Читать книгу La novellaja fiorentina - Vittorio Imbriani - Страница 10

VI.

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L'UCCELLINO CHE PARLA[1]

C'era una volta un Re. Non si sa per qual caso proibì che la sera non si sortisse[2], pena la testa; nessuno, indispensabilmente, sennò tagliata la testa. Alle ventitrè tutti avevan preparata la sua roba in casa per la sera non sortire. Il coco qui di cucina, ch'era giusto d'estate che sudava stando al foco, quando ebbe finito il suo impiego:—«Cheh! o ch'io moja che m'ammazzi Sua Maestà, o ch'io moja ch'io mi sento affogare, io vo' andar fori!»—E va fori, e si mette alle sponde d'Arno, come sarebbe su' nostri ponti, lì a prendere il fresco. In mentre gli è lì a prendere il fresco, sente delle voci che dicono:—«Oh, se Sua Maestà mi desse per moglie al suo scudiero, quanto sarebbon meglio le cose!»—Gli eran tre ragazze. L'altra la dice:—«O me, se mi desse al suo maestro di casa, quanto gli andrebbon meglio le cose!»—E la minore:—«Oh, se Sua Maestà mi sposassi, io gli farei tre figli: due maschi ed una femmina. I maschi di latte e sangue e i capelli d'oro; e la femmina di latte e sangue e i capelli d'oro e una stella in fronte.»—Quest'omo, il coco, quando ha sentito, guarda e prende il numero dell'uscio e torna a palazzo e va a letto. La mattina s'alza; e, appena sente che Sua Maestà s'è alzata, chiede di passare di là. Lo fecero passare.—«Maestà,»—dice—«io sono ai vostri piedi. Io ieri sera trasgredii i vostri comandi. Perchè io mi sentiva affogare, io me n'andiedi fori. Mentre io era lì alle sponde a prendere il fresco, sento delle voci. Mi affaccio e vedo. Son tre ragazze (gli eran lì al fiume a lavare) che dicono: Oh se Sua Maestà mi desse per moglie al suo scudiero, vorrebbe vedere le cosa come anderebbero! una di quelle. L'altra dice: Oh lui, se mi desse il suo maestro di casa, o quello sì che le cose andrebbero bene; non anderebbero come le vanno. Una di quelle:—Se Maestà mi sposassi, io gli farei tre figli, due maschi e una femmina. I maschi di latte e sangue co' capelli d'oro; la femmina di latte e sangue co' capelli d'oro e una stella in fronte. Ora»—dice il coco—«son qua per pagare il mio fallo: aspetto la morte.»—«No»—risponde Maestà[3]—«io ti perdono. Ma vai subito in traccia di queste ragazze: e dirgli che le vengan da me in tutte le maniere con suo padre.»—Eccoti quest'omo va alla casa che la sera avea preso l'appunto e picchia[4]. S'affaccia una di quelle ragazze, dice:—«Chi è?»—«Apra»—dice il coco,—«gli ho da dire una cosa.»—«Oh babbo»—dice la ragazza—«c'è uno che mi vuol dire una cosa.»—«Tirate la corda, eh, qualcosa verrà.»—La ragazza tira la corda, il coco vien su. Gli dice il padre:— «Cosa vole?»—a quest'omo.—«Ordine di Sua Maestà, che le sue figlie vengan via con meco nel momento.»—«Verrò ancora io.»—«Venite ancora voi.»—Nel mentre che le si vestivano:—«Ma, ragazze, che iersera andaste fori?»—Gua', c'era ordine di morte e sospettava.—«No, babbo; noi non si sortì.»—Le scendevano una scalina della sua casa e le andavano al fiume: le non erano sortite. Il coco le porta al palazzo e le conduce a Sua Maestà. Maestà gli dice;—«Ditemi, ierisera, alla tal ora, o dov'eri[5] voi?»—Dice:—«Al fiume, a lavare,»—«E cosa parlavate voi ierisera al fiume?»—La maggiore:—«Io dissi: Oh, se Sua Maestà mi desse per moglie al suo scudiero, vorrebbe vedere le cose come anderebbero!»—La seconda:—«Io dissi: Oh, se mi desse al suo maestro di casa, non andrebber come le vanno le cose!»—La minore:—«Io dissi: Oh, se Sua Maestà mi sposassi, gli vorrei far tre figli: due maschi e una femmina. I maschi latte e sangue co' capelli d'oro; la femmina di latte e sangue co' capelli d'oro e una stella in fronte.»—«Bene!»—risponde Maestà.—«Sarà fatto quello che voi avete chiesto. Voi sposerete il maestro di casa; voi, lo scudiero; e voi sarete mia sposa. Ma con questo, se non saranno eseguite quelle cose che voi avete detto, pena la morte.»—Concludon le nozze, fanno presto, gua'. La moglie dello scudiero in pochi mesi, eh! c'eran le scuderie che non parevan più quelle affatto: ricche, belle, per bene, i meglio cavalli. La moglie del maestro di casa gl'interessi andavan benone, di bene in meglio. Il Re era contentissimo: la sua sposa era rimasta incinta. Lasciamo quand'era già su' sette mesi la sposa che era incinta, un cugino del Re gl'impone guerra. Ma, per tornare un passo addietro, aveva due sorelle questo Re. Dovette andare alla guerra e lasciar la sposa: come si fa? Dice addio alla sposa:—«Ricordati quel che t'hai promesso»—gli dice. Queste sorelle che avevan tant'astio con questa donna, gli avevano una rabbia le sorelle del Re! Viene l'ora che la partorisce e fa un bambino di latte e sangue co' capelli d'oro. Che ti fanno queste sorelle? Prendono questo bambino e ti mettono in vece una scimmia leste leste. E danno ordine a un suo servitore che lo metta in un canestrino e lo butti in Arno. C'eran dei barcajoli: corron dietro a questo canestrino questi barcajoli; lo prendono e vedono questa gran bella creatura.—«Oh birbante, chi gli è stato?»—dicono questi barcajoli; e uno dice:—«Lo porterò a casa e lo metterò a balia questo bambino.»—Che ti fa? lo prende e lo porta a casa e va cercando una balia per custodirlo, che la gli desse latte. Venghiamo ora a Maestà che doveva avere la risposta da queste sorelle, come stava la sposa, come l'aveva partorito. Gli mandano a dire che la sua consorte gli avea fatto una scimmia invece di un bambino di latte e sangue co' capelli d'oro; cosa ne dovevan fare?