Читать книгу La donna fiorentina del buon tempo antico - Isidoro Del Lungo - Страница 10
VI.
ОглавлениеTale, nella realtà dei fatti, la donna che i Fiorentini dei primi secoli ebbero compagna della vita, a tutto il periodo schiettamente democratico del Comune; fermandoci sul declinare del Trecento, quando, sfuriati i Ciompi, l'aristocrazia borghese piglia campo, e paladini del popolo, pericolosi paladini, si fanno avanti i Medici. Tale la donna di quella antica Firenze: austera e gentile figura, che a sè dice della gloria di cotesta età tanta parte esser dovuta, quanta fu quella ch'ella prese nella operosità, nei dolori, ne' virili propositi, ne' luminosi concetti, ne' passionati traviamenti, d'un popolo forte, d'una democrazia degna veramente di tal nome, perchè senza declamazioni operante con gagliardia e per sentimento di cose grandi.
Se non che la realtà è solo un aspetto della storia nè sempre il più agevole a risapersi e a ritrarsi; e che anche quando si dà a divedere con sufficiente larghezza, lascia pur sempre luogo da un lato alla leggenda, dall'altro alle idealità dell'arte, trasformatrice quella, imitatrice questa, del vero, di cui la realtà è la identificazione. Ma se vasto è il campo nel quale la donna fiorentina potrebbe considerarsi, in relazioni più o meno strette, più o meno dirette, con le idealità della poesia e delle arti nei secoli iniziali della moderna cultura, altrettanto angusto, è, come in ogni altro ordine d'idee e di fatti fra noi, così anche in questo, il dominio della leggenda. È già stato osservato da parecchi, che la fioritura leggendaria, nelle età che l'avrebber portata, scarseggiò in Italia; e ciò perchè, lo dirò con le parole d'un critico tedesco,[97] «gl'Italiani avevano dietro a sè un'epoca di grande cultura nell'antichità, le cui traccie non si erano mai interamente perdute, essi non uscirono da un tempo di barbarie: e quindi mancavano loro appunto.... tradizioni, la origine delle quali risalisse a tempi oscuri e mitici». Siffatta condizione storica rivolse verso fonti oltramontane il naturale appetito delle plebi al maraviglioso, originando quella poesia romanzesca, la quale solamente fra noi doveva inalzarsi a creazioni d'arte grandiose e squisite; siffatta condizione storica, anche per altri o cicli tradizionali, o temi individui di leggenda, fu causa che il remoto e l'esotico apparissero quasi essenzial condizione perchè un soggetto addivenisse leggendario. Ciò premesso, sembrerà piuttosto troppo che poco, trovare circonfusa del nimbo della leggenda qualche figura di donna fiorentina, e non dai due primi secoli del Comune, sibbene da quelli della sua piena maturità.
Al secolo XIV sembra invero appartenere, se si considerano le circostanze dei fatti, il soggetto della novella, fin dal XV popolare, e tale conservatasi, specialmente nella sua forma metrica, fino a' di nostri, di Ippolito e Lionora;[98] una delle tante versioni sotto le quali si è perpetuata la leggenda dell'amor contrastato, da Piramo e Tisbe agli amanti veronesi che Guglielmo Shakspeare e Vincenzio Bellini hanno resi immortali. Ma nella leggenda fiorentina mancano e la catastrofe tragica, conchiudendosi l'amore con lieta fine, e quasi la forma stessa di leggenda, alla cui scarna semplicità subentrano le forme tornite e conversevoli della novella. Ippolito de' Buondelmonti ama la Lionora, o Dianora, de' Bardi, e n'è riamato, nonostante la nimicizia che, sebben guelfe ambedue, divide le loro famiglie. Disperato del proprio amore, il giovane si consuma e ne inferma; e alla madre, che piangendo lo interroga, rivela la segreta cagione del suo languire. L'amore materno spinge le donne, non avvisando altro mezzo, a pregare una zia di Lionora, abbadessa nel convento di Monticelli, che procuri di far trovare insieme i due amanti. Il che avuto effetto e giuratasi fede di sposi, e stabilito come rivedersi con maggior agio nella casa di Lionora, nel recarvisi Ippolito nottetempo, è fermato dalla famiglia del Potestà. Egli, per