecca di Luciano, la zia Gioconda diceva scherzando a Giacomo, per metter pace:

— Fra tanti titoli e blasoni, duchee, marchesati e principati che Nannetto ha fatto perdere a sua moglie, sposandola, ha trovato, in camera da letto, quel piccolo don e lo ha tenuto per sè!

Giacomo, del resto, s'è opposto quanto ha potuto al matrimonio di Luciano con la duchessina Moncavallo.

— Troppa nobiltà, troppa diversità di razza e troppo fumo! E poi Luciano, ancora, non è maturo per il matrimonio!

Ma non c'è stato verso! A quell'altro, il fumo è andato alla testa. Tutti quei titoli, quei palazzi, quei castelli dei quali si vedono le dorature e i merli, e non si vedono le ipoteche, fomentano la sua vanità, la sua superbia, mentre il suo capriccio, la sua passione per Maria diventa tanto più furibonda quanto più sorgono e si frappongono ostacoli.

Le nozze Moncavallo D'Orea sono alla fine concluse, celebrate e Giacomo, da uomo savio e pratico, accetta cordialmente il fatto compiuto. Il patrimonio dei Moncavallo e dei Sant'Edodio, che fa le crepe da ogni parte, è assai vicino alla rovina; Giacomo ne assume direttamente l'amministrazione. Un'amministrazione che finisce per risolversi in un'abile, opportuna ed anche generosa liquidazione, perchè Giacomo, pur di salvare il decoro dei parenti di Luciano, ci rimette, volentieri, anche del proprio.

I milioni di casa D'Orea sono molti: quasi non si contano più! Ce n'è per tutti, in abbondanza... ed anche per i continui capricci di Luciano! Per i capricci, per altro: purchè rimangano soltanto capricci, se non del tutto scusabili, almeno perdonabili. Ma, adagio! Oltre certi limiti non si deve andare. Giacomo è buono una volta, e buono per dieci, ma due volte buono, no. Chiudere un occhio, sta bene, e vista l'indole di Luciano, chiuderli anche tutti e due, ma quando sia conveniente e prudente di farlo. Che se invece il buon nome, l'onore dei D'Orea, avessero corso pericolo non di una macchia, ma di un'ombra soltanto, allora egli avrebbe fatto immediatamente ed energicamente il proprio dovere. Avrebbe parlato chiaro; occorrendo, avrebbe alzata la voce.

E appunto Giacomo, crede adesso e pensa, che il giorno di alzar la voce e di comandare sia venuto.

— Che cosa è questa Fanfan Trécoeur? A Parigi, a Nizza, a Montecarlo, sempre con questa Fanfan Trécoeur?... Una relazione, un legame simile, una tresca?... E pubblicamente?... Con una chanteuse? Lui, un uomo ammogliato?... Ah, no! Fino a questo punto, no! Con o senza apostrofe, ma il nome dei D'Orea deve essere rispettato da tutti, in Italia e fuori.

— Il patrimonio in comune, sta bene: lui ha famiglia, io no. Spendere e spandere, senza fare i conti del mio e del tuo... tiriamo pure innanzi!... Finchè si tratta della casa, della famiglia, dei parenti della moglie, del lusso, delle corse, delle scommesse, del giuoco, — io lavoro anche per lui, risparmio anche per lui, — tiriamo pure innanzi!... Ma cinquecento settanta mila lire in meno di tre mesi per la signorina Fanfan... Ah, no! Questo poi no!

— Che cosa fare?... Scrivere?... — Poco efficace. — Chiamare Luciano a Bologna?... — Troppo pericoloso!

Giacomo, un po' contro genio, risolve alla fine di andare anche lui a Villars col fratello e con la cognata. La villeggiatura, certamente, non sarebbe stata molto gradevole e piacevole, ma, d'altra parte, non vede provvedimento migliore.

— Coraggio, e andiamo a passare un mese fra i vicerè!

Per fortuna, fra tanta gente noiosa, insopportabile fa eccezione Maria Grazia. Avrebbe fatto delle buone chiacchiere con la cognata. Donna un po' fredda, anch'ella un po' vice-regina, nella compostezza pacata dei modi, delle parole, ma intelligente, giudiziosa e buona. — Molto buona e, certo... non troppo felice!

