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I Volontarii Italiani
EPILOGO
III
ОглавлениеAl fermarsi della cavalcatura, sulla porta di una rustica casuccia apparve un uomo di atletiche forme e vestito d'una singolare divisa. Portava un cappello di grosso panno nero, quale usano i contadini dell'alta Lombardia; fra i suoi calzoni allacciati sotto il ginocchio da due rami di salice e le sue ghette da militare si espandevano due polpe adipose coperte da una maglia nera. Un soprabito lungo, sbottonato, che forse in altri tempi era una veste talare, lasciava scoperta sul davanti una camicia di color scarlatto trapunta di stelle d'oro. – Don Remondo, il papa di Val d'Intelvi, venuto al campo per combattere e per porgere ai morenti i conforti della religione, si era fornito a proprie spese un abbigliamento che simboleggiava di qualche modo il suo duplice ministero. Egli s'era fatto una camicia garibaldina coi residui di una pianeta rossa che gli era stata donata da una zia in occasione della sua prima messa.
– Buona sera, capellano! – disse la Guida riconoscendo don Remondo al riverbero di una lanterna che quegli teneva in mano. – C'è una stanza in questa casa… un letto… un pagliericcio su cui adagiare un ferito?
– Questa casa è un piccolo ospedale, rispose il prete – vi sono già ricoverati cinque dei nostri, dei quali uno è morto e due in grave pericolo… Pure c'è ancora posto per uno… Il letto non è molto pulito… ma in questi momenti non si bada…
– Sta bene… A momenti giungeranno i carri delle ambulanze… Vi è un capitano tedesco che soffre orribilmente e domanda di riposarsi il più presto possibile. C'è qualche medico qui dentro?
– Il chirurgo se n'è andato poco fa… Il paese è pieno di feriti… Quei maledetti artiglieri di Ampola hanno tirato sui nostri tutti i fulmini e le saette dei loro arsenali… Non importa… Lei sa bene, signor sergente, che abbiamo fatto un po' di pratica anche noi… In caso di urgenza scommetto che ci riuscirei a tagliare una gamba come il più abile chirurgo dell'armata.
Mentre il cappellano parlava di tal guisa, la Guida era scesa dal cavallo. Il corteo de' prigionieri e dei feriti cominciava a sfilare. La lanterna del cappellano mandava un sinistro riverbero sulle faccie abbronzite dei cacciatori tirolesi e degli artiglieri che proseguivano il loro triste viaggio.
Da ultimo, giunsero i carri delle ambulanze. La Guida accennò al cappellano di accostarsi col lume, e fatto arrestare il veicolo ove il capitano tedesco giaceva ferito quasi privo di sensi, coll'aiuto di un infermiere lo trasportò nella casuccia.
Entrati nella stanza terrena, il cappellano indicò l'unico letticciuolo che ivi era disponibile. Vi adagiarono il moribondo, e tutti insieme, il cappellano, la Guida e l'infermiere, si diedero con pietosa sollecitudine a medicargli le ferite.
Quella stanza umida e tetra pareva l'albergo della morte.
Vi erano quattro letti, o piuttosto quattro pagliericci malamente dissimulati da certi drappi senza colore che non erano lenzuoli, non erano coperte, e somigliavano a grossi sacchi di tela.
Su ciascuno di quei letti era distesa una forma umana.
Un lumicino ad olio affisso alla parete e la lanterna del cappellano erano la sola luce di quelle tenebre.
All'entrare dei nuovi ospiti, uno dei feriti, levando la testa dal cappotto che gli serviva da guanciale, domandò con voce fioca: «ebbene? com'è finita la festa?»
– Ampola ha ceduto – rispose la Guida senza volgere il capo.
– E il caporale De Santi?..
– Vivo!
– Meno male!.. Domani gli darò mie notizie.
Un altro, che pareva più estenuato, senza muoversi dalla sua posizione, fece questa domanda: è dei nostri il ferito?
– No! gli è un capitano tedesco!..
– Un tedesco! – esclamò il ferito – badate che l'oste non sappia nulla… Avete capito? – fate attenzione a Gregorio!..
E la voce si tacque.
Il cappellano e la Guida, intenti a fasciare le ferite del capitano, non compresero quelle parole.