—«O scimmia o altro, tenete conto di lei»—risponde il Re alle sorelle. Dunque, quando lui gli ha finito la guerra, torna a Firenze. Ma non era l'istesso verso la moglie. Sì, gli voleva bene; ma mai non come prima, perchè sperava nella parola che la gli aveva data. In questo tempo, la ritorna incinta. Per tornare al bambino che è a balia, il balio vede questi capelli:—«Ma guarda»—dice alla moglie,—«non ti pare oro codesto?»—Dice la moglie:—«Sì, ch'è oro.»—Tagliano una ciocca di capelli e vanno a venderla. L'orefice la pesa e gli dà una somma, ma di molto, sapete, perchè era oro pesante e bello, che questo balio e questa balia erano arricchiti con questi quattrini. Ogni giorno gli tagliavano i capelli e andavano a venderli. Venghiamo ora a Sua Maestà, che mentre sua moglie gli era di sette mesi, suo cugino gl'impone guerra un'altra volta. Ecco lui va via, va alla guerra, dice addio alla moglie:—«Ricordati delle promesse!»—Vien l'ora che la partorisce e fa un maschio come l'aveva detto, co' capelli d'oro e con le carni di latte e sangue. Le birbanti delle sorelle[6] fanno prendere il bambino e ci mettono un cane. All'istesso omo dicono:—«Buttatelo, come avete fatto a quell'altro, in Arno.»—Questi barcajoli stessi veggono un altro canestrino, vanno e lo prendono e veggono un altro bambino:—«Ah poerino! Ma che bricconate son queste?»—dicono i barcajoli. Quel navicellajo prende il bambino e fa come all'altro; lo porta a casa e poi va dalla balia e riprende quello primo e rimette questo a balia e vien via a casa[7] col bambino maggiore. Lasciamo a questi e venghiamo alla novità che doveva avere il Re, se l'aveva partorito la su' moglie. E gli mandarono a dire le sorelle:—«L'ha fatto un cane la vostra sposa; scriveteci quel che si deve far di lei.»—«O cane o altro, tenerne di conto;»—manda a dire il Re.—«O cane o cagna, tenetene di conto.»—Il navicellajo ogni tanto l'andava a veder questo bambino. E trova il balio arricchito, in una maniera! con tanta mobilia, loro vestiti tutti per bene.—«In che maniera»—dice—«vo' siete così arricchiti?»—«Oh»—dicono—«noi siamo arricchiti...»—tante bugie! Ma il navicellajo guarda il bambino e vede i capelli tutti d'oro: ci fa osservazione.—«Oh bricconi»—dice—«perchè non me lo dire? Voi mi renderete la metà dei quattrini che avete presi.»—Questi balii, gua'! gli danno la metà de' quattrini e gli dicono:—«Per amor di dio, la ci perdoni!»—«Eh!»—dice—«Io vi perdono. Basta che facciamo a mezzo, è finita.»—Venghiamo ora che lui torna alla moglie, gli mostra i quattrini e gli racconta il caso.—«Noi si taglierà i capelli al nostro e così si arricchirà.»—Eccoti che il Re che torna alla città e va al palazzo dalla sposa, sempre più serio. Ma poi, sapete, gli voleva bene di molto e sperava nell'ultimo figliolo. Lei rimane incinta un'altra volta. Mentre che la rimane incinta, eccoti il cugino che gl'impone proprio un'altra volta guerra al Re, destino proprio! Ma il Re deve andare alla guerra e gli dice:—«Addio; ricordati della promessa. Ora non ce n'è più che un solo de' figlioli.»—Ella la partorisce e fa la bambina di latte e sangue, co' capelli d'oro e la stella in fronte. Le sorelle per l'istess'omo la fan mettere in un canestrino e buttare in Arno; e ci mettono una tigre in letto, piccolina. Scrivono al Re che la sua sposa l'ha fatta una tigre; quel che le avevano a fare della sua sposa. Lui gli dice:—«Quel che volete; purchè, come io vengo a Firenze, non ci sia nel palazzo.»—Torniamo ora a questi barcaroli. Veggon l'istesso canestrino[8], lo prendono e veggon questa bambina, che! una cosa che sorprendeva. La prendono e la portano a casa del solito navicellajo. E questo poi va cercando la balia, e riprende il maschio e mette la bambina. E de' quattrini de' capelli sempre facevano a mezzo. Venghiamo alle sorelle che il Re gli lascia piena libertà di far quel che le vogliono di questa donna. La prendono, la levano di letto, la portano giù in cantina, la murano di qui in giù; dal collo in giù, tutta murata, altro che la testa fori. Ed ogni giorno gli andavano a portare un po' di pane, un bicchier d'acqua; e uno schiaffo per una gli davano: questo era il suo mangiare. Per tornare un passo addietro, il Re gli aveva scritto che murassero le stanze di questa donna dov'era stata: non le voleva veder più. Il Re torna, bell'e finita la guerra, e non fa menzione della moglie, non ne ricerca, chêh! Entra nel suo quartiere, com'era solito, senza dir nulla. Altro dicendo:—«Guarda come sono stato messo in mezzo da questa donna!»—da sè diceva. Venghiamo ora al navicellajo, che la bambina era grande, la riprende, dà uno sborso al balio e la riporta a casa. Questi ragazzi e questa bambina crescevano che bisognava vedere che belle creature erano codeste! E il navicellajo avea fatta tanta e tanta ricchezza su questi capelli. Dice alla moglie:—«Qui bisogna pensare a questi ragazzi; bisogna fabbricargli un palazzo, poerini, per quando saran grandi.»