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III.

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Tutta ravvolta in questi foschi vapori di scellerato odio fraterno, attraversa la donna fiorentina il secolo XIII, compagna de' forti mercatanti ed artefici che lavorando e combattendosi, non meno alacremente l'una cosa che l'altra; e senza tuttavia rimanere insufficienti ad altre faccende, — soggiogare i magnati, osteggiare i Comuni vicini, resistere all'Impero, tenere in rispetto la Curia Romana; — fondano la guelfa democrazia. Arti e mestieri, nonostante la intestina guerra, fioriscono; e con essi, i commerci e le industrie; la ricchezza muta i sentimenti e i costumi; l'arte del bello, figurato e scritto, comincia ad ingentilirli. Bensì lentamente. Siamo al primo di quegli ordinamenti popolari, a quello che fu chiamato «il primo popolo» o «popolo vecchio», del 1250; e la cronica[25] nota «che al Tempo del detto popolo, e in prima e poi a grande tempo, i cittadini di Fiorenza viveano sobrii e di grosse vivande, e con piccole spese, e di molti costumi e leggiadrie grossi e ruddi; e di grossi drappi vestieno loro e le loro donne, e molti portavano le pelli scoperte senza panno, e colle berrette in capo, e tutti con gli usatti in piede, e le donne fiorentine co' calzari senza ornamento; e passavansi, le maggiori, d'una gonnella assai stretta di grosso scarlatto d'Ipro o di Camo, cinta ivi su d'uno scaggiale all'antica, e uno mantello foderato di vaio col tassello sopra, e portavanlo in capo; e le comuni donne vestite d'uno grosso verde di Cambragio per lo simile modo. E lire cento era comune dota di moglie, e lire dugento o trecento era a quegli tempi tenuta isfolgorata; e le più delle pulcelle aveano venti e più anni anzi ch'andassono a marito».[26] Ma soggiungendosi poi che «di sì fatto abito e di grossi costumi erano allora i Fiorentini, ma erano di buona fe' e leali tra loro e al loro Comune», — il che quanto a «lealtà tra loro» cioè concordia cittadina, non poteva dopo il 1215 dirsi più, — mostra che molto della descrizione appartiene di più stretto diritto ai tempi anteriori, dai quali il cronista stesso ha dichiarato di muoverla. È insomma la descrizione d'una età di passaggio, dove, da un canto, le «pelli scoperte» e gli usatti ci ricordano i contemporanei di Cacciaguida

andar contenti alla pelle scoperta;

mentre i nomi di que' panni francesi e inghilesi delle gonnelle fiorentine, lo scarlatto d'Ypres o di Cam, il panno di Cambrai, ci fanno avvertiti esser passati i tempi nei quali

ancor nessuna

era per Francia nel letto deserta.[27]

E passati, altresì, quelli ne' quali i matrimonî a matura età conciliava non isforzato l'amore, che durante il decimoterzo secolo addivennero anch'essi arme e instrumento, manco male che di difesa, alle animosità civili. Tarda età da marito diventarono i venti anni od anche i diciotto; «grande etade e fiorita» i quindici; quando si affrettava la collocazione delle figliuole nelle case, o de' consorti per raffermare i vincoli di parte, o degli avversarî per suggello di pace: e talvolta anche il Comune stesso vi cooperava.[28] Si faceva il parentado, essendo tuttora fanciulli gli sposi; e bastava l'età di dodici o tredici anni, perchè la fidanzata fosse poi condotta all'altare e divenisse moglie. Uno degli antichi commentatori di Dante dice: «le maritavano nella culla».[29] Guido Cavalcanti, il gentilissimo de' nostri antichi rimatori, fu ammogliato così; datagli dal padre a otto o nove anni, e datagli perchè Guelfi, la Bice degli Uberti figliuola del magnanimo Farinata, piccola ghibellina di forse cinqu'anni o sei, che sopravvisse poi lungamente co' figliuoli al marito, morto giovine nel 1300.[30] Forse così anche fu conciliato il matrimonio di Beatrice Portinari, giovanissima, con messer Simone de' Bardi.[31] Matrimonî che avevano, nè poteva essere diversamente, i loro drammi. Ma la elegia di coteste giovinezze tiranneggiate è notabile che ci rimanga appunto nell'unico saggio di poesia femminile, offertoci, di molto probabile autenticità, dal secolo XIII, e poesia fiorentina, nei tre sonetti d'una donzella che nasconde il suo nome (la Compiuta Donzella di Firenze, la chiama l'antico Codice Vaticano che ce li ha conservati),[32] la quale, dopo aver salutato col frasario provenzale de' rimatori dugentisti la primavera,

la stagion che 'l mondo foglia e fiora,

soggiunge:

ed ogni damigella in gioi' dimora,

e a me n'abbondan smarrimenti e pianti:

chè lo mio padre m'à messa in errore,

e tenemi sovente in forte doglia;

donar mi vuole, a mia forza, signore.

