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V.

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Il Trecento, adunque, è nella storia di Firenze, comparativamente all'età che lo precede, secolo di confermamento e di stabilità. «Nuovo popolo», come dicevano, non si fa più. Non mancano le grandi commozioni, i grandi pericoli, i grandi rovesci eziandio: la città è assediata da Arrigo VII; minacciata da Uguccione, e più gravemente da Castruccio; stremata del suo miglior sangue nelle battaglie di Montecatini e dell'Altopascio; le calate imperiali del Bavaro, di Carlo IV, mettono alla prova il senno e la borsa de' suoi mercatanti; questa è munta gagliardamente dai sovrani quasi di tutta Europa; i reali di Francia e di Napoli vengono a spadroneggiarci in casa; un loro venturiero crede di essercisi insediato signore e duca; la travagliano, con le armi e con le cupidigie, Scaligeri e Visconti, i Papi Avignonesi e le Compagnie di ventura; le epidemie, ed una sopra tutte spaventevole, la disertano; la tirannide guelfa turba l'equilibrio delle Arti, e provoca gli eccessi della demagogia: ma lo Stato rimane pur sempre saldo a tutti questi urti, fra tutte queste burrasche; saldo tanto, che il rivolgimento verso l'oligarchia si compie senza mutazioni, nè di forma nei magistrati, nè di sostanza nella politica del Comune. E così può Firenze, durante questa età gloriosa, svolgere nelle forme più ampie e sino a' più alti gradi la civiltà sviluppatasi faticosamente dalle tenebre dei bassi tempi; d'industrie e commerci alimentarla, afforzarla, propagarla nel mondo; farle ministre le arti del bello figurato, che Arnolfo, Giotto e l'Orcagna, maestri e operai del Comune, improntano di quella gentil compostezza che d'ora innanzi si chiamerà toscana; ai dispersi elementi dell'eloquio latino, che di regione in regione italica vennero atteggiandosi a lingua di popolo, dare Firenze la forma, farne il verbo della nazione, anzi già il valido istrumento d'una letteratura, che, intorno a un altro grande triunvirato fiorentino, si afferma italiana.

Di questa vita, tanto più spirituale e civile quanto meno agitata e procellosa, la donna, resa quasi ad aere più spirabile, partecipa, com'è naturale, e ne gode largamente. Nella istoria di lei, il dramma fa luogo alle contingenze, or liete or tristi, del familiare e cittadino consorzio; è finalmente ai tesori della bellezza e della tenerezza sua, ispiratrici, ricomposto il nido domestico, com'era a tempo delle avole buone, ma ora la ricchezza e l'arte gareggiano in adornarlo: e i mercatanti di Calimala e di Por Santa Maria, quasi a consolarla de' lunghi abbandoni, serbano a lei le primizie de' panni che recarono d'oltremonte, e che trasformati e triplicati di pregio rivarcheranno le alpi ed il mare.

Ed ella non sarebbe donna, se di quella ricchezza, di quelle appariscenze, che son poi infine lieto testimonio della forza e della prosperità del Comune, la non si compiacesse, e non se ne circondasse volenterosa. Ed hanno un bel gridare i religiosi dal pergamo; e Dante anche questa voce del tempo suo (e quale gliene sfugge?) ha raccolta; hanno un bell'ammonire e minacciare e interdire, e aggiungere le «spiritali» alle altre «discipline»,[81] che correggono e frenano i mondani splendori e il trascorrere nelle pompe e nel lusso.... Ma sono così belli, sotto il raggio meridiano del sole di primavera o ne' rosei tramonti autunnali, quelli svariati colori, quegli arienti, quell'oro, su quelle teste bionde, intorno a que' candidi colli, a prova con lo scintillare di que' neri occhi pensosi! paion fatti apposta que' fini broccati per disegnare le vite snelle e flessuose che aspettano di essere abbracciate pel ballo! quelle perle e pietre preziose, e i segni e lettere nella cui forma sono disposte, che significato e qual valore avrebbero, se fossero risparmiate a que' petti esuberanti di giovinezza e d'amore?