Ma gli altri!... — Dio che peso! — Quella duchessa madre che ha l'aria di scendere dal trono per sua grande degnazione e per fare spargimento di grazie ed esercizio di mansuetudine! Quel principe Rosalino, una continua ostentazione di galanteria convenzionale e di cavalleria... pedestre. Che peso, che peso, tutta quella gente con la loro retorica dei nobili principii, dei sentimenti di famiglia, e il vuoto nella testa e nel cuore! Mai un momento di sincerità, di vera cordialità! Sempre in etichetta, e in frac tutte le sere!

— Che noia!

Pure, bisogna proprio andare a Villars!

— Maledetta Fanfan e... maledetto ragazzaccio!

A Bex, intanto, la nuova fase della luna cattiva e muta, con persistente inappetenza, continua fino alla vigila dell'arrivo di Giacomo: proprio quel giorno, come per incanto, Luciano riacquista la parola e l'appetito.

— Giacomo... a Villars?... Con mia suocera? Che abbia sentito parlare di Fanfan e voglia venir lassù a predicare la morale e l'economia?... Certo, in questa sua risoluzione, qualche cosa di nuovo ci deve essere!... E in questo «qualche cosa» per un verso o per l'altro ci deve entrare Fanfan!

Don Luciano, s'intende, anche sforzandosi e simulando indifferenza e buon umore, non ha riacquistato la parola altro che per brontolare; ma adesso, pur seguitando a brontolare con Maria e col signor Zaccarella, chi è preso di mira è Giacomo! Anzi, co' suoi sfoghi, egli cerca di farsi alleati la moglie e il segretario, contro il fratello:

— Noioso e pedante!... Puritano per ostentazione! Caparbio e ostinato! E «la modesta semplicità della vita operosa» che decantano i suoi giornali? Niente altro che avarizia! — Non ho ragione, signor Zaccarella?... Ride? Rida, rida! Io parlo poco, ma colpisco giusto! Tutta avarizia e diffidenza. Lavora, fa tutto lui, perchè non si fida di nessuno! Ma... — qui un grande sospirone — dal momento che si deve vivere insieme per un mese, che ti pare, Maria? È meglio essere in bona! Io non posso soffrire i malumori e non amo i litigi in famiglia!

Questo, gli preme soprattutto: essere in bona con suo fratello. Se Giacomo ha timore di prendere troppo di fronte Luciano, Luciano, al presente, avrebbe ancor più paura di romperla con Giacomo.

Cinquecentosettantamila lire erano state pagate a Parigi per Fanfan! Ma... e il resto che rimaneva ancora da pagare?

Luciano D'Orea, non ne sa un'acca di amministrazione, pure sa benissimo che lui, con la sua generosità non ha fatto altro che spendere, mentre il fratello, con la sua avarizia, non ha fatto altro che lavorare e guadagnare. Se si venisse alle strette? Se si dovessero fare i conti del mio e del tuo?... Non sarebbe il momento! Con mezzo milione ancora da pagare a Parigi? Con Fanfan che, finalmente arriverà fra tre o quattro giorni a Losanna? Con Fanfan che vuol fare una brillante carriera, sempre piena di successi e che vuol riuscire assolutamente a cantare alla Scala?... Con Fanfan che ha sempre lì, pronto, se lui si ritira, il re della glicerina?... No, no!... Bisogna portare pazienza, chinare il capo e sopportare anche le osservazioni e le prediche... per amore di Fanfan e per poter tener testa a mister Kennett!

Il povero don Luciano, con tanti milioni, si trova ridotto al punto di dover piangere la propria miseria.

— Ma! — sospira. — Quando non ci sono quattrini abbastanza, bisogna sacrificare anche l'amor proprio, il proprio carattere franco, leale, indipendente... e fare lo scherzoso e l'amabile persino con la moglie lunatica, perchè Giacomo, arrivando a Bex, non la veda con gli occhi rossi!

— Io mi guardo bene dal darti la più piccola seccatura! Non è vero, cara? Io ti lascio libera di fare, di disfare, io ti lascio sempre padrona di tutto! Non è vero, cara?

— Sì, Luciano...

— Soltanto per questi giorni, — pochi, si spera, — che Giacomo resterà con noi, io ti prego di non fare il muso e di mostrarti, come sei, contenta e felice! Mi raccomando.

— Sì, Luciano. Del resto, Giacomo è buono. È sempre stato gentile e affettuoso con me!