Ed io di ciò non ò disio nè voglia,

e 'n gran tormento vivo a tutte l'ore:

però non mi rallegra fior nè foglia.

Ed ecco poi, nella triste sua realtà, il dramma. Una Buondelmonti, di famiglia guelfa, «molto valente e savia e bella», va il 1239 sposa negli Uberti a un fratello di Farinata: che è quanto dire, parentado fra le due famiglie, capo ciascuna di parte. Alcuni anni dipoi, in un agguato, alcuni degli Uberti sono trucidati dai Buondelmonti: la città è tutta in armi e sossopra. Messer Neri degli Uberti rimanda la donna alla casa paterna, dicendo: «Io non voglio generare figliuoli di genti traditore.» La poveretta, che lo ama, obbedisce e lo lascia. Il matrimonio è annullato: peggio ancora; è dissimulato dal padre di lei, in un altro trattato di nozze che egli conchiude con un conte della maremma senese. Il sacrificio è compiuto: ma la vittima, rimasta sola col nuovo marito, gli dice: «Gentile uomo, io ti priego per cortesia, che tu non mi debbia appressare nè fare villania, sappiendo che tu se' ingannato, ch'io non sono nè posso essere tua moglie, anzi sono moglie del più savio e migliore cavaliere della provincia d'Italia, cioè messer Neri delli Uberti di Firenze». Il conte, gentiluomo davvero, la rispetta, la conforta, la restituisce padrona di sè: e quella nobile creatura ritorna alla sua Firenze, ma per vestirsi monaca in Monticelli, e quivi sparire dal mondo, che oggi ignora perfino il suo nome.[33]

Il monastero riparò molte di queste infelicissime; il monastero, del quale la Compiuta Donzella cantava:

Lasciar vorria lo mondo, e Dio servire,

e dipartirmi d'ogni vanitate:

..... marito non vorria nè sire,

nè star al mondo per mia volontate.

Membrandomi ch'ogni uom di mal s'adorna,

di ciaschedun son forte disdegnosa,

e verso Dio la mia persona torna.

Lo padre mio mi fa stare pensosa,

chè di servire a Cristo mi distorna,

nè saccìo a cui mi vuol dar per isposa.

Ma neanco il monastero fu talvolta asilo sicuro alla loro innocenza, alle loro sventure, alla libertà dell'anima loro. Dio solo, ha detto Dante, conobbe que' misteriosi dolori:

e Dio si sa qual poi mia vita fusi.[34]

Poichè a chi di voi non precorre qui alla mente la celestiale figura di Piccarda, che rimpiange la dolce chiostra dove giovinetta era fuggita dal mondo, e l'ombra delle sacre bende che ella ed altre indarno sperarono conservare sul capo canuto, e si compiace che

non fur dal vel del cuor giammai disciolte?

Gli antichi commentatori raccontano che ella «fue bellissima donna, sorella di messer Corso Donati: stata questa donna nel monistero, occorse a messer Corso di fare un parentado in Fiorenza: non avea nè chi dare nè chi tòrre: sì che fue consigliato di trarre la Piccarda del monistero, e fare tal parentado.... Sforzatamente la trasse del monistero, e maritolla».[35] Con siffatti auspicî entrò Piccarda nei Della Tosa: ai quali, sebbene famiglia guelfa e legatissima con la Chiesa e con l'episcopato fiorentino, sembra fossero familiari, forse perchè più facilmente impunite, siffatte violenze contro i monasteri; poichè nel 1304, quando i Guelfi Bianchi fuorusciti tentarono armata mano il ritorno, uno dei Tosinghi si gettò, narrano i contemporanei,[36] nel monistero di San Domenico, alla preda di due sue ricche nipoti. Le quali cose ricordando di cotesta possente famiglia magnatizia, che l'Alighieri pone fra le ingrassate a spese della Chiesa fiorentina,[37] occorre altresì alla mente un'oscura pagina, o piuttosto un curioso enigma, di storia, che risguarda e loro e la donna fiorentina del secolo XIII: dico una cena che il reverendo capitolo della Basilica di San Lorenzo dava il giorno di calen di maggio, ossia il dì delle feste primaverili, non si sa a quali convitati, ma con abbondante imbandigione, e che si chiamava «la cena delle maladette donne de' Tosinghi».[38] Resta, ripeto, a sapersi il perchè di questa maledizione, e dell'esservi mescolate le donne di quella casa, e dello intitolarsi da una maledizione di donne una cena imbandita per cura e a spese d'un capitolo di canonici. Forse Dante potrebbe dircene qualche cosa per bocca d'una delle donne del suo Poema, monna Cianghella della Tosa; il cui nome egli lancia, con quella potenza di vitupero ch'ei sa, come un ideale femminile.... di tutto quel che non era Cornelia romana:

Saria tenuta allor tal maraviglia

una Cianghella............

qual or saria....... Corniglia.[39]

Ma che sulla donna pesasse duramente la maledizione di quelle discordie, è certo pur troppo. Era già dura servitù la inferiorità civile nella quale era tenuta dalle leggi, con subordinazione non pure della sua personalità giuridica ma sottomissione della sua volontà al mundualdo o procuratore che quelle le assegnavano, e senza la «parola» del quale ella non poteva nè obbligarsi nè sciogliersi, insomma non fare un passo. Ponete caso; anzi sentitene uno da autentico documento per man di notaro:[40] due donne si accapigliano l'una con l'altra, monna Fiore e monna Puccia; si battono di santa ragione; poi fanno la pace: ma per fare la pace, e perchè monna Fiore, la più gagliarda, sia liberata dalla condanna di lire 275 di piccioli inflittale dal Potestà, occorre prima, che un notaio dia loro il mundualdo, il quale poi dinanzi a un altro notaio autorizza e fa valida la loro pacificazione. Tale la condizion giuridica: le civili discordie poi, con gli esilî, con le violenze, con gli odî mortali col vincolare gli affetti, col calcolare a stregua di parte i parentadi, distruggevano alla donna ciò che per essa è tutto, la vita domestica. Si pensa mai, quando si legge di quelle vendette premeditate per dieci, venti, trent'anni, trasmesse in sanguinoso legato da padre a figlio, le quali si sapeva, dall'una parte e dall'altra, pesar com'un debito che era forza non meno agli uni esigere che agli altri pagare, si pensa quante trepidazioni materne e coniugali, di figliuole, di sorelle, di fidanzate, quante lacrime di tenere creature impotenti a rompere que' giuramenti di sangue, quanti sentimenti repressi, quante vite spezzate, coteste atroci storie si trassero seco? Alcune anime sensitive e ferventi, gittate in età ancor quasi di bambine in quel vortice, ne contraevano lo spavento d'ogni cosa del mondo, cominciando, triste a dirsi!, dalla famiglia. La Chiesa, consacrando con la canonizzazione il distacco di tali donne dalla vita esteriore, quali una Cerchi, una Falconieri (anche Piccarda nel Calendario fiorentino, come nel Paradiso dantesco, è, ma col nome di suor Costanza, tra i Beati),[41] può dirsi abbia non solamente coronate virtù miti in età feroce,[42] ma retribuito dolori ineffabili. Umiliana de' Cerchi, sposa e madre a sedici anni, vedova d'un brutal marito a venti, sfiduciata dell'avvenire de' suoi figliuoli in quella società di crudeli, torna alla casa paterna, e conforta la precoce vedovanza con la carità verso i poveri e i reietti: aborrente da nuove nozze che le si minacciano, spogliata con inganno della sua dote, le esce di bocca questo pietoso lamento:[43] «Com'io veggio, non è fede in terra, perocchè il padre inganna e toglie alla figliuola. Abbiami dunque il mio padre quinci innanzi me non per figliuola, ma per fante e serva.» E si rinchiude più in sè, facendo della casa sua monastero; si ritira nella torre del palagio, la quale è a lei oratorio, dice la leggenda, anzi quasi una carcere. L'umano, anche nelle sue più care e sacre attinenze, le si allontana viepiù sempre: «Al tempo dell'orazione, i vostri figliuoli vi sieno lupi, e la camera l'alpe di Montalpruno», dice ella a delle buone madri che si accusano di essere distratte dal pregare «per la occupazione della masserizia e de' figliuoli»; ma essa medesima poi con lacrime chiede a Maria la vita della piccola Regale, sua figlia, un giorno che la poverina, dinanzi alle asprezze di quella penitenza, le cade a' piedi come morta: «Abbi misericordia di me, e rendimi questa mia figliuola». Presto la sua vita si va consumando. Sul capo suo, dalla torre del padre, imperversa la guerra civile; i mangani e i trabocchi grandinano pietre; si appicca il fuoco alle case: per Umiliana tutto questo non è che il trionfo del diavolo, il quale viene a lei dicendo: «Leva su, figliuola, e vedi la città che tutta si consuma ed arde». A ventisett'anni, nel 1246, ella muore. Doveva passare ancor più d'un secolo, perchè Firenze e l'Italia ammirassero in una vergine senese gli affetti umani non spenti ma santificati dal fervor religioso; carità di prossimo, di famiglia, di patria, di Chiesa, avvivarsi come fiaccola alle procelle del mondo; l'amore allearsi allo sdegno in ardimenti virili con femminile modestia; e Caterina rimanere nella memoria degli uomini, ha scritto un suo devoto che propugnò con Daniele Manin la libertà di Venezia, rimanere «donna di consolazione e di lagrime, fanciulla ed eroe, Clorinda ed Erminia dell'eterno poema d'Italia».[44]

La donna fiorentina del buon tempo antico

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