Ed ecco che il Comune, rigido ed inflessibile mantenitore de' proprî diritti, arma l'Esecutor della legge, di capitoli e statuti suntuarî[82] severissimi «contra i disordinati ornamenti delle donne di Firenze»; le quali piegano crucciose il capo, e di mala voglia obbediscono: siamo nel 1324. Ma son passati appena due anni; e tolta occasione dalla venuta del duca di Calabria, chiamato al solito esercizio di signoria angioina sulla guelfa repubblica, le donne si fanno attorno alla duchessa sua moglie, che è una francese, Maria di Valois; e ottengono sia loro reso «uno loro spiacevole e disonesto ornamento» (è la borghesia che brontola per bocca di Giovanni Villani)[83] «di trecce grosse di seta gialla e bianca, le quali portavano in luogo di trecce di capelli dinanzi al viso...., ornamento disonesto e trasnaturato....: e così il disordinato appetito delle donne vince la ragione e il senno degli uomini». Una corte ducale,[84] quel codazzo cortigiano e francese, operano, ne' pochi anni che Firenze se li gode, il proprio effetto: e i Fiorentini, per calen d'aprile del 1330, «tolgono tutti gli ornamenti alle loro donne», e, si può ben dire con una parola di stampo adatto al caso, le disabbigliano da capo a piè. Sentite![85] «Essendo le donne di Firenze molto trascorse in soperchi ornamenti di corone e ghirlande d'oro e d'argento, e di perle e pietre preziose, e reti e intrecciatoi di perle, e altri divisati ornamenti di testa di grande costo; e simile, di vestiti intagliati di diversi panni e di drappi rilevati di seta, e di più maniere, con fregi e di perle e di bottoni d'ariento dorato ispessi, a quattro e sei fila, accoppiati insieme; e fibbiati di perle e di pietre preziose al petto, con diversi segni e lettere; e per simile modo facendosi conviti disordinati per le nozze delle spose, ed altri, con più soperchie e disordinate vivande; — sopra ciò si provvede e si fanno ordini, che niuna donna non possa portare nulla corona nè ghirlanda, nè d'oro nè d'ariento nè di perle nè di pietre nè di seta, nè niuna similitudine di corona nè di ghirlande, eziandio di carta dipinta; nè rete nè trecciere di nulla spezie, se non semplici; nè nullo vestimento intagliato nè dipinto con niuna figura, se non fosse tessuto; nè nullo addogato nè traverso, se non semplice partita di due colori; nè nulla fregiatura, nè d'oro nè d'ariento nè di seta, nè niuna pietra preziosa, nè eziandio ismalto nè vetro; nè potere portare più di due anella in dito, nè nullo scheggiale nè cintura di più di dodici spranghe d'argento; e che d'ora innanzi nulla si possa vestire di sciamito, e quelle che l'abbiano il debbano marcare, acciò che l'altra nol possa fare; e tutti i vestiri di drappi di seta rilevati sian tolti e difesi; e che nulla donna possa portare panni lunghi dietro più di due braccia, nè iscollato di più di braccia uno e quarto il capezzale; e per simile modo siano difese le gonnelle e robe divisate a' fanciulli e fanciulle, e tutti i fregi, ed eziandio ermellini, se non a' cavalieri e a loro donne; e agli uomini tolto ogni ornamento e cintura d'argento, e' giubbetti di zendado o di drappo o di ciambellotto. E nullo convito si possa fare di più di tre vivande, nè a nozze avere più di venti taglieri,» (che val quanto non più d'una quarantina di convitati) «e la sposa menare sei donne seco e non più; nè a' corredi di cavalieri novelli più di cento taglieri di tre vivande; e a corte de' cavalieri novelli non si possano vestire per donare robe a' buffoni». Sopra i detti capitoli, continua la cronica, feciono uficiale forestiere a cercare e uomini e donne e fanciulli delle dette cose diviete con grandi pene. E impongono norme e tariffe alle arti e allo spaccio delle derrate: e curano insomma l'interesse e la masserizia delle famiglie, senza darsi pensiero del danno che ne sentono specialmente «i setaiuoli e orafi», costituenti una medesima Arte, «che per loro profitto ogni dì trovavano ornamenti nuovi e