Читать книгу La donna fiorentina del buon tempo antico - Isidoro Del Lungo - Страница 5
II.
ОглавлениеQuella donna fiorentina de' secoli XI e XII, nella cui soave ricordanza Cacciaguida si esalta, e le congiunge la memoria della madre sua «ch'è or santa», e i travagli di lei partoriente con la invocazione di Maria; non ha un nome, perchè essa era nella mente di Dante un universale, comprensivo e cumulativo delle figure individue concorse a formarlo. Quella gentile, non d'altri splendori luminosa che della fioca e carezzevole luce delle pareti domestiche, invecchiò presto: poichè poco più d'un secolo separa la realtà storica di lei dal rimpianto che ne suona, come di cosa ormai remota, nei versi del fiorentino proscritto. Ma già ell'era vecchia, e di secoli pur quando generava
a così riposato, a così bello,
viver di cittadini, a così fida
cittadinanza, a così dolce ostello;
perchè in lei, quale questa divina poesia[11] l'ha scolpita, ritroviamo, immutata lungo il corso delle età procelloso, l'antica madrefamiglia, sulla cui tomba il massimo della lode è che fu da casa e filò la lana (domum servavit, lanam fecit). Questa parte delle tradizioni latine era affidata a lei, che la mantenesse, incontaminata dalle orgie e dalle ebbrezze imperiali, poi fra le vendette sanguinose della barbarie, nella silenziosa desolazione successa all'immensa caduta, infine nei mescolamenti delle razze sopravvenute addosso al volgo innominato e disperso, ma conservatore tenace, finchè gli rimane una famiglia, e della famiglia, vigile e sospettosa e, occorrendo, fiera custoditrice la donna. La donna del secolo XII, adunque, piuttosto che da quello al successivo invecchiata, può dirsi aver finito la parte sua, e andar cedendo alle condizioni, che intorno a lei si atteggiano così diversamente, di vita politica, di costumanze, di pensieri e propositi. Nella civiltà nuova — della quale è resultato e compendio, istituzione lentamente elaborata, il Comune — troppi elementi, fin allora latenti più o meno e costretti, si svolgono alle aure di libertà, cosicchè anche la vita domestica, e le relazioni di questa con la civile, possano sfuggire ad una mutazione. Nè fa maraviglia che tale mutazione non piaccia a Cacciaguida. Egli si ricorda de' bei tempi, quando, lui giovinetto, vivevano ancora i cittadini della «picciola Firenze divisa per quartieri, cioè per quattro porte», delle quali Porta del Duomo era stato, dice la cronica, «il primo ovile e stazzo della rifatta Firenze» (rifatta, nessun Fiorentino ne dubitava, da Carlo Magno imperatore e dai Romani), «e dove tutti i nobili cittadini di Firenze la domenica facieno riparo e usanza di cittadinanza intorno al duomo», cioè al San Giovanni, «e ivi si faceano tutti i matrimonî e paci, e ogni grandezza e solennità di Comune».[12] Cacciaguida ha vissuto di questo Comune l'età, com'a dire, inconscia e imperfetta, senza nè la potenza nè le burrasche che poi sopravvennero: la pacifica età consolare, durante la quale la cittadinanza si è venuta ordinando quasi estranea ai contrasti fra Chiesa ed Impero, che ha lasciati combattere ai Marchesi di Toscana, alle contesse Beatrice e Matilde, la cui nominale supremazia non pesò mai di fatto, neanche della grande e popolare Contessa, sulla indipendente città. Scarse relazioni esterne, sia di commercio sia di politica; qualche passata imperiale, fatta quasi sempre innocua dallo spontaneo omaggio e dall'essere la Toscana tenuta abitualmente fuori dell'itinerario strategico di cotesti Cesari e di ciò che si moveva con loro; qualche soggiorno di papa profugo; qualche guerricciuola di contado: ecco gli