—Ma questo navicellajo stava poco distante dal Re, padre di questi bambini. Fabbrica questo gran bel palazzo che gli era anche più bello di quello del Re, davvero; con un giardino in dove c'eran tutte le meraviglie, non c'era più che desiderare. Que' bambini sempre crescevano, si fecero giovanettini; la bambina una ragazzina. Quando fu un dato tempo si ammala questo navicellajo e more. Per dispiacere, la moglie, sopraggiunge una febbre e more anco lei. E rimane questi tre giovanetti, ricchi, che figuratevi! non ve la posso dire la ricchezza che su' capelli aveva fatta il navicellajo. E i giovanetti procurorno d'occuparsi in qualche occupazione. La bambina rimaneva in casa a far le faccende domestiche. Quando aveva fatte le sue faccende domestiche, andava nel giardino così per passare una mezz'ora. Poi tornava i fratelli a mangiare, che s'adoravano: questi due fratelli adoravan la bambina e la bambina adorava loro, proprio s'adoravano da veri fratelli. Un giorno, quando l'era nel giardino, la dice da sè:—«Cosa manca in questo giardino? di più non ci pol essere. Oh che degna cosa che è questo giardino!»—Lì al cancello gli si presenta una vecchia:—«Te, tu dici che in questo giardino non manca nulla?»—la gli dice la vecchia.—«Ci mancano tre cose, bambina!»—dice.—«E quali sono?»—«Uccello che parla, albero che canta, fontana che brilla.»—In mentre la bambina la voleva dire:—«E in dove si pol ire?...»—la vecchia la sparisce, la non c'era più. E lei si mette a piangere disperata:—«Ah io credeva che non mancasse nulla, e ci mancano tre cose: uccello che parla; albero che canta; fontana, che brilla!»—E piangeva a calde lagrime. Tornano i fratelli e la veggono disperata in quel modo lì:—«Cosa c'è? cosa ci hai?»—«Eh lasciatemi stare! Era nel giardino che a me dicevo che non mancava nulla, che proprio non ci poteva che desiderare. M'è apparito una vecchia che m'ha detto: Te, lo dici che non manca nulla; ci mancano tre cose: uccello che parla, albero che canta, fontana che brilla.»—«Ah!»—dice il fratello maggiore—«e siei disperata per questo? Sarò io che ti farò felice. Vado io cercando queste tre cose.»—Aveva un anello questo fratello in dito; se lo leva, e gnene mette in dito alla sorella, e gli dice:—«Quando sarà cangiata la pietra, sarà segno che io son morto.»—La sorella non vole che vada:—«Ah!»—l'urla—«io non vo'....»—Ma lui parte e non gli dà retta e va via. Quando gli ha fatto un pezzo di strada; ma un pezzo, via, molto, trova una vecchia che gli dice:—«Dove tu vai, bel giovane?»—«Oh vado in cerca dell'uccello che parla, albero che canta, fontana che brilla.»—«Poerino!»—dice—«tu non sai che hai da camminar tanto!»—«Eh»—dice—«cammini quanto volete: gua', io ho da trovar questa roba.»—In mentre che tu hai finita la strada, tu troverai una bellissima piazza dove c'è una porta. Entra dentro e vedrai un cortile lungo lungo, ma lungo! Di qui e di là non vedrai altro che statue; che sono uomini e donne andati come siei ito tu, tale e quale, per cercare queste tre cose. Te, le puoi avere. Se quando tu senti urlare, strapparti per la persona, se tu non ti volti, questa roba l'è tua; ma se ti volti, tu divieni statua.»—Questo giovane ringraziò questa donna e si rimette in cammino. E cammina quanto può e arriva a questa bellissima piazza che gli avea detto ed entra nel cortile. Appena ch'egli è entrato nel cortile principia a sentire urli.—«Acchiàppalo! acchiàppalo! Lascialo ire! Dàgli, dàgli!»—Chi lo strappa di qui, chi di là, una cosa impossibile, ecco! Lui resiste per un pezzo, ma poi si volta e viene una statua. Veniamo alla sorella. La guarda l'anello e la vede che la pietra divien gialla. Urla:—«Ah! mio fratello, mio fratello è morto!»—Dice l'altro fratello:—«Se è morto il fratello, son vivo io per farti felice.»——E la bambina l'urla che non vol che vada via a nessun costo. L'urla! Ma lui non gli dà retta, scappa via ed è finita. E la ragazza rimane a piangere dicendo:—«Io son la vittima de' miei fratelli! io per la mia ambizione sono la vittima[9] de' miei fratelli!»—Il fratello cammina cammina; quando gli ha fatto un pezzo di strada trova la stessa vecchina dell'altro; l'istessa vecchina l'incontra. E lei dice:—«Dove vai, bel giovane?»—«Vado così a trovare l'uccello che parla, albero che canta, fontana che brilla.»—«Ah poerino, te hai a camminare assai!»—«Eh!»—dice—«questo si sa. Camminerò quanto ci vole! Tanto io l'ho da trovar questa roba.»—«Ma senti. Troverai una bellissima piazza...»—la vecchina gli dice come a quell'altro maggiore.—«E poi te troverai un bellissimo cortile. Appena che tu entri dentro sentirai urlare. Non ti voltare, altrimenti tu diventerai una statua.»—Questo ragazzo la ringrazia, va via, e trova la piazza col cortile e entra dentro. E sente:—«Ah piglialo! acchiappalo!»—Lo strascinavan di qui, lo battevano, mah! non era possibile, gua'! Stancato, si volta.—«Eh state fermi!»—Rimane una statua. Venghiamo alla sorella. Guarda l'anello e vede la pietra cangiata un'altra volta[10]. Lei urla e dice:—«Oh dio! l'è morto anche questo de' miei fratelli! Sono stata io la vittima!»—Che ti fa? Serra il palazzo e va via:—«Sono morti loro, e voglio morire anch'io.»—Quando ha fatto un pezzo di strada, la trova l'istessa vecchina.—«Ah, dove vai, bella ragazza?»—«Ah!»—la gli dice—«vado incontro di uccello che parla, albero che canta, fontana che brilla.»—«Poerina!»—dice—«tu morirai!»—«Eh! come han fatto i miei fratelli! Sono morti loro e voglio morire anch'io!»—«Lo so, che quelli eran tuoi fratelli»—la gli dice.—«Tieni queste due pentole di lardo, con questo pennello. Tieni questa boccettina per mette' l'acqua della fontana. Se ti riesce di passare, èmpila d'acqua, prendi una rama di quell'albero e acchiappa l'uccellino e vien via. Di queste due pentole io ti do, quando tu torni addietro, ungi tutte queste statue, fra quelle c'è anche i tuoi fratelli. Ungile tutte, risuscitan tutte; quante ce ne è, tante risuscitano.»