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PARTE I – PORFIDO ROSSO SANGUE
Capitolo 2

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Ottobre 1160 (Anno Mundi 6669), Balermus16, Palazzo Reale


Raccogliere il testimone di Re Ruggero sarebbe stato un compito arduo per chiunque. A causa della straordinarietà dell’uomo che era stato e della grandezza raggiunta dal suo regno, sarebbe diventato il termine di paragone per tutti i re che si sarebbero avvicendati sul trono di Sicilia… ed ovviamente, com’è facile immaginare, dal confronto quasi tutti ne sarebbero usciti rimpiccioliti.

La nascita di Guglielmo non era stata accolta col consueto giubilo riservato agli eredi al trono. Essendo solo il quarto dei figli avuti da Ruggero, era impensabile che un giorno potesse diventare il sovrano del glorioso Regno costruito da suo padre. E forse, proprio per questo motivo, il destino gli aveva riservato le qualità strettamente necessarie alla sua natura, solo ciò che gli sarebbe servito per vivere lontano dalle responsabilità di governo. Guglielmo era un coraggioso combattente, una qualità consona ai cadetti, ma per quanto riguardava i pregi che rendono un sovrano un buon sovrano, era mancante in tutto. La morte dei suoi fratelli l’aveva costretto a ricoprire un ruolo in cui, per tutta la durata del suo regno, sarebbe stato additato come incapace. Guglielmo era abulico, avaro e pieno di superbia. Non aveva abbastanza forza di carattere e volontà per prendere decisioni, e a differenza di Ruggero, il quale firmava tutto ciò che usciva dal Regio Palazzo, rimandava le questioni o delegava i suoi potenti ministri. Passava gran parte del suo tempo nelle splendide regge fuori Palermo, attorniato da paradisiaci giardini e lusso d’ogni genere, e qui, tra eunuchi e donne favorite, era solito abbandonarsi a smodati banchetti e piaceri sessuali. Del suo ruolo assolveva quindi solo gli aspetti piacevoli, e tutto questo mentre uomini più furbi e capaci di lui imperavano a proprio arbitrio. Spiccava tra tutti i suoi funzionari Majone di Bari, Emiro degli Emiri ed Arconte degli Arconti, chiamato Amiratus17 da quelli che contavano e Ammiraglio dal popolo. Questi era la vera mente del governo. Benché le origini di Majone fossero modeste, si era distinto già ai giorni di Ruggero per la sua effettiva intelligenza amministrativa e militare. Un uomo che tuttavia ricalcava i vizi della corte forse ancor più del Re e che sapeva imporre il potere regio con straordinaria crudeltà e violenza. Lo conoscevano bene i baroni della Terraferma che ci si erano scontrati durante l’ultima ribellione. Sarebbe bastato un qualsiasi giudizio, perfino il più benevolo, per indicarlo come la ragione di ogni male e di ogni sventura del Regno. Perfino i saraceni, benché parteggiassero per il Re, avevano da ridire su Guglielmo e sopratutto sul suo primo ministro. E alla fine, per le proprie e altrui mancanze, sarebbe stato proprio il Re a pagare il prezzo più alto, e l’avrebbe fatto con la reputazione riservata ai libri di storia, con quell’epiteto che avrebbe accompagnato il suo nome per tutta l’eternità: Guglielmo di Sicilia, detto il Malo.

Appena giunti a Palermo, Alessio venne condotto al Palazzo del Re e qui venne accompagnato da quel Basilio logotheta fino ad una sala ubicata nella torre chiamata Joharia18, presso le stanze del tesoro. La sala in questione era di medie dimensioni e dalla forma allungata. Inoltre aveva il soffitto a crociera e su un lato di essa si apriva una loggia che dava sul panorama di Palermo.

«Quando arriverà il Re è consuetudine che vi prostriate col viso al pavimento.» istruì il dignitario.

E di fatto non passò molto che Guglielmo d’Altavilla fece capolino nella sala insieme ad uno stuolo di uomini preziosamente vestiti, eunuchi e servi.

Guglielmo era un uomo alto, di aspetto pregevole, anche se in viso manifestava un minimo di trascuratezza dovuto probabilmente all’animo indolente e vizioso. Indossava una larga e lunga veste di foggia arabesca, a significare come nel suo perpetuo soggiorno a Palermo, nel suo eterno oziare tra i giardini e gli harem dei suoi palazzi, si fosse fatto influenzare dall’impronta culturale islamica della città.

«Basilio, è questo l’uomo di cui mi avevate parlato?» chiese Guglielmo una volta che l’ospite si rimise in piedi e ce l’ebbe davanti.

Il timbro della voce del Re lasciava trasparire tutta la mollezza del suo carattere.

«Come vi chiamate?» domandò quindi direttamente allo straniero, rivolgendosi in greco.

«Aléxios, Maestà.»

«Avete ucciso un uomo; perché un assassino compare oggi al mio cospetto?»

«In verità, Maestà, venni accusato ingiustamente…»

«Ingiustamente? Dite quindi che la giustizia del Regno sia fallace?»

«Non la giustizia in sé, Maestà, ma nel mio caso un uomo testimoniò il falso.»

Guglielmo sbuffò, come spazientito dalle discolpe di Alessio.

«Basilio, raccogliete quanto prima le rimostranze di quest’uomo…» comandò al logotheta, il quale rispose con un accenno di inchino.

«E tu, Mattia.» fece perciò ad uno degli eunuchi che lo accompagnava.

«Occupati di rendere presentabile il nostro ospite. Fallo radere, cambiare d’abito e lavare…»

E rivolgendosi a tutti:

«Che non mi sia più presentato qualcuno che non sia al meglio del suo aspetto… Non sopporto i visi scuri e tristi!»