episodi di quella vita tranquilla, che menavano gli uomini de' quali Cacciaguida ricorda la parsimonia e la modestia. Cavalieri con semplici cintole di cuoio e fibbie d'osso, non d'argento e perle: cittadini con rozze sopravvesti di pelle di camoscio, non co' mantelli e le guarnaccie di scarlatto foderate di vaio; case strettamente misurate agli abitatori; nessun lusso, nessuna delicatezza, nessuna corruzione. La sacra maestà dell'Imperatore era ospitata e festeggiata come in famiglia; da Corrado il Salico, «che si dilettò assai della città di Firenze, e molto l'avanzò, e più cittadini di Firenze si feciono cavalieri di sua mano, e furono al suo servigio»,[13] venendo, per lo spazio di quei due secoli, a Ottone IV, del quale sentiamo pure ciò che racconta, molto a proposito nostro, la cronica.[14] «Quando lo 'mperadore Otto quarto venne in Firenze, e veggendo le belle donne della città che in Santa Reparata per lui erano raunate, questa pulcella» (Gualdrada di messere Bellincion Berti de' Ravignani) «più piacque allo 'mperadore. E 'l padre di lei dicendo allo 'mperadore ch'egli avea podere di fargliela basciare, la donzella rispose che già uomo vivente non la bascerebbe se non fosse suo marito. Per la quale parola lo 'mperadore molto la commendò: e 'l conte Guido, preso d'amore di lei per la sua avvenentezza, e per consiglio del detto Otto 'mperadore, la si fece a moglie, non guardando perch'ella fosse di più basso lignaggio di lui, nè guardando a dote. Onde tutti i conti Guidi sono nati del detto conte e della detta donna». Costei Dante chiama, in altro luogo del Poema, «la buona Gualdrada», e quel «buona» valeva quanto «saggia e valente»; e per bocca di Cacciaguida lodando nel padre di lei la semplicità del costume, ce lo conferma tale uomo quale nella ingenua narrazione del Villani apprendiamo a conoscerlo. In siffatta cittadinanza, piccola di numero e della purezza del suo sangue gelosa, è vissuto Cacciaguida; e da tale comunanza ben si usciva degni di cingere, come egli avea fatto, la spada per Cristo, e armato cavaliere dalle mani imperiali morire da valoroso in Terrasanta. Ahimè quanto diversa da quella, di mezzo alle cui miserie il Poeta era asceso allo spiritale viaggio, nella sede dei beati, sollevandosi
all'eterno dal tempo.........
e di Fiorenza in popol giusto e sano![15]
E un dramma femminile è designato pur da Cacciaguida come punto di separazione fra le due età. Buondelmonte che, per aver ceduto slealmente alle istigazioni d'una Donati e alla bellezza d'una figliuola di questa, paga col sangue lo spergiuro alla fidanzata Amidei, è la vittima che dee segnare in Firenze gli estremi anni di pace:
vittima nella sua pace postrema.[16]
Storico certamente nella sostanza, è sia pur leggendario nei particolari, quel dramma ritrae mirabilmente la vita fiorentina sul cominciare del secolo XIII. La comunanza dell'«ovile di San Giovanni»[17] è turbata: si è cominciata battaglia tra gli Uberti, sangue germanico (o, com'altri vogliono, da Catilina), e la signoria, latina, de' Consoli. Gli umori imperiali e chiesastici son già penetrati fra i cittadini, vi serpeggiano insidiosamente, hanno ormai disposti gli animi alla divisione: la consumeranno la bellezza d'una fanciulla, l'interessato zelo materno, la leggerezza e slealtà d'un giovine. Nessuna di siffatte cause avrebbe saputo così sinistramente operare nella sobria e pudica Firenze del buon tempo antico, a cui terza e nona, che le batteva la campana della vecchia Badia del marchese Ugo,[18] segnavano giorni di pace virtuosa fra cittadini l'uno all'altro affezionati e ossequenti. «E di ciò fu cagione