diversi». Conchiude la cronica:[86] «I quali divieti fatti, furono molto commendati e lodati da tutti gli Italiani; e se le donne usavano soperchi ornamenti, furono recate al convenevole: onde forte si dolsono tutte, ma per gli forti ordini tutte si rimasono degli oltraggi» (cioè da quelli eccessi); «e per non potere avere panni intagliati, vollono panni divisati e istrangi i più ch'elle poteano avere, mandandogli a fare infino in Fiandra e in Brabante, non guardando a costo. Ma però molto fu grande vantaggio a tutti i cittadini in non fare le disordinate spese nelle loro donne e conviti e nozze, come prima faceano; e molto furono commendati i detti ordini, perocchè furono utili e onesti; e quasi tutte le città di Toscana, e molte d'Italia, mandarono a Firenze per esempio de' detti ordini, e confermargli nelle loro città».

Ma chi dovette trovarsi a disagio, proseguiremo noi, furono quelli «ufficiali forestieri», deputati dal Comune all'applicazione della legge, ossia a combattere per essa contro il malumore e l'astuzia delle donne fiorentine, congiurate per la difesa del loro abbigliamento. Delle tante grottesche figure, in cui la gaia novella borghese ha atteggiato quei poveri potestà e capitani, cavalieri e giudici, notai e famigli, che le città guelfe di Lombardia e delle Marche mandavano per rettori a Firenze; e sui quali si motteggiava proverbialmente: «Se tu hai niuno a chi tu vogli male, Mandalo a Firenze per ufficiale»;[87] non ve n'è forse nessuna così argutamente comica, come quella disegnata da Franco Sacchetti[88] d'uno «iudice di ragione» (de' suoi tempi die' egli, ma al dabben giudice non mancarono di certo predecessori anche in questa tribolazione, e Statuti suntuarî fiorentini ne possediamo fin del 1306, e testimonianza di essi fin dal 1290),[89] il quale messosi di buona lena, egli ed un suo notaio, ad eseguire certi nuovi ordini, al solito, «sopra gli ornamenti delle donne», l'effetto n'è, e i cittadini ne fanno le giuste meraviglie presso i Signori, che «l'oficiale nuovo fa sì bene il suo oficio, che le donne non trascorsono mai nelle portature, come al presente fanno.» Or ecco la risposta di messer Amerigo al rimprovero de' signori Priori: «Signori miei, io ho tutto il tempo della vita mia studiato per apparar ragione; e ora, quando io credea sapere qualche cosa, io trovo che io so nulla: perocchè cercando degli ornamenti divietati alle vostre donne per gli ordini che m'avete dati, sì fatti argomenti non trovai mai in alcuna legge, come sono quelli ch'elle fanno; e fra gli altri ve ne voglio nominare alcuni. E' si truova una donna col becchetto frastagliato avvolto sopra il cappuccio. Il notaio mio dice: Ditemi il nome vostro, perocchè avete il becchetto intagliato. La buona donna piglia questo becchetto, che è appiccato al cappuccio con uno spillo, e recaselo in mano, e dice ch'egli è una ghirlanda. Or va' più oltre, truovo molti bottoni portare dinanzi. Dicesi a quella che è trovata: Questi bottoni voi non potete portare. E quella risponde: Messer sì, posso, che questi non sono bottoni, ma sono coppelle: e se non mi credete, guardate, e' non hanno picciuolo; e ancora, non c'è niuno occhiello. Va il notaio all'altra che porta gli ermellini, e dice: Che potrà apporre costei? Voi portate gli ermellini. E la vuole scrivere. La donna dice: Non iscrivete, no; chè questi non sono ermellini, anzi sono lattizzi. Dice il notaio: Che cosa è questo lattizzo? E la donna risponde: È una bestia.» I magnifici signori Priori, che conoscevano le loro donne meglio di messer Amerigo da Pesaro, dicono l'uno con l'altro: «Noi abbiamo tolto a contender col muro. Me' faremo attendere a' fatti che portano più. Chi vuole il malanno se l'abbia.» E infine esclama uno, dicerto il più dotto della orrevol brigata: «Io vo' che voi sappiate, ch'e' Romani non poterò contro le loro donne: che vinsono tutto il mondo; ed elle, per levar gli ordini sopra gli ornamenti loro, corsono al Campidoglio, e vinsono i Romani, avendo quello che voleano». E cita Tito Livio, e vi dissertano sopra. E a messer Amerigo dicono, faccia quello ch'e' può, e tiri via, e lasci correre le ghirlande e le coppelle e i lattizzi; e così, d'allora in poi, narra il novelliere essere stato fatto, conchiudendo che l'uomo propone e la donna dispone, proverbio (come sentite) assai antico, e che le donne fiorentine, senza studiare giurisprudenza, hanno saputo portare le loro fogge a dispetto delle leggi e de' dottori di queste.

