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IV.

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Se non che agli uomini del secolo XIV erano ormai antiche, e da non poter più rinnovarsi, quelle atroci battaglie che desolavano, da un momento all'altro, l'intera città; quelle proscrizioni che schiantavano dalla cittadinanza la metà dei cittadini; que' ritorni di sbanditi, che alle porte della patria esiliatrice si presentavano col ferro in mano e col fuoco. A esiliare pur troppo si seguitò; la condanna del padre colpì i figliuoli anche nelle culle: ma la donna fu rispettata; potè la donna rimanere nelle case vedovate, e serbarle ai ritorni con dolorosa preghiera, nelle chiese della patria, dinanzi alle madonne di Giotto, invocati. Diamo invece un ultimo sguardo al secolo XIII, a questa forte età che nel grembo travaglioso conteneva pure i germi della civiltà moderna. Ripensiamo la prima cacciata di Guelfi nel 1249, che per estremo atto nella patria, celebrano, tutti armati, le esequie del loro portansegna messer Rustico Marignolli, lo depongono in San Lorenzo, poi essi e le famiglie si partono e si disperdono pel Valdarno: i Ghibellini distruggono le case deserte («maledizione del disfare» che cominciò allora, dice la cronica),[45] e d'una torre, che dal vecchio cimitero intorno a San Giovanni prendeva nome di Guardamorto, vogliono «con maggiore empiezza», parole sempre della cronica, vogliono far rovina addosso alla chiesa e battistero, come guelfa anche lei, perchè ritrovo ab antico, e fonte di vita e riposo in morte, di Guelfi. E nella seconda cacciata, dopo Montaperti, «arriva in Fiorenza», lasciamo ancora parlare la cronica,[46] «la novella della dolorosa isconfitta; e tornando i miseri fuggitivi, si leva il pianto d'uomini e di femmine sì grande, che va sino al cielo; imperciocchè non avea casa niuna in Fiorenza, nè piccola nè grande, che non vi rimanesse uomo morto o preso.... I Guelfi, sanza altro comiato, colle loro famiglie, piagnendo, uscirono di Fiorenza e andaronsene a Lucca....»: fu una città che si riversava in un'altra. I vincitori, con le masnade tedesche, rientrano in patria, e dentro e fuori delle mura la demoliscono mezza. Strappano perfino rabbiosamente dalle chiese le arche sepolcrali e le ossa dei Guelfi: e se oggi un Aldobrandino Ottobuoni, cittadino integerrimo che ai nostri vecchi parve l'imagine del «buono romano Fabrizio», non ha più la sua tomba in quella che allora era Santa Reparata, si deve a quei sacrilegî;[47] a omissione, non a reverenza, si deve, che del portansegna Marignolli sia rimasta in San Lorenzo con le ceneri la pietra del sepolcro domestico.[48] Se Fiorenza non fu «tolta via» tuttaquanta,[49] ognun sa che fu virtù e gloria di un uomo. Ma a quei rifugiati in Lucca, che strazio l'udire, impotenti a ripararvi, la rovina delle loro case, delle loro memorie, dell'avvenire de' loro figliuoli! che furore negli uomini! che lacrime cocenti si saranno serrate nel cuore quelle misere donne![50] Poi, rivolta fortuna, successero le vendette guelfe, meno atroci ma più lente, più intime, più continuate, poichè durarono quanto durò la repubblica, dove il nome ghibellino rimase all'odio comune anche quando più non sussisteva la cosa. Confiscati, distribuiti, dispersi gli averi, i possessi delle famiglie ghibelline, come si distrugge il nido d'una bestia feroce; gli Uberti, votati a esilio perpetuo, e nelle orazioni de' Guelfi supplicato Dio che si degni di sradicarli;[51] i Santi stessi, se del loro sangue, rimossi dall'altare;[52] vietato di contrar matrimonio coi conti Guidi e altrettali signori di contado, e i figliuoli di siffatte unioni sentenziati bastardi:[53] insomma, una scomunica dalla convivenza sociale, che accompagna l'anatema con che la Chiesa li separa dal suo grembo. Sotto questa bufera di persecuzione, i più de' Ghibellini cedevano, e, per ritornare o rimaner cittadini, si facevano Guelfi. Quasi soli i discendenti di Farinata rimasero fedeli alla parte degli avi loro:[54] portarono superbamente per le terre d'Italia la propria condanna e la propria fermezza; pagarono intrepidi, sotto la mannaia guelfa, il debito, com'essi stessi lo chiamarono, lasciato loro da' padri; «non mutarono aspetto, non mosser collo, non piegarono costa», quale Dante, fra le tombe di Dite, avea veduto giganteggiare il loro avo magnanimo, co' suoi eretici ghibellini, col suo imperator Federigo.