in Firenze, che uno nobile giovane cittadino, chiamato Buondalmonte de' Buondalmonti, avea promesso tôrre per sua donna una figliuola di messer Oderigo Giantruffetti» (degli Amidei). «Passando dipoi un giorno da casa i Donati, una gentile donna chiamata madonna Aldruda, donna di messer Forteguerra Donati, che avea due figliuole molto belle, stando a' balconi del suo palagio, lo vide passare, e chiamollo, e mostrògli una delle dette figliuole, e disseli: — Chi ài tu tolta per moglie? io ti serbavo questa. — La quale guardando molto li piacque, e rispose: — Non posso altro oramai. — A cui madonna Aldruda disse: — Sì, puoi, chè la pena pagherò io per te. — A cui Buondalmonte rispose: — E io la voglio. — E tolsela per moglie, lasciando quella avea tolta e giurata».[19] Il padre della tradita se ne duole coi consorti; deliberano di vendicarsi: ferirlo? ucciderlo? Il Mosca de' Lamberti pronuncia la mala parola: «Cosa fatta capo ha». Buondelmonte, la mattina di Pasqua del 1215, mentre si reca a impalmare la Donati, è ucciso sul Ponte Vecchio, a piè della statua di Marte; di dentro al cui idolo i vecchi e savi fiorentini riconoscono operarsi dal diavolo, per vendetta, la distruzione della cristiana città,
che nel Batista
mutò il primo padrone; ond'ei per questo
sempre con l'arte sua la farà trista.[20]
Un'antica cronichetta[21] rappresenta, come in funebre fantasmagoria, il corpo sanguinoso esser portato per la città fra i pianti e le grida, e nella stessa bara, col capo in grembo, starsi tutta in lacrime la seduttrice fatale, o forse vittima innocente ella stessa delle suggestioni domestiche. Certo è che cotesta figura di donna, sott'ogni rispetto sciagurata, ritrae dal vero e in sè bene raccoglie i tanti e varî e ignorati patimenti che, per tanti anni appresso di cittadine battaglie, si accumularono sulla donna fiorentina:
.... infelici....
che il duol consunse; orbate
spose dal brando; vergini
indarno fidanzate;
madri che i nati videro
trafitti impallidir.[22]
Quel «nobilissimo e feroce leone» del quale racconta la cronica che si teneva pel Comune nella piazza di San Giovanni, — e uscito della sua stia, correndo verso Or San Michele, afferra un fanciullo, e «tenealo tralle branche»; e la madre, «che non ne avea più» se non questo che «le rimase in ventre» quando le fu ucciso il marito, «come disperata, con grande pianto, scapigliata, corse contro il leone, e trassegli il fanciullo delle branche, e il leone nullo male fece al fanciullo nè alla donna, se non ch'egli guatò e ristettesi»;[23] — e' rendeva, il leone, i figliuoli alle madri: ma il Comune, del quale egli era superbo simbolo, li divorava senza pietà. Altre madri sulle vie di Firenze imitarono quella d'Orlanduccio del Leone; ma esse chiedevano pietà agli uomini, e agli uomini di parte! «Deh quanto fu la dolorosa madre de' due figliuoli ingannata!» (una madre di Guelfi Bianchi de' tempi di Dante) «che con abbondanza di lagrime, scapigliata, in mezzo della via, ginocchione si gittò in terra innanzi a messer Andrea da Cerreto giudice, pregandolo, con le braccia in croce, per Dio s'aoperasse nello scampo de' suoi figliuoli. Il quale rispose, che però andava a palazzo: e di ciò fu mentitore, perchè andò per farli morire».[24] Oh se nell'attraversare oggi quel tetro maestoso cortile, nel salire le lunghe erte scale di quel Palazzo del Podestà, studiosi e commossi visitatori delle reliquie del nostro passato, pensassimo di quanto sangue furono bagnate quelle pietre più che sei volte secolari, dovremmo dire che a cancellarne la traccia, non ci voleva meno delle lacrime tante che quel sangue è costato!