Del resto, quelle severità suntuarie di cui possediamo documenti bellissimi per la storia sì del costume e sì della lingua;[90] le quali limitavano la misura de' corredi nuziali, o come dicevano delle «donora», che la sposa portava al marito; e proporzionavano alla dote il longobardico morgincap, o dono del mattino, che questi faceva a lei la mattina dopo il matrimonio; e frenavano, com'abbiam sentito, il lusso e l'abbondanza delle feste e dei conviti; sarebbero oggi per noi violazioni di libertà individuale e quasi di domicilio. Eppure un alto concetto democratico animava anche coteste disposizioni, in quanto si voleva per esse, che il festeggiare de' cittadini fosse il più possibilmente pubblico anzichè privato. «Un sentir comune voleva comuni piaceri: le spese del ricco dovevano sempre avere qualche cosa di popolare; fatte a pubblico benefizio e spettacolo, dovevano essere un godimento per tutti. Nei palazzi, ciò che poi furono i salotti, allora era, aperta alla vista di tutti, la loggia. Per tal modo un paio di nozze rallegravano l'intera città: il ricco pagava le feste al povero per goderle insieme con lui: i giovani armeggiavano, le donne ballavano, sulle piazze, all'aria aperta, non al fumo di candele, nell'uggia de' salotti». Queste cose, di quella età democratica del Comune fiorentino, scriveva nel 1836 un giovine patrizio; il quale doveva poi da vecchio, a tutta Italia anzi alla civile Europa venerando, essere il degno storico della nostra Repubblica: il marchese Gino Capponi.[91]

Altra materia, che di siffatte osservazioni morali, non è da aspettarsi ci offra, intorno alla donna, come già dissi, la storia fiorentina di quel secolo: non la storia de' fatti politici, per le ragioni che vedemmo; non la storia della cultura, in tempi ne' quali i limiti di questa erano tracciati così rigidamente, che la denominazione di uom colto era «cherico», e gran mercè se alla donna rimaneva posto fra il laicato. La Compiuta Donzella, se è, come pare, «non ombra, ma donna certa», rimane un'eccezione, come tutte le regole hanno la sua: nè della cultura della donna in Firenze dal Due al Trecento altre testimonianze sapremmo indicare, all'infuori di qualche volgarizzamento dal latino che vedesi fatto a loro istanza, come quello delle Eroidi d'Ovidio (che chiamavano «Libro delle donne»), a istanza di madonna Lisa Peruzzi condotto da ser Filippo Ceffi notaio;[92] o, più spesso, i volgarizzamenti che religiosi o altre persone spirituali, pure ad istanza di donne, facevano di testi sacri od ascetici.[93] E dovremmo poi dire che il precettor cortigiano che la donna fiorentina di quella età ebbe in Francesco da Barberino, mostra evidente che di qualunque virtù più che di cultura preme a lui che la sua donna ideale si addobbi; fino a porre in dubbio (tutto ben considerato, anche i pericoli) se sia bene o male ch'ella sappia «lo leggere e lo scrivere», ancorachè sia di grande condizione; e sole eccettuando, manco male, le destinate a monacarsi.[94] Ma oltre la storia politica e la storia della cultura, noi possiam pure interrogare una storia, le cui pagine, scritte senza intenzione d'arte anzi non per un pubblico qualsiasi, a null'altro quasi hanno servito sin oggi che a documento di lingua, e sono le Croniche o Ricordanze domestiche: ed una di queste,[95] che proprio comprende nel suo bel mezzo il Trecento, offre al nostro studio, non geste e imprese di certo, bensì più d'una fisionomia femminile.