Ma come in quel canto sublime, allato a cotesta figura di bronzo, vediamo «in ginocchion levata» l'ombra affettuosa e piangente d'un padre che cerca il figliuolo; così alle persone di quei profughi, che pure erano figliuoli e padri e sposi e fratelli, noi congiungiamo l'imagine delle povere, deboli creature, che dietro a loro trascinavano il tormentoso desiderio della patria e della casa perdute. E quando leggiamo[55] che in una di quelle illusorie pacificazioni, tornati per pochi giorni in Firenze anche gli Uberti, fra la gente che venne loro incontro, furono viste donne, i cui vecchi erano stati ghibellini, baciar l'arme degli Uberti sui palvesi di quei proscritti; noi sentiamo, a distanza di secoli, quel memore bacio, e l'alito che ne spira di affetti consacrati dal pianto e dal sangue.

Appartengono a quelli anni del trionfo e della concordia dei Guelfi, le feste del Calendimaggio che i cronisti e il Boccaccio[56] descrivono; le corti bandite, con apparati allegorici d'amore;[57] la poesia toscana che, rotto il circolo siculo provenzalesco, prende nome dal «dolce stil novo»,[58] della quale può esser gentile imagine quel vascelletto incantato, nel quale l'uno de' due maggiori rimatori di cotesta scuola, Dante, affigura sè e Guido Cavalcanti e Lapo Gianni, insieme con le loro donne, mollemente cullati dall'onde del mare tranquillo.[59]

Ma presto si scatenò la bufera. Siccome il flagello di quelle discordie si rivolgeva contro coloro stessi che lo impugnavano, i vincitori Guelfi, presto gli uni con gli altri guerreggianti, fecero della città conquistatasi e delle case loro lo scellerato teatro di altri disordini. Si cominciò col non credere più oltre sicuro il trionfo del popolo guelfo artigiano, senza la oppressione, anzi l'annientamento dei Grandi: e i terribili Ordinamenti della Giustizia rinnovarono, per le vie di Firenze guelfa, il triste spettacolo dei disfacimenti ghibellini. Or pensate voi che possa essere stata disfatta pur una di quelle case, senza che le donne di essa sentissero a uno a uno nel cuore i colpi di quelle demolizioni? Pochi anni dipoi, Guelfi Bianchi e Guelfi Neri, papa Bonifazio VIII e Carlo di Valois, si aggruppano personaggi sinistri d'una tragedia mossa dalle Erinni familiari, la quale ebbe fin d'allora storico e poeta degni in Dino e in Dante. Raccogliamo brevemente, al proposito nostro, da quelle linee sparse, la imagine della città caduta nel novembre del 1301 in mano del paciaro francese, che al disprezzo dell'Alighieri non parve meritare nemmeno il rinfaccio d'aver lacerato con la spada il seno di Firenze; egli, disse il Poeta, «le aveva, pontando la lancia di Giuda, fatto scoppiare la pancia».[60] Furono sei giorni di saccheggio e di desolazione:[61] ogni uomo fece male a chi volle, a amico e a nemico: da tutte le parti era un nascondersi, un trafugar roba, un fuggire: qua e colà, ogni tanto, un palagio che bruciava: ruberie di botteghe e di case, uomini posti alla corda, ferimenti, omicidî: in contado andar le gualdane, rubando, ardendo, ammazzando. Non rispettato l'onor delle donne: i meno tristi imporre ad esse e alle famiglie forzati matrimonî; fuggiti gli uomini, rimanere donne e fanciulli alla discrezione de' nemici; sentite come! e cuori di donna misurino il dolore di quelle poverette, a vedere così iniquamente violato il santuario domestico: «Vennero in casa nostra in Mercato Vecchio, di notte; rubaron quello che vi trovarono: ben l'avevamo la sera passata sgomberata delle più care cose. Noi uomini non v'eravamo, ch'eravamo cessati la sera dinanzi. In quella medesima notte, ci venne in casa un'altra masnada, e rubarono di quello che v'era rimaso. E dopo rubato, i Tosinghi e i Medici si mandavano profferendo alle nostre donne. E non voglio che rimanga nella penna, che quella notte furono lasciati ignudi i fanciulli, maschi e femmine, in sul saccone, e portaron via la roba e' panni loro; che non fu fatto in Acri per li Saracini così fatte opere e pessime».[62]