«Me ne occuperò io, Maestà.» rispose quel tale Mattia.

«Bene, dagli cibo e comodità… e pure una donna se te la chiede. Questa corte tratta con rispetto gli uomini d’arte e di scienza!»

Fu allora che Guglielmo si sciolse dagli uomini del suo seguito e prese a passeggiare avanti e indietro nella stanza.

«In questa sala mio padre ricevette molti grandi uomini e prese importanti decisioni. Gli erano care queste quattro mura e gli era cara questa torre, così come gli era cara la vista della nostra amata Palermo guardando dalla loggia. Io ho continuato la sua tradizione e vi ho continuato a tenere le mie udienze private… tuttavia oggi intendo rendere questa sala un luogo di stupore, qualcosa che desti meraviglia, qualcosa degno della cappella del Palazzo e delle cattedrali edificate da mio padre.»

Alessio intanto studiava le pareti e il tetto osservando in tutte le direzioni.

Quando Guglielmo si accorse della distrazione del maestro d’arte, gli chiese:

«Per certo uno con le vostre referenze deve vedervi già l’opera compiuta…»

«In verità, Maestà, scrutavo le linee, la luce e gli spazi… ragionavo sul potenziale che queste mura possono esprimere.»

«E che cosa vedete oltre la pietra?»

Alessio si spostò al centro della sala e, guardando il vertice del tetto a crociera, propose:

«Quattro cherubini dai colori sgargianti, uno per lato!»

Guglielmo storse il muso… letteralmente.

«Niente santi e angeli! Le chiese costruite da mio padre sono già piene di queste immagini, ed io stesso ho continuato il decoro della cappella del Palazzo facendo raffigurare scene bibliche. Avete prestato servizio per l’Imperatore di Costantinopoli, dunque conoscete bene come rappresentare potere e regalità…»

Perciò, mimando con le mani, tutto preso dal progetto, sempre il Re spiegò:

«Il Paradiso… voglio che mi ricreiate il Paradiso! In questa sala concederò udienza privata ad ambasciatori, nobili e vescovi; desidero che ognuno di essi rimanga stupefatto. Si fa un gran parlare dei giardini delle mie residenze fuori Palermo, eppure molta di questa gente non li vedrà mai. Che se ne facciano un’idea osservando le pareti di questa stanza, così da invidiare e rabbrividire dinanzi alla bellezza e alla potenza del mio regno. Voglio tuttavia che nessuno, né l’Arcivescovo né l’ambasciatore dei fatimidi19, possa offendersi a causa di ciò che vede.»

«Si dice che i vostri giardini riproducano la perfezione dell’Eden.»

«I mori lo chiamano jannat al-arḍ20, il “paradiso della terra”.»

«Mi sia concesso di vedere, seppure da lontano, questo paradiso.»

«A che vi serve? Immaginate pure… e se è il caso esagerate!»

Quella fu l’ultima raccomandazione del Re prima di lasciare la sala insieme a tutti quelli con cui era giunto.

Dunque Alessio si catapultò su Basilio, il quale ancora tentennava ad andarsene, e gli chiese:

«Ascolterete davvero la mia discolpa, Signore?»

«È la parola del Re, ma voi prima dedicatevi a quello che dovete fare. Ricordatevi che ci metto personalmente la faccia nella riuscita del vostro talento e che se l’opera non dovesse piacere al Re, ci rimetterò con la mia reputazione. Finite il mosaico e, dopodiché, se avrò avuto successo tramite voi, vi prometto che non solo ascolterò la vostra discolpa, ma farò di tutto per rendervi un uomo libero.»

Quindi Onesimo, finora intimorito dalla presenza di Guglielmo, intervenne:

«È bene dunque iniziare subito!»

«Mi occuperò io stesso della fornitura dei materiali. Sarò il tramite col mondo esterno, poiché per quanto vi riguarda, finché non avrete finito l’opera, non potrete lasciare questa stanza.» spiegò Basilio.

Alessio sorrise ed esclamò:

«Una prigione per certo più piacevole di quella in cui stavo!»

Fu in quel momento che rientrò l’eunuco Mattia, ovvero colui che era stato incaricato di dare ad Alessio una parvenza più consona al luogo in cui soggiornava.

16

Balermus: nome di Palermo durante il periodo normanno. Si tratta della latinizzazione del nome arabo Balarm, che differisce tuttavia dall’antico nome latino Panormus. Da Balermus deriva l’attuale Palermo. Nelle intestazioni dei capitoli il nome delle città è pressoché quello in latino degli atti ufficiali dei normanni di Sicilia.

17

Amiratus: latinizzazione dell’arabo ‘amir (emiro). Era il titolo riservato al primo ministro del Regno di Sicilia in epoca normanna, chiamato per esteso anche Emiro degli Emiri (ovvero Amiratus Amiratorum), o Arconte degli Arconti (dal termine greco che significa primo magistrato). La parola italiana Ammiraglio deriva appunto dall’arabo ‘amir, avendo subito alla spiccia i seguenti passaggi: ‘amir > Amiratus > Amiralius > Ammiraglio. Tali trasformazioni linguistiche e semantiche avvennero alla corte siciliana. Proprio qui, infatti, la parola Ammiraglio, che inizialmente indicava una sorta di primo ministro con poteri plenipotenziari, finì per indicare il comandante generale della marina militare.

18

Joharia: dall’arabo al-jawhariyya, col significato di “ingioiellata”.

19

Fatimidi: potente dinastia musulmana (sciita ismaelita) che dominò il Nordafrica dal X al XII secolo.

20

Jannat al-ard: letteralmente “paradiso della terra”. Da questa parola deriva Genoardo, termine con cui si indicava il parco dei re normanni di Sicilia.

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