—Poi la gli dice—«questa boccettina, buttala nella tua vasca, tu vedrai come brilla! Quella rama, piantala dove tu vuoi nel tuo giardino, tu sentirai come canta! E l'uccello, mettilo su un posto nel boschetto, tu sentirai come discorre!»—Eccoti la bambina, la ragazza ringrazia questa vecchina e va via via via e trova il posto che gli aveva detto. Entra e principia a sentire:—«Acchiàppala! pìgliala! pìgliala!»—sempre urli; e chi la tirava di qui, chi di là. Ma lei costante, arriva al giardino senza mai voltarsi. Entra dentro, empie la boccettina di acqua, come la vecchina gli aveva detto, prende la rama dell'albero, acchiappa l'uccello e vien via. L'uccello se lo mette in seno e poi la prende queste pentole che gli avevan dato ed unge tutte le statue, che risuscitano. Urla! tutti, uomini e donne:—«Ah ecco la nostra liberatrice! Ah ecco la nostra liberatrice!»—Urla di tutti quelli che risuscitavano. Costì c'era anche i suoi fratelli. Figuratevi! baci, abbracciamenti vedendo la sua sorella. Ognuno andiede alle sue case. La ragazze e i fratelli tornano al loro palazzo. Lei, appena entra in casa, va nel suo giardino e butta l'acqua subito nella vasca. E comincia a brillare quest'acqua: fontana che brilla, brilla che era una cosa che sorprendeva. E così pianta la rama; e la diviene un albero che comincia a cantare. E si cava l'uccellino dal seno e comincia a ragionare. Maestà s'affaccia e sente questi canti dell'albero, questi ragionamenti dell'uccello, vede questa fontana brillante e rimane estatico. E vede questi tre, due ragazzi e una ragazza, compagni come gli avea detto la sua sposa. Sente in sè un trasporto verso quei ragazzi, una cosa seria: eran suoi! Principia a discorrere a questi ragazzi:—«Oh! gran bel giardino che avete!»—dice—«gran bella cosa che avete!»—«Maestà,—dicono i ragazzi—«se Lei ci fa degni, pò venire pure a passeggiare una mezz'ora, un'ora nel giardino.»—«Ben volentieri accetterò quest'invito di venire.»—E va nel giardino di questi ragazzi, discorre del più e del meno e poi gli dice:—«Verreste a mangiare una zuppa da me?»—«Ah Signore»—dicono—«sarà troppo incomodo.»—«No;»—dice—«mi fate un regalo.»—«E allora accetteremo le sue grazie e dimani saremo da Lei.»—Il Re va via, viene a casa e dice alle sorelle:—«Domani ci ho persone a pranzo.»—«E chi ci avete?»—«Ci ho quei ragazzini di quel giardino là.»—«Quelli!...»—Esse lo sapevano che eran quelli i figlioli del Re.—«Ah noi ci dispensiamo, non si ci vole stare a questo pranzo»—dicono le sorelle.—«Perchè non ci volete stare? Son tanto boni que' ragazzi! Andiamo, andiamo, non facciamo chiasso.»—E le sorelle, gua! s'accordarono. La bambina la prende l'uccellino che parla e se lo mette in seno per andare al pranzo.—«Maestà,»—dice—«mi sono presa la libertà, ho portato ancora l'uccellino.»—«Bene: anzi sarà il divertimento della tavola!»—Quando furono sul bello del desinare gli dicono:—«Uccello, non dici niente?»—«Oh signore,»—dice—«avrei un fatto da raccontare, se Lei mi permette. Vi era un Re: in un tal tempo, non si sa per qual caso, proibì che la sera andassero fuori dalle ventiquattro in là. L'omo di cucina che sente quest'ordine, era così stanco e sudato, dice da sè: O ch'io moja di caldo o che mi faccia morir Sua Maestà, tanto è l'istesso! io vado fori. E si mette alle sponde d'Arno a prendere il fresco. Mentre che gli è a prendere il fresco, sente voci che parlano. S'affaccia. Erano tre ragazze. Una di quelle dice: O se il Re mi desse per moglie al suo scudiero, dovrebbero vedere come andrebbero le cose! L'altra: Se mi desse al maestro di casa, quello sì che vorrebbe vedere come andrebbono! La terza dice: O se Sua Maestà mi sposassi, vorrebbe vedere! Gli farei tre figli: due maschi e una bambina. I maschi di latte e sangue e i capelli d'oro, che son quelli lì; la bambina di latte e sangue coi capelli d'oro e la stella in fronte, come Lei vede. L'omo di cucina raccontò tutto al Re, che gli perdonò la vita, e maritò le tre ragazze secondo le avevan detto. Le briccone delle sue sorelle»—e l'uccellino le accenna col becco facendo col capo così—«la sua Sposa l'aveva fatto questi bambini e loro dicevano l'aveva fatto la scimmia, il cane e la tigre. E la sua Sposa è giù in cantina, murata dal collo in giù, e tutti i giorni un po' di pane, un bicchier d'acqua e uno schiaffo da quelle scimmie.»—Maestà che sente questo, corre giù alla cantina con tutti i suoi signori che avea dintorno, e trova questa infelice, murata come aveva detto l'uccellino, più morta che viva. La fa smurare, la fa mettere su di una materassa, e portare su nel quartiere a riaversi. Il Re piangeva su di lei ed abbracciava i suoi bambini dicendo:—«Tanto birbanti le mie sorelle sono state! Ma mi saprò vendicare!»—Ordina che sian rizzate le forche assolutamente nel momento. E nel mentre che la sposa cominciava a stare benino, nell'ora del pranzo, furono impiccate quelle briccone. Non si pò spiegare la contentezza di questo signore, quando vide che la sposa stava meglio e che gli perdonava. Gli chiese tanto perdono e i bambini sempre li baciava. Costì se ne stiedero tutti uniti fino che comparono. E lei gli fece degli altri figli; rimasero ricchi di tutta la ricchezza delle sorelle che avevano cose assai. E stretta la foglia e larga la via, dite la vostra che ho detto la mia. L'Uccellino che canta finisce così.