Del resto, in quella divisione di parte Guelfa tra Bianchi e Neri, anche le donne si erano più forse che in alcun altra simile occasione, mescolate. Nè è da maravigliarne: perocchè questa volta la discordia si cacciava tra famiglie congiuntissime per vincoli di parte, di consorteria, di vicinanza; e perciò turbava relazioni anche più intime, che non da Guelfi a Ghibellini: nè a tale turbamento poteva rimanere estranea la donna. Dice un cronista,[63] con parole nella loro semplicità pittoresche: «Si divise la città di Firenze, e fecero di loro due parti per modo, che non fu nè maschio nè femmina, nè grande nè piccolo,» (intendasi di condizione) «nè frate nè prete, che diviso non fosse». E un novelliere,[64] toccando specialmente di questo parteggiar delle donne, e lodando a paragone la bontà di altri tempi: «Ora che diremo dello ingegno della malizia femminina? Più acuto hanno l'intelletto e più subito; e a fare e a dire il male assai più che gli uomini, sono fatte parziali: chè a buon tempo elle averebbono ripresi i mariti loro, oggi li confortano a combattere per parte. E per questo da loro è disceso assai male nel mondo....».

Noi possiamo assistere a qualche singolare episodio di cosiffatte guerricciuole a porte chiuse. Siamo in casa (l'ho raccontato altra volta)[65] di messer Vieri de' Cerchi la mattina de' 23 aprile del 1300, pochi giorni avanti che la discordia guelfa prorompa in sanguinose violenze. È imbandita la mensa per un suntuoso convito: e madonna Caterina, una Bardi moglie di messer Vieri, dispone a' lor posti i convitati. Una Donati è da lei messa accanto a una gentildonna pistoiese de' Cancellieri; e il marito, con poco prudente zelo, l'ammonisce: «Non far così, chè non sono d'uno animo: tramezza chi che sia». «Messere,» gli dice la Donati, che ha sentito, «voi fate una gran villania, a far me e i miei di parte o nimici di persona: ed ho voglia andarne di fuori». La Cerchi irritata risponde lei: «E tu te ne va'». Il marito, dolente dello scandalo, fa le sue scuse e trattiene la gentildonna con garbata violenza; ma il rimedio è peggior del male, ch'ella lo rimprovera, come di scortesia, di questo porle addosso le mani. Allora egli impazientito, «contuttochè fosse savio cavaliere», esclama (chiedo scusa per messer Vieri al mio gentile uditorio): «Bene sono il diavolo le femmine!» E lascia, non si sa se andare o stare, la furiosa Donati: ma il diverbio seguitò fra gli uomini; e poche ore dopo co' ferri alle mani: «perocchè erano sì vicini, che l'uno sempre era a casa l'altro».