Le parole di messer Donato Velluti, che io riferirò testuali e dal manoscritto suo autografo, vi faranno qui rivivere coteste donne, quali egli, nella casa propria o de' consorti, le vide: «care e buone» le più; testimonianza affettuosa, e troppo in quelle schiette sue pagine frequente,[96] cosicchè io non debba ripeterla, anche a compenso di giudizi sulla donna, e del Trecento e dell'Ottocento, non sempre benigni. Sceglierò tipi diversi. E prima, poichè abbiamo avuto testè a parlare di fogge e mode, sia d'una alla quale l'avere il capo ben assettato giovò a qualche cosa. «Monna Diana fu una bonissima donna, e molto amore mi portava...., e assai mi teneva a Bogoli quando era fanciullo. Portava molto in capo: intanto che essendo una volta al palagio vecchio de' Rossi, dirimpetto a Santa Filicita, ove oggi è l'albergo, e cadendo d'in sul palagio una grande pietra, e cadendole in capo, non la sentì, se non come fosse stata polvere venuta giù per razolire di polli: onde ella, sentendosi, disse: — Chisci, chisci; — e altro male non le fece, per cagione de' molti panni ch'avea in capo». Resistente, del resto, e gagliarda, era soprattutto la fibra, non meno di quelle donne, che degli uomini loro; e sentite come guardavano in faccia la morte: «Sopravvenne la mortalità del 1348: ed essendo già morti il detto Gherarduccio e sua figliola e le serocchie, et essendo il detto Cino», l'ultimo rimasto di tre fratelli, «e sua donna in contado al detto podere dal Poggio, infermarono; et essendo infermi, deliberarono di venire», cioè alla città. «Ed essendo presso i fratelli della moglie, gli feciono fare testamento.... E poi si partirono: e la donna ne fu recata in istanghe, e giunta l'andai a visitare; e egli ne venìa a cavallo in sella, e uno gli era in groppa. Di che dopo la detta visitazione, essendo io ito in Borgo San Iacopo a la sepultura di Bernardo Marsili, il quale era morto essendo de' Priori,» (e lo stesso, di morire essendo de' Priori, in Palagio, toccò allo scrittore ventidue anni appresso) «e tornando, essendo in capo del chiasso, vennono due a una ora, e l'uno disse: — Monna Lisa è morta; — e l'altro disse: — Cino è morto a l'Olmo da San Gaggio, a cavallo, venendo di villa. — Fecili sotterrare.....». Ritratto di due buone ragazze, invecchiate in casa co' fratelli: «Le dette Cilia e Gherardina non si maritarono: stettono un grande tempo pulcelloni, con speranza di marito; poi fuggita la speranza per non potere, si feciono pinzochere di San Spirito. Guadagnavano bene, e francavano la loro vita, e più, dipanado lana; sanza che, non fece mai bisogno a' detti fratelli tenere fante. Erano amorevoli molto, e grandi favellatrici. Morirono per la detta mortalità del 1348, essendo ciascuna d'età di quaranta anni e più». Ma ben altra donna una madonna Gilia, che in casa dei fratelli ritorna da vedova, e piena d'affari e di brighe, e «consumò molto in piatire, nel quale molto si dilettava, però che era et è molto astuta e rea; e tanto vi consumò, che non vogliendo vendere delle possessioni, vilmente vivea e vestiva, tutto dì cercando Firenze....., e oggi vive in mendicume». Ma ecco qua due figure