NOTE

[1] È in sostanza La 'ngannatrice 'ngannata, terzo racconto della Posillecheata de Masillo Reppone de Gnanopoli (Pompeo Sarnelli di Polignano, poi vescovo di Bisceglie). Tale e quale la Favola V de la Notte IV, presso lo Straparola.—«Ancillotto, Re di Provino, prende per moglie la figliuola d'un fornajo e colei genera tre figliuoli. I quali, essendo perseguitati dalla madre del Re, per virtù d'un'acqua, d'un pomo e d'un uccelletto, vengono in cognizione del padre.»—Affatto identica nella sua prima parte è la Istoria della Regina Stella e Mattabruna. Oriano, re di Belfiore, aveva una moglie.

2. Questa Regina Stella era chiamata,

Più bella donna che mai fosse alcuna.

Da sua Madonna era tanto odïata

La quale aveva nome Mattabruna,

Madre del Re, malvagia ed insensata.

Notate quel che volse la fortuna....

3. ............ Il Re non s'avvedia

Del falso cor che Mattabruna avia.

4. E stando un giorno insieme alla finestra,

Vide una donna che due figli avia

L'un da man manca, l'altro da man destra;

In sulla piazza quella si venia

A provvedersi per lo suo mangiare.

Il Re la vide, e cominciò a parlare.

5. Dicendo: «O dio, che così fatto dono

«Hai fatto a quella donna in tanto bene!

«Ed io, che Re di tutta Spagna sono,

«S'io n'avessi uno sarei fuor di pene.

«Per tua misericordia, o signor buono,

«Mostra le tue virtù degne e serene;

«Per tua somma possanza e buon consiglio

«Della mia Stella mi concedi un figlio.»

6.Or come piacque alla Vergine pura,

Avvenne che la moglie ingravidossi.....

Di che il Re in gran gioja ritrovossi.

E Mattabruna, che questo non cura,

Come la nuora Stella approssimossi

All'ora e al punto che dee partorire,

All'altre donne così prese a dire:

7.Dicendo: «Ognuna vadi a sua magione

«Ch'io voglio con mia nuora rimanere....»

E nella zambra si serrò con lei,

Dicendo: «O figlia, fa quel che vorrei.»

8.Dal corpo della madre i figli uscendo,

Ciascun uscì di grazia dilettosa,

Cioè, con una catena d'argento,

Intorno al collo, fra le spalle e 'l mento.

9.Tre furo i maschi, ed una fanciulletta,

E ciascun quella catenella avia:

Avea una tal grazia benedetta,

Mentre che seco al collo la tenia

Non potea mai morir di morte in fretta.....

10.E Mattabruna, piena di nequizia,

Que' quattro figli subito prendia,.....

E un suo donzello chiamar si facia.....

Giunse il donzel, che Guido nome avia,

Dicendo: «Dama, che t'è in piacimento?»

Menol da un canto e diegli giuramento.

11.E nella zambra ove portò li figli

Lo menò e disse: «Tu mi servirai.

Or fa che questi pargoli tu pigli;

Dove a te piace tu li porterai.

E d'annegarli fa che t'assottigli;

Tal che novella non se n'abbia mai.

E da me n'averai buon guiderdone:

Innanzi a te, non sarà mai Barone.

12.Ma s'io ne risapessi mai nïente

Che tu il dicessi mai a creatura,

Io ti farei di tua vita dolente.»

14.Guido si parte allora e non si posa;.....

15.E giunto al fiume ch'era grande e grosso

Apre il mantel per volerli annegare.....

Guido li guarda, e cominciò a pensare.....

E per pietà si mise a lagrimare.....

16.«Son questi figli da patir tormento?

O s'io li getto in questo fiume al fondo,

Il mio cor non sarà mai più contento».....

17.E in su la riva del fiume li lassa

(E fegli addosso il segno della croce).

Rinvolti in quel mantel senz'altra fassa.

Poi ritornava alla vecchia feroce

Pien di paura con la testa bassa.

E giunto a lei, con un parlar veloce

Gli disse: «Dama benigna e gradita,

«Di quel che m'imponesti se' obbedita.»

18.E Mattabruna, che al mal far non cala,

Credendo che sien morti que' figliuoli,

In una stalla andò sotto una scala,

Dove una bracca avea quattro cagnuoli.

Tutti li tolse, e ritornò in la sala

Per metter la Regina in mortal duolo.

Con essi in grembo in camera fu gita,

Per farle con dolor perder la vita.

19.E quei cagnuoli glieli mise allato......

20.Dov'era il Re con la sua Baronia,

Che aspettava di sua donna novella,

Questa malvagia vecchia se ne gia,

Per metter empia fama addosso a quella.

E corrucciata forte gli dicia:

«Gran fallo ha fatto la Regina Stella.»

21.Il Re, sentendo sì fatto parlare,

Con quei Baroni ch'erano d'intorno

Alla camera andò senza tardare.....

E vide Stella con quattro can stare.

E Mattabruna allor non fe' soggiorno

Di dire al Re, sbattendose le mane.

«La prole, ch'essa fece, fu di cane.....

23.«Da te non son creati e manco nati,

Da lei procede questo fallo rio.»

Il Re allor con suoi sensi turbati

Alzò le mani al ciel laudando iddio.

Vedendo questo Mattabruna allora

Diè per consiglio al Re che Stella mora.

24. Dicendo: «figliuol mio, pronta vendetta

«Far dei sopra di questa miscredente.»

Il Re le disse: «Darle morte in fretta

Non potrei sopportar alma vivente.

Perchè m'è stata sposa assai perfetta

Non soffrirei mai tanto inconveniente.»

La madre disse: «Fa ciò che t'ho detto,

Se non, da me, figliuol, sii maledetto.»

25.Il Re con gran dolor le diè parole

Che la Regina fosse imprigionata.

Non domandar se 'l Re si strugge e duole.

E Mattabruna, forte corrucciata,

Inver la zambra, come uccel che vole,

Se n'andò tutta quanta indiavolata.

Stella, sentendo allor ch'ella venìa

Piangendo disse: «O vergine Maria!»

26.E Mattabruna nella zambra entrava,

Con seco più donzelle in compagnia.

E Stella a furia pe' capei pigliava,

Con le pugna il bel viso le offendia,

E fuor del letto sì la strascinava,

Poi: «Falsa sposa» essa le dicia,

«Ch'al tuo marito hai fatto fallo tanto!»

E la Regina Stella fea gran pianto.

27.E li figliuoli volea ricordare.....

Mattabruna la fece imprigionare,

Poi comandò a ciascuno con istizza

Che la prigion non si dovesse aprire

Sotto la pena di dover morire.

28.Pane ed acqua le dava con sua mano:

Altra persona non andava a lei.....

29.E Stella piangea forte da sè stessa

De' bei figliuoli che perduti avea;

Spesso per la prigion si tramortia

Chiamando sempre la Vergin Maria.