Varchiamo soglie più segrete e gelose, quelle di San Pier Maggiore: chiesa di monache benedettine antichissima, andata miseramente in isfacelo un cento anni fa. La quale non può qui nominarsi, senza ricordare che in essa i Vescovi fiorentini, quando facevano il loro solenne ingresso, si recavano prima che altrove, e con cerimonie, di cui ci rimangono minutissime descrizioni, inanellavano, fra riti e pompe nuziali, la reverenda madre abbadessa, che in persona della Chiesa fiorentina convitava e ospitava per ventiquattr'ore il novello sposo. E ciò, dicono gl'instrumenti, «per antica e ferma consuetudine da tanto tempo quanto è di là da memoria d'uomini».[66] Al monastero pertanto di San Pier Maggiore, un giorno di gennaio del 1299, si presenta Lisa di ser Guidolino da Calestano, venturiero lombardo che fu poi cagnotto attivissimo dei Guelfi Neri,[67] e chiede di esser ricevuta monaca. La badessa, suor Margherita, risponde che il numero è completo, e ch'ella non può senza offesa delle costituzioni ricevere la Lisa. Allora questa esibisce lettere del Santissimo Padre papa Bonifazio VIII, che ingiungono senz'altro alla madre abbadessa l'accettazione della nuova religiosa. Ma la badessa prorompe: «Che di' tu Papa? che santissimo Padre? Bonifazio non è papa altrimenti, sibbene il diavolo in terra tribolator de' Cristiani; ma il Signore Iddio darà tanto potere ai Colonnesi di Roma, ch'e' faranno di lui e de' parenti suoi quel che egli fece di loro contro diritto e giustizia». E le porte del monastero si chiudono strepitosamente dietro l'iraconda e, diciam pure, dantesca badessa; alla quale, del resto, non sembra che mancasse nè la parola tagliente nè il dono della profezia: perchè la trista violenza de' Colonna sul pontefice in Anagni la predisse anche Dante,[68] ma a cose fatte; la badessa, quattro anni prima che avvenisse. Questa volta però là qualificazione di «diavolo» investiva ben altro che femmine, e non per bocca d'un cavaliere: una sentenza della Curia vescovile a cui la Lisa, impenitente nella sua vocazione, immediatamente ricorse, imponeva «perpetuum silentium» a lei e al suo procuratore; con grande consolazione, non solamente delle pinzochere fiorentine, che appunto di que' giorni mandavano a loro spese fantaccini a crociarsi nella guerra papale contro «i perfidi Colonnesi»,[69] ma altresì del Comune, pel quale un processo addosso a quel Monastero di San Pier Maggiore non sarebbe stato, com'oggi parrebbe, una cosa da poco, anzi una gravissima briga da non aggiungersi volentieri alle molte, che in quelli anni funesti travagliavano l'umoroso e mal disposto corpo della cittadinanza. Suor Margherita (aggiungo in parentesi) si trova, a piccola distanza di tempo, aver ceduto ad un'altra il seggio abbaziale, che teneva fin dal 93; poichè nelle nozze episcopali, ch'ebbero a rinnovarsi nel maggio del 1301, ella è bensì fra le assistenti al rito, ma non essa la sposa. Aggiungo ancora che quand'ella fu eletta, due delle monache elettrici, agli scrutatori curiali che raccoglievano i voti, avevano risposto che per consentire nel nome di qualsiasi delle suore volevano innanzi consigliarsene col padre e con gli altri della casa: eccezione dagli scrutatori respinta come disonesta e contro diritto, e a noi evidente esser suggerita da rispetti e legami di parte, i quali avvincevano dunque anche le donne, e quelle stesse che ogni vincolo mondano avevano professato d'infrangere.[70]

Alle donne fiorentine di cotesti anni, mordendone con parole acerbissime i disordinati costumi, minaccia Dante,[71] per bocca dello spirito d'uno dei Donati, che i peccati di Firenze attireranno anche su di esse la meritata punizione del cielo: avanti che siano adulti i pargoletti i quali ora fanno la nanna sulle loro ginocchia, Dio le farà triste, e avranno a «urlare» sui mali delle loro famiglie e della loro città. Allusione indubitabile, ragguagliando le date, — o alla rotta dei Guelfi sotto Montecatini, nel 1315, della quale un rimatore contemporaneo[72] cantava:

La donna fiorentina del buon tempo antico

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