Il marito ha uno scatto vivace, ma si frena, per i suoi fini diplomatici e inghiotte l'amaro di quel «buono» pel timore degli occhi rossi. Ma per essere scherzoso e per divertire la moglie, e insieme anche per sfogarsi continua durante tutta l'ora del pranzo, a ridere alle spalle del fratello.

— Buono? Tu dici, Maria, che Giacomo è buono? Ma è buono perchè gli manca la capacità di poter essere cattivo! È un uomo, Giacomo, che deve tutta la sua gloria e la sua fortuna, alle qualità che gli mancano. Non sa spendere?... Un altro passerebbe per un avaro: lui, no; ne fanno un grande finanziere! Non sa vestire, è inelegante, sembra un notaio in abito di testamento?... Acquista, per questo, nell'opinione pubblica, in serietà, in gravità, in superiorità! È sempre stato un giovane vecchio, timido, senza un'ombra di spirito con le signore. Un altro, sarebbe spacciato, ridicolo. Lui, no: è un esempio di austerità e di moralità! Ride?... Rida, rida, signor Zaccarella!

Il signor Zaccarella, che nutre in cuore un profondo rispetto per Sua Eccellenza e i suoi milioni, si sforza e ride rumorosamente per compiacere il padrone.

Luciano si sente in vena, pieno di brio e continua divertendosi:

— Aver paura è sempre stato il grande coraggio di mio fratello! — Un esempio? — Ecco: lo fanno ministro. Gli altri, al suo posto, tengono duro, finchè li mandano via con la testa rotta. Lui ha paura, scappa e si crea la fama di uomo forte, energico, «tempra adamantina!». Fosse rimasto al Ministero, sarebbe diventato un asino anche lui: scappa e acquista il coraggio delle proprie opinioni e il genio della politica! Non ho ragione, signor Zaccarella?

Il signor Zaccarella inghiotte, annuendo col capo. Maria rimane silenziosa, seria: non approva il marito, non difende il cognato.

Soltanto a quella parola «asino» lanciata con tanta brutalità e volgarità, presente il signor Zaccarella, ha un istintivo moto di disgusto; ma è un lampo. Luciano, tuttavia, se ne accorge e quindi insiste e ribatte sull'asino.

— Asino! Asino! Asino! Del resto non è il solo che sia un asino e che sia diventato ministro! Dica lei, signor Zaccarella!

Questa volta l'ossequioso Zaccarella non ha scrupoli e risponde, sprofondando quasi la testa nel piatto con un inchino:

— Verissimo!

— La politica? Buffoni e asini!

Don Luciano si ostina, continua a ripetere l'odiosa parola, ma ormai non irrita più, non fa più nessun effetto.

— Tu credi, Maria, che occorra un briciolo di talento per farsi un nome in politica? Rispondi, Maria: lo credi proprio?

Alla insistente interrogazione di Luciano, Maria alza su di lui gli occhi dolcissimi, neri neri, ancora più neri e profondi sotto l'ombra delle lunghe ciglia vellutate: ma non risponde altro che così.

— La politica?.. Peuh! Io lo dichiaro apertamente: abborro, odio la politica! Invece di fare della politica, io faccio dello sport: rinforzando il corpo, so di rinforzare lo spirito. Sentite! Toccate! — Così dicendo allunga e stende il braccio con forza, ne fa toccare i muscoli alla moglie e al signor Zaccarella che fa le più alte maraviglie:

— Di marmo!... Di bronzo!... Vero bronzo!

— Io ammiro le arti! Le lettere! Si diventa ministri, ma si nasce poeti, pittori! Io ammiro e coltivo la musica... — E si ferma con particolare compiacenza a vantare sopra tutte le altre la divina arte della musica, la divina arte del canto! — Si diventa ministro, ma tenore, si nasce! Oh, la musica, il canto, consola, ingentilisce il cuore! Fa bene all'anima, un po' di musica!

Il signor Zaccarella sta sulle spine: — Se donna Maria sospetta di quella certa Fanfan?

Ma, intanto, Luciano si alza, scende, va nella sala di musica, apre il pianoforte, chiama Maria, comincia la Traviata e continua tutta sera con la Traviata:

«Un dì felice eterea, mi balenasti innante...»

La mattina dopo, a colazione, quando ha ben ripetuto che Giacomo è un avaro, un pedante e un asino, — annunzia alla moglie che gli sarebbero andati incontro tutti due fino a Montreux, in automobile.

— Ti raccomando, Maria. Niente lune. Mostrati come sei, contenta e felice!

La moglie di Sua Eccellenza

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