31.Era un Romito in quella selva folta.....

E in su la riva del fiume venia.....

In que' figliuoli un giorno si scontrava,

Maravigliossi, e forte li guardava.

32.Ed una voce per l'aer favella;

«Togli, santo Romito, e va alla cella.....»

35.Or giungendo alla cella in sulla porta

Una cerva bellissima ha scontrata;.....

Cristo benigno sì l'ebbe mandata.

La bianca cerva in terra si distese;

Di dio la grazia il buon romito intese.

36.Le poppe in bocca a' pargoletti pose:

Gemea la cerva per gran tenerezza.....

37.Da que' figliuoli mai si dipartia,

Sempre stava con lor nella celletta.....

Così cresceva la brigata in fretta,

Tanto che ognun con suoi piedi ne gia

Le catenelle in simile crescevano,

Che i putti dilettosi al collo avevano.

40.Poi che fur grandi si partir dal sito:

A spasso andavan per la selva folta;

Cristo benigno, ch'è signor gradito,

Spesso per un suo angelo gli manda

Pane che sazia con altra vivanda.

Il resto della Istoria della regina Stella e Mattabruna, cioè il modo in cui accade l'agnizione de' figliuoli e si riconosce l'innocenza della madre, è diverso in tutto dalla fiaba nostra.—Cf. De Gubernatis, Novelline di Santo Stefano di Calcinaja: XVI. Il Re di Napoli, ed anche XV. I Cagnuolini. Pitrè (Op. cit.) Li figghi di lu cavuliciddaru (Palermo); La cammisa di lu gran jucaturi e l'auceddu parlanti (Montevago); Suli e Luna (Capaci); Stilla d'oru e Stilla Diana (Casteltermini); Lu Re Turcu (Noto). Se ne legge un'altra lezione di Palermo, sotto il titolo di Re Sonnu nel Nuovo saggio di Fiabe e Novelle popolari siciliane, raccolte ed illustrate da Giuseppe Pitrè (Estratto dalla Rivista di filologia romanza, vol. I fasc. II e III). Imola, tip. d'Ignazio Galeati e figlio, via del Corso, 35. 1873. Vedi anche nell'opera della Gonzenbach la novella siciliana intitolata: Die verstossene Königin und ihre beiden ausgesetzten Kinder. Ridotta la fiaba a semplice novella e ravvicinata alla Storia di Genoveffa di Brabante si ritrova nella seguente panzana milanese.

LA REGINNA IN DEL DESERT.