simpatiche: di una donnina da casa, «monna Lisetta, piccola della persona, ma savia e buona donna», che dopo la morte del marito rimane in casa co' figliuoli, onestamente vivendo, e governando i detti suoi figliuoli», che le muoion giovanissimi, ed ella pure nella mortalità del 1363; — e di una bella sposa, di quelle che, guardate negli affreschi o nelle tavole de' nostri maestri, ci fanno non solamente ammirare ma pensare, «monna Ginevra Covoni, più bella e maggiore di niuna sua serocchia, e sanza vergogna delle altre, fu delle vertudiose savie e facenti donne che io vedessi mai, e quella che per l'amorevolezza sua e piacevolezza e bontà si facea volere bene a ogni persona». Finalmente la madre del cronista e la moglie: «Monna Giovanna, mia madre, fu savia e bella donna, molto fresca e vermiglia nel viso, e assai grande della persona onesta e con molta virtù. E molta fatica e sollecitudine durò in allevare me e' miei fratelli; considerato, che si può dire non avessimo altro gastigamento, e spezialmente di padre, però che quasi del continuo nostro padre stette difuori: per la qual cosa ella fu molto da lodare, e lodata fu, di sua onestà e vita, essendo bella, e stando il marito tanto di fuori. Di carnagione e freschezza fui molto somigliato a lei. Fu grande massaia; e bisogno ebbe di ciò fare, avendo nostro padre poco come avea, poi si divise da' fratelli, e avendo grande famiglia.... E la cagione della morte sua fu, che essendo nostro padre in Tunisi, avendo noi ricevuto in pagamento.... uno podere...., e essendovi ella andata a stare là di state, tornando poi qua, e essendo salita a cavallo..., si mosse il cavallo, e corse un pezzo, e gittolla in terra; di che si sconciò la gamba. Soprastette alcuno dì là su, e non si fece trarre sangue; e poi essendo recata in Firenze in stanghe, si rincannò la gamba: e stando così uno dì di San Martino nel letto, ed essendo con lei molte donne, e favellando e cianciando, subitamente dicendo O me!, passò di questa vita. Iddio abbia la sua anima; chè così dovè essere, essendo buona e cara donna, e essendosi confessata il dì dinanzi....». E la moglie, monna Bice Covoni: «La quale fu piccola e non bella; ma savia, buona, piacevole, amorevole, costumata, e d'ogni vertù piena e perfetta, e la quale si facea amare e volere bene a ogni persona: e io molto me n'ò lodare, chè me amava e desiderava con tutto quore. Era bonissima dell'anima sua: ed è da credere che Nostro Signore Iesù Cristo l'abbia ricevuta nelle sue braccia, faccendo buone e ottime operazioni, limosiniera e d'orare e visitare la chiesa.... Vivette meco in santa pace, e accrebbe il mio assai di grazia onore e avere.... Ebbe grandissima infermità per la mortalità del 1348, e campò di quello che non ne campò una nel centinaio. Fu grazia di Dio e in iscampo di me, chè di certo ho per opinione, che s'ella fosse morta, io non sarei scampato, per gli accidenti m'avvennono, che che di quella infermità non sentissi.... Morì di luglio 1357: sì che vivette meco da diciassette anni. Iddio abbia la sua anima.»

La donna fiorentina del buon tempo antico

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