salvare l'onore della donna amata, si dà per ladro, e tale persiste a dichiararsi, nonostante l'onta e la desolazione de' suoi; tacendo, a quel che sembra, le donne, per ispavento che, risapendosi il vero, le due famiglie e respettive consorterie non s'arrovescino l'una contro l'altra, e prima vittima sia lo stesso Ippolito. Il giovine generoso, condannato a ignominiosa morte, prega, per la salvezza almeno dell'anima, «che vi piaccia, nel mandarmi alla giustizia, che io faccia la via alla casa de' Bardi, acciò che gli possa domandare perdono dell'odio che io come inimico ho portato loro»; ma in realtà, «solamente per vedere una volta Lionora, prima che morisse». Gli è concesso; e il lugubre corteggio, a suon di trombe e con lo stendardo della giustizia alla testa, s'incammina: Lionora si fa alla finestra, e gli sguardi de' due sposi s'incontrano: allora ella «come furiosa discende la scala, a malgrado di tutte le donne di casa...., si gitta fuori della porta, afferra per la briglia il cavallo del cavaliere del Potestà, e grida: Finchè la vita mi starà nel corpo, tu non menerai Ippolito alla morte, la quale lui non ha meritata.» E si gitta nelle braccia del condannato. Il cavaliere non sa che si fare, la gente romoreggia; la Signoria chiama a sè i due giovani: «Ippolito, legato con la corda intorno al collo, e Lionora scapigliata e piangente, seguendoli gran copia di popolo». La giovine si fa innanzi e domanda ragione: «cioè, che voi mi rendiate il mio marito e sposo; altrimente io appello a Dio ed al mondo, chiamando vendetta di tanta ingiustizia, pregando Dio che con i suoi giusti occhi riguardi le vostre inique sentenze e malvagi giudizi.» La Signoria, verificati i fatti, chiama i padri de' due sposi: «li quali intendono la cosa per dritto modo, e quivi in presenza de' Signori e del popolo, fermano il parentado. E dove già duecento anni i Buondelmonti e i Bardi erano stati inimici a morte, divennero amicissimi per il parentado che tutti parevano d'uno sangue.» Vedete, o Signore gentili, che la leggenda ha pur voluto dare la sua eroina a Firenze, e l'ha chiesta all'amore.
Amorosa pure è la leggenda della sepolta viva; che il suo rozzo cantastorie quattrocentista riferisce al 1393. Ginevra degli Amieri (Almieri, per corruzione popolare) è amata da Antonio dei Rondinelli, ma dal padre sposata invece a Francesco degli Agolanti. Infermatasi e tramortita è, in que' sospetti di morìa, creduta estinta, e la seppelliscono da Santa Reparata. Ritorna ai sensi dentro la tomba, si accorge dell'atroce suo caso, si raccomanda alla Vergine, e guidata da un debole raggio di luna che trapela da uno spiraglio del sepolcro, sale una scaletta, riesce a smuovere la pietra testè murata; ed ecco la sua bianca figura, che rasente al Campanile, pel chiasso che poi da lei si vorrebbe essere stato chiamato della Morte, incamminasi alla casa del marito. Batte, ed è il marito stesso che si affaccia alla finestra;
Chi è la? chi batte? — Io son la tua Ginevra.
Non m'odi tu?...
Il marito spaventato si fa il segno della croce, promette a quella pover'anima errante orazioni e messe, e si ritira. Ginevra prosegue alla casa paterna, in Mercato Vecchio. Bussa; e si affaccia la madre.
Aprite.... io son la vostra figlia. —
Va' in pace, anima benedetta.... —
E riserrò la finestra con fretta.
La sventurata
fece del cor ròcca, e tirò via
sempre piangendo, misera dolente:
e incontra la stessa accoglienza sotto la casa d'un suo zio. Allora si ricorda del virtuoso amante; va alla sua casa: egli, pur credendola spirito,
vuol veder se tal spirito gli nuoce:
scende, la raccoglie, chiama la madre e le altre donne di casa; la confortano, l'assistono, la salvano. Ella vuol esser come morta al marito che l'ha seppellita, e passare a seconde nozze con l'uomo pel quale è rivissuta. Sostiene la sua causa dinanzi alla curia vescovile, e la vince. L'Amore questa volta (bene è stato detto da chi illustrò criticamente la leggenda)[99] l'Amore trionfa della Morte.