Gh'era ona volta on fiœu d'ona Reginna, e l'ha tolt mièe, l'ha tolt ona bravissima giovina, e l'era bonna che tutti in casa l'amaven. E invece a la Reginna mader la gh'era antipatica. Ven che al so fiœu ghe ven l'ordin che l'aveva de andà a la guerra; e, prima de andà, el gh'ha raccomandàa tant la soa mièe a la soa mamma. Apenna che l'è stàa via, lee la comincia a no disnà pu insemma, nè andà pu nella stanza, nè nient. E pœu la scriveva a so fiœu che soa mièe la se portava mal e che insomma la tegneva ona condotta minga bella. On po che l'è staa via lu, la gh'ha avuu on mas'c; e lee, la mader, on dì la ciama on so servitor e la ghe dis:—«Sent, te see bon de fà quel che te disi mì? Ti, te mancarà pu nient per tutt el temp de la toa vita.»—El dis:—«Sì, che la me comanda, che mi sont per obedilla.»—«Ti, te devet fa ona robba che te disi mi. Te devet andà cont la sposa del me fiœu per fà ona passeggiada, cercà de tiralla distant de chì, in d'on sit molto distant, in d'ona campagna, in d'ona foresta, e pœu te devet mazzàlla e portamm a casa la lingua.»—E lu, difatti, el fa quel che lee, la ghe dis. El va; e quand l'è in sto sit ch'el ved che l'è propizi per fa sta robba, el gh'ha minga coragg. In quel menter passa on pegorèe. Lu, el servitor, el ghe dis de vendegh vunna di so pegor: lu ghe le vend. E pœu le mazza e ghe trà foeura la lingua. E lee, la dis:—«Perchè t'hê mazzàa quella povera bestia lì?»—«Quand la vœur che gh'el disa, l'è perchè mi gh'hòo l'ordin de mazzalla lee, e portà a casa la so lengua.»—Allor lee la dis;—«Mi te ringrazi del to bon cœur, che te gh'het[i]. Lassa fà de mi, che se fuss de vegnì anmò de vess recognossuda, non palesaròo mai a nissun che ti te set quel che m'ha salvaa la vita, fin al moment propizî,»—al moment che fuss mort la mader. Sta poverinna cosse la fa? la va in cerca d'on quaj sit distant, la va, la va, la viaggia per on quaj dì, fin chè la po trovà ona grotta de podè andà a ricoverass. E là, la viveva cont di frutt che gh'era, salvadegh: per bev, gh'era ona fontanella; e lee, l'andava là per bev quell'acqua piovana. Ven che on dì l'era là e la ved che ven là ona cavra: e allora, lee, la se domestega sta cavra. E la cavra, la viveva d'erba di pràa che gh'era; e lee, pœu, la se serviva del latt de la cavra per podè nodriss. Adess la lassem lì. El servitor, el va a casa; el ghe porta sta lengua a la Reginna; e lee, tutta contenta a vedè ch'el gh'ha faa quel che lee, la gh'ha ditt. Lee, la nuncia a tutta la côrt, a tutt i servitor, la mort de la nœura. In tra lee e sto servitor, fan fenta de stà su a curalla lor e mettela in del còfen[ii] lor. La ghe fa fà i esequi, tutt quell che gh'era de bisogn come ona mòrta; la porten via e gh'era el cofen vœud. E pœu gh'era el fiœu: la Reginna, la ciappa ona cassettinna e le mett denter e le mett in d'on foss, òn acqua che gh'era là e le fà andà giò per el navilli de nott, nascost de tutti. E lu, quel pover servitor, ghe tocca de fà tutt quell che la Reginna la ghe diseva, perchè la ghe intimava, che la gh'avaria fàa morì anca lu, se el parlava. Lu, sto pover omm, l'è andàa per vedè, se le podeva trovà de nascost per soccorrell; per tant cercà che l'ha faa, l'ha mai poduu reussì a trovall. Lee, la ghe scriv al so fiœu, che la soa sposa l'era morta e el fiolin anca lu che la gh'aveva avuu. Lu, el ricev sta notizia,... insomma l'era tutt fœura de lu del dispiasè. Intant el fiolin, quand l'è miss in de l'acqua in sta cassetta, l'è passàa in d'on sit che gh'era on molin. Gh'era là el mornèe[iii], el ved sta cassetta, el dis:—«Cosse l'è ch'el ven giò adess?»—El corr, el va a tœu on pal, el tira la cassetta taccàa, e el ved che gh'era denter on fiolin. El va, el ghe le porta là a la soa mièe, el ghe dis:—«Sent, post che ten latten vun, latta anca quest che l'è on fiolin de tetta, che mi gh'hoo trovàa ch'el vegneva giò in del navili.»—Lee, la guarda sto fiolin e la ved che l'era fassàa denter in di pattej inscì fin, che ghe pareven de battista. Lee, la dis:—«Quest chì l'è on fiœu d'on quaj scior.»—Ma però gh'era minga de marca in sui pattej[iv], che se gh'era la marca capiven che l'era on fiœu del Re. Lee, la mornera, l'ha bajlìi sto fiolin; el gh'aveva già on trij ann, gh'è mai vegnùu i so gent de lu e la mornera le tegneva insomma al so fiœu come s'el fuss stàa so, de lee, anca quell. Ven che la guerra la finiss. El fiœu de la Reginna, el ven a casa; e la soa mamma, la ghe dis:—«T'hê sentii che disgrazia, eh, ch'è success? che l'è morta la toa sposa, el to fiœu?»—E lu, el dis:—«Pur tropp gh'ho avùu on gran dispiasè.»—Lee, la ghe dis:—«Te dovaresset tœu[v] la tal!»—che gh'era vunna, che lee, la gh'aveva in piasè ch'el tœuresset. Lu, el ghe dis, ch'el vœur minga saveghen, perchè el ghe voreva tant ben a quella che gh'è morta. Ben, lu, l'andava semper a caccia, per cascià via la malinconia; e on dì el va inscì distant, el passa via de quel molin, el gh'aveva ona gran set. El ghe dis a la mornera de fagh el piasè de favorigh ona tazza d'acqua. Là, el ved sti fiolitt. El ghe dimanda se eren tutt so quij fiolitt; e lee, la mornera:—«No!»—la dis—«quest chì l'è on fiolin che l'ha pescàa on dì me marii che el vegniva giò per el navili in d'ona cassetta.»—La ghe dis:—«L'era piccol che mi l'hoo lattaa, e adess el tegni com'el fuss mè, ghe vœuj ben compagn di me, precis.»—E lu, el dis:—«Oh che bel fiœu! com'el me pias! m'è simpatich tant quel fiœu!»—Lu, el va innanz, el va a continoà la soa caccia. Quand l'è on certo sit, el ved che el can el boja; el boja, e lu, l'era adrèe per tirà, che ghe sia ona quaj legora, ona quaj legora, on quaj cossa de podè ciappà. E invece el can l'andava là a bojà e poeu el coreva indrèe a fà cera al padron; e lu, el dis:—«Prima de tirà, bisogna che vaga là a vedè cosse l'è che gh'è.»—Infin el va là, in dove l'è sta grotta, el ved che gh'è la ona donna; e lee, la ghe guarda e la resta lì incantada. Lu, el cognoss minga che la sia soa mièe, perchè lu, l'era tant persuas che la fuss propri morta; e lee, la ghe dis:—«Ah te me cognosset no? te me cognosset pu? Guarda on poo el can che el m'ha cognossùu.»—E lu el dis:—«Ma dio! dimm chi te set?»—E lee, la ghe dis:—«Sont toa mièe!»—«Come!»—el dis—«te see mia mièe? ma mia mièe l'è morta!»—«Si, se avessen eseguìi i orden che gh'han dàa a quel che m'ha compagnàa chì, saria morta; perchè invece el gh'ha avuu compassion, el m'ha lassàa al mond.»—E lu el dis:—«Dimm chi l'è quel che gh'aveva orden de mazzatt?»—La ghe dis:—«On servitor de la toa mader. Ma te preghi de no stà a dill; perchè lu el m'ha salvàa la mia vita e vœuj salvagh la soa.»—E la ghe dis, che a casa, lee, la voreva minga andà; che la menass in d'on quaj sit; che fin a che viveva soa socera, lee, la saria minga andada a la cort. Lu, allora, el pensa, el ghe dis:—«Te menaroo in d'on sit che hin[vi] povera gent de cœur; e sont persuas, quij là palesen a nessun de quel che succed.»—Le mena là al molin. El ghe dis a sta gent, de fagh sto piasè, se voreven tegnigh lì sta donna, che l'era on poo malada, e de assistela. Lor gh'han dit:—«Nun semm povera gent; ma quel che podem fa, tutt quel che pò stà de nun, nun el farem.»—Lu, el ghe mandava là tutt quel ch'el ghe fava de bisogn; finchè lee, la s'è recuperada on poo de salut. La vedeva sti fiolitt a giugà, la dimandava a la mornera se eren so; e lee, la gh'ha cuntàa l'istessa storia che la gh'aveva cuntàa al so marì; che quell là l'aveven ciappàa denter l'acqua. E la ghe dimanda l'epoca che l'han ciappàa sto fiœu dent in l'acqua. E allor, lee, ghe ven in ment che non pò vess che el so fiœu; perchè la mader de so marìi, la gh'aveva scritt che l'era mort anca el fiœu. Allora so marìi el va là; e lee, la ghe dis:—«T'hê minga trovàa domà la mièe, ma anca el to fiœu. Quest chì, l'è el to fiœu.»—E la Reginna a cà la saveva nient, che l'avess trovàa la soa sposa. Domà che lu pœu, con quel servitor, che l'è stàa el deliberator de soa mièe:—«Dimm tutt quel che mia mamma la t'ha ditt de fa contra a mia mièe. Abbia minga parura che mi.... La mia mamma la savarà nient de quel che te me diset; e te, de nascost te andarà là a vedè el me fiœu, a trovà la mia sposa; e quand la mia mamma la sarà morta, allora la mia sposa la vegnirà in casa e ti te tegneroo come on amis de casa e pu come on servitor.»—S'ciao, quand la mader la fu stada morta, alor el Re, el ven in casa con la soa mièe e el so fiœu, cont el mornèe e la mornera e cont el servitor, pacificamente.