Ma, non che antica, antichissima sarebbe, e non di amore ma civile e patriottica, una tradizione che risale nientemeno che a' tempi di Totila; se però non si avesse piuttosto a tenere come una postuma trovata del popolo. Il re barbaro, entrato per inganno in Firenze, si è insediato nel centro della piccola città romana, nel palazzo del Campidoglio. E volendo toglier di mezzo «li maggiori e più possenti caporali della terra, li fa uno giorno richiedere a suo consiglio in grande quantità. E come giugnevano in Campidoglio, passando ad uno ad uno per uno valico di camera, gli faceva uccidere e ammazzare, non sentendo l'uno dell'altro, e poi i corpi gittare negli acquidocci».[100] Una trecca di mercato, che ha la sua botteguccia accanto alla chiesa di San Pietro lì presso, entrata in sospetto, avverte i cittadini «guardino bene, chè, come ha quella favola d'Esopo, di quanti vi sono entrati, niuno se n'è veduto uscire». Il che salva la vita a molti, e guadagna alla chiesa il nome di San Pier Bonconsiglio;[101] ma non impedisce la distruzione della città per mano del barbaro. La trecca e Totila poi si sono convertiti, e ciò a' dì nostri, egli nel più aborrito fantasma di tirannide che sia rimasto nella memoria del popolo fiorentino, il Duca d'Atene, ed essa nella Cavolaia di Firenze; il Consiglio de' maggiorenti al Palazzo del Campidoglio è addivenuto una veglia in maschera, con annessi trabocchetti, nella residenza ducale; e la maggior campana del Duomo, che d'inverno suona per l'ultima volta a sera inoltrata, e che al buon tempo dei nostri nonni, quando si andava a letto presto per alzarsi all'alba, faceva segno della cessazione delle veglie, è per la plebe la campana della Cavolaia, e rammenta come per opera di questa brava fiorentina la veglia micidiale del Duca finisse (nessun istorico lo sapeva) con la sua ignominiosa cacciata. La Cavolaia di Firenze, eroica moglie di Stenterello, divide oggi gli onori del teatro popolare fiorentino con la Ginevra degli Almieri, della quale il suddetto Stenterello è pur diventato non so se dissotterratore o che altro. I suoi personaggi la plebe, una volta attiratili a sè, li avvolge nelle spire di simpatie secolari, che si modificano, si trasformano, ma morire del tutto, non muoiono mai.
E un altro amore tradizionale del popolo fiorentino è, pure in questa età del Comune democratico, monna Tessa, la virtuosa fantesca di Folco Portinari, che per consiglio e cominciamento principalmente di lei si vorrebbe avesse fondato lo spedale di Santa Maria Nuova.[102] Al popolo, che vede scolpita in marmo la imagine della caritatevole donna sul limitare della grande casa, ospitale alle sue infermità e alle sue miserie, vano sarebbe, se già non fosse una pedanteria crudele, ammonirlo che la tradizione di monna Tessa, attestata sotto quel marmo da una iscrizione del secolo XVII, è tanto dubitabile quanto è, a ogni modo, evidente che cotesto mezzo rilievo, posteriore almeno di un secolo ai tempi ne' quali ella sarebbe vissuta, e che anticamente era collocato in una delle cappelle della chiesa, non è se non la effigie o d'una benefattrice del luogo pio, o d'una delle oblate addette ad esso. La tradizione poi, è molto probabile che avesse occasione od appiglio da una iscrizion del Trecento, che scolpita in rozzi caratteri gotici era sulla mensa dell'altare di quella medesima cappella, e vi rimase almeno fino al 1647, e dove si raccomandava l'anima d'una monna Tessa, moglie di Tura bastaio, la quale aveva fatto costruire cotesto altare.[103] Oltre a ciò, riescirebbe malagevole attribuire tanta potenza di effetti all'opera d'una femminella di condizione servile, in tempi ne' quali tale condizione rimaneva tuttavia molto prossima alla schiavitù; e schiave infatti le chiamavano, e dall'Oriente ne condussero e tennero effettivamente di tali.[104] Ma non è egli bello che il popolo lasci tutto questo, ed altro ancora, alla nostra saccenteria, e si tenga per sè la imagine cara della sua monna Tessa, fantesca poveretta; e di questa umile donna che sarebbe uscita da lui, esperta del suo patire, passata nel mondo fra i medesimi dolori, faccia egli a sè come l'angelo consolatore di questi dolori, la confortatrice di quei patimenti? Certo, io credo, non sarebbe mai una donna, per dottissima ch'ella fosse, che aspirerebbe alla gloria di combattere l'autenticità di monna Tessa. Più facile invece, che qualche rappresentatrice ingegnosa di quel vero, il quale, fuor d'ogni contingenza di persone e di tempi, è suggello perpetuo dell'essere umano, la ritragga nelle case dei Portinari, tutta intesa alle faccende domestiche, abbellire di carità la vita rassegnata e paziente, e disporre al soccorso dei poveri l'animo del ricchissimo messer Folco e della moglie sua madonna Cilia de' Caponsacchi: e pargoletta sulle ginocchia della povera serva, la loro figliuola, la predestinata Beatrice.
Nel nome di Beatrice, le realtà della storia e le fantasie della leggenda si congiungono con le idealità superbe a cui l'arte del bello solleva la manifestazione del bello più eletta fra le create, la donna. Ed io tocco i limiti che ho assegnati alla mia lettura. Non potrei lasciarvi con nome di donna fiorentina che suoni più alto e più soave. Da nessun'altra delle tombe della vecchia Firenze, alle quali abbiamo richiesta la donna del nostro antico glorioso Comune, da nessuna la donna fiorentina si solleva irraggiata di tanto splendore. E se, come di Folco,[105] fosse a noi rimasta la tomba di Beatrice Portinari, c'inchineremmo su quella forse con non minor reverenza che sul sepolcro dell'esule amante in Ravenna.