[i] Del to bon cœur, che te gh'het, forma pleonastica, impossibile a rendersi in italiano, dove sarebbe mostruosa. Similmente più giù troveremo: come s'el fuss sta so, de lee; e continuamente si odono a Milano, el me, de mi; el so, de lu; e simili locuzioni.

[ii] Còfen, è spiegato del Cherubini:—«Specie particolare di cassa da morti, fatta come a culla;»—e risponde precisamente al coffin inglese. Il Settembrini, traducendo con ingenua eleganza il Lucio del Samosatense, adopera in questo senso il vocabolo atauto:—«Io mi rancurava che doveva essere scannato e neppure morto giacere in pace, ma chiudere dentro di me la povera giovane ed essere l'atauto di quella innocente;»—ed annota:—«Atauto è voce spagnuola, ataùd. Il Giambullari l'usa nel IV Libro della sua Storia, dove dice che il conte Fernando di Castiglia, uccise di sua mano il conte di Tolosa: Il che fatto, comandò che e' fusse rivestito onoratamente di drappi moreschi, e riposto in atauto sontuosissimo. I Napolitani hanno tauto, che non è nè bara, nè feretro, nè cataletto, ma cassa mortuaria. Io sarei tentato a dir piuttosto tauto, parola già modificata italianamente da un popolo italiano, che atauto, usata una sola volta dal Giambullari, il quale la copiò da qualche storico spagnuolo.»—Questo termine spagnuolo ataùd, è tanto bello, che sebbene i francesi ne abbiano uno perfettamente corrispondente in cercueil, il Branthôme cercò di gallicizzarlo e parlando di Bartolomeo d'Alviano, dice: Quel convoy et quelle pompe funèbre! Celle de messire Bertrand de Glesquin fust bien plus belle et plus honnorable, lequel estant mort devant le Chasteau—Randon et ceux de dedans s'estant rendus, fust ordonné et advisé par ceux de l'armée qui commandarent amprès luy, qu'on porteroit sur son tahu, où estoit le corps, les clefs, en signe d'obediance et humilité.

[iii] Mornée, mugnajo e Mornera, mugnaja.

[iv] Pattej (plur. di pattell) pezze, fasce pe' bimbi.

[v] Tœu assolutamente, per: torre in moglie. Dice una canzonetta popolare:

La bella bionda la va al poggiœu Si gh'è on bel giovin che le vaur tœu. Vun le vœur, l'alter le vœur. La bella bionda ghe creppa el cœur.

[vi] Hin, sono, parola che parrebbe chinese. Si narra per ischerzo d'una signora, che andando a far visita a delle amiche, chiese alla portinaja se le padrone fossero in casa:—«Gh'hin?—cioè, ci sono? La portinaia chiede al cuoco delle signore, che usciva per far la spesa:—«Gh'hin?»—Il cuoco si volge alla domestica, che sciorinava e spolverava i tappeti ad una finestra, la quale affacciava sul cortile:—«Gh'hin?»—La domestica risponde al cuoco:—«Gh'hin!»—Il cuoco ripete alla portinaia:—«Gh'hin!»— E la portinaia dice alla visitatrice:—«Gh'hin, gh'hin!»—

[2] Usano sempre il sortire per uscir di casa. Più d'una volta m'è accaduto di domandare a qualche domestico o domestica se il padrone o la padrona fossero usciti e di sentirmi rispondere, quasi per correggermi e farmi la lezione: Sono sortiti. Ma tutti i ben parlanti, spero, persevereranno a dare al verbo sortire i soli significati antichi di aver in sorte e fare una sortita.

[3] Maestà, diceva la novellaja, più volentieri e più spesso di Sua Maestà, come si suol dire nella lingua aulica; e diceva bene, non essendo razionale l'uso del pronome possessivo, quando non ci sia a che riferirlo.

[4] Bisogna aver presente la costruzione solita delle casucce fiorentine, di quelle casucce caratteristiche con due finestrucole di facciata. I portoni non sono carrozzabili. Sorgono per qualche scalino. Ci ha tanti campanelli, quanti quartieri; ed i pigionali di ciascun quartiere tirando una corda di canape o di fil di ferro possono aprir l'uscio di casa.

[5] Eri, eravate.

[6] Vaghissima proprietà della nostra lingua di poter apporre il sostantivo allo aggettivo, quasi come un genitivo retto da questo. Boccaccio. Decameron, VII, 2.—«Almeno m'hai tu consolato di buona e d'onesta giovane di moglie.»—Il Firenzuola adopera questo modo di dire a tutto pasto: La trista della volpe, la pazza della barbiera, il semplice dello istrice, ecc.

[7] Nota quel vien via a casa, quanto più energico del va o torna! E nota la tendenza di adoperare alcuni verbi con qualche avverbio di moto e di luogo, alla inglese, invece del verbo semplice proprio. Così andar di sotto (invece di cadere); star su (invece d'alzarsi); venir su (invece di salire); ed infiniti altri.

[8] L'istesso, qui, nel senso di tale e quale. Sarà stato un canestrino simile, concedo; ma come avrebbe potuto essere il medesimo? Il navicellajo non era certo andato a restituirlo alla Reggia.

[9] Sic. L'effetto per la causa. Forse pittima?

[10] Vedi lo esempio milanese, L'esempi di trii fradej, in nota alla Novella del Mago dalle sette teste, dove invece dell'anello v'è un fazzoletto. Anche nell'Adone del Marini trovasi un anello incantato, che Venere dà al protagonista, ed il quale deve rappresentargliela quand'è lontana. Nel Costantino del De Notariis (Canto XXII. Stanza LXXXIII) abbiamo invece uno specchio.

Specchio di terso acciar, grande a misura

D'un uomo allor che il braccio alto distende,

Tra quelle ricche e luminose mura,

Mostro di meraviglie anco riplende.

A chi l'occhio vi porta, apre e figura

Ne l'imagine sua cose stupende.

Ciò che brama veder, lunge o dappresso

Tutto vi scorge e vivamente espresso.

Nel Bandello (p. I. nov. XXI) v'è una imaginetta di cera, che il Musset, drammatizzando quel racconto, ha trasformato in uno specchio simile tascabile nella sua Conocchia di Barberina.

La novellaja fiorentina

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