Читать книгу La novellaja fiorentina - Vittorio Imbriani - Страница 11

VII.

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L'UCCEL BEL—VERDE.[1]

C'era una volta un Re di Francia che era molto amante della caccia. Un giorno, andando a caccia, i cani principiarono a urlare fortemente. E lui va per tirare a una fiera e invece ci trova una bellissima donna. Il Re, sorpreso di questa bellissima giovane, voleva sapere la ragione perchè l'aveva trovata sola in questo bosco, abbandonata? perchè stava in una grandissima afflizione? Lei dunque gli disse che facesse della sua vita quel che voleva, ma che non le strappasse il secreto de' suoi natali. Il Re rispettò il suo secreto, la fece mettere in corte, le dette il suo quartiere e disse che fosse rispettata come una di famiglia. Dopo alcun tempo il Re andò a far visita alla bella incognita e s'accorse da' suoi modi gentili e dal suo dolore che doveva appartenere ad una famiglia illustre e distinta. E quindi se ne innamorò talmente, che pensò di farla sua sposa. La madre del Re, indispettita di sentire che doveva avere per nuora una sconosciuta trovata in un bosco, giurò che ne avrebbe fatto crudele vendetta e che il sangue de' Reali di Francia non si sarebbe mai contaminato con una sì vile sposa. Difatti, dopo pochi mesi che il Re aveva sposata questa sconosciuta, arrivò un corriere d'Inghilterra intimando al Re una improvvisa guerra. Il Re non poteva intendere come l'Inghilterra volesse fare a lui la guerra senza alcuna ragione. Ma per meglio accomodare le cose pensò di andare lì da sè con un piccolo esercito per conoscere la ragione di questa intimazione. Piangendo andò a congedarsi dalla sposa, la quale lo pregò di trattenersi qualche altro giorno perchè aveva qualche cosa da dargli. Difatti ella si pose a ricamare una bandiera francese; ma l'arme era d'Inghilterra; e disse:—«Quando sarai vicino al Re, spiega questa bandiera, chè nessuno ti farà danno.»—Il Re partendo raccomandò caldamente la sua sposa alla madre e le disse che la lasciava incinta; e le disse che avesse cura di lei e del figlio che sarebbe nato. Il Re, arrivato in Inghilterra, nulla trovò d'intimazione di guerra. Ma quando fu veduta la bandiera spiegata dal Re di Francia, tutti gli corsero incontro per fargli omaggio. E quando il Re d'Inghilterra seppe che la bandiera era stata ricamata dalla moglie del Re di Francia, lo abbracciò teneramente e gli disse:—«Tu sei mio genero.»—Il Re, pieno di gioia e di consolazione per questa felice scoperta, ebbe una lettera di sua madre nella quale gli diceva che sua moglie aveva partorito tre cani e si trovava in fin di vita. Il Re subito rispose che custodissero i cani e la sposa, che lui quanto prima sarebbe tornato trionfante nel Regno. Tornato il Re di Francia, trovò tutta la corte in lutto; e la madre piangendo gli disse che i suoi tre cani e la moglie erano tutti morti; lei era morta dal dolore di questo tristo parto. Il Re si afflisse tanto di questa cosa che fece giuramento di non vedere più nessuno. Si rinchiuse in una stanza, e meno che il servo che gli portava da mangiare, non era permesso a nessuno di entrare nella camera del Re. Dopo diciotto anni che il Re viveva in questo stato di disperazione, di abbattimento, una mattina sentì del rumore per la strada. Domandò cosa fosse quel rumore insolito che sentiva. E gli fu risposto che una giovine sorella di due guardie reali della Regina, aveva preso quartiere di faccia alla camera del Re, e che essendo tanto bella, la gente andava a vederla; si fermava lì sotto alle finestre a vederla che era seduta al suo balcone. Il Re sentì desiderio di vedere questa ragazza: s'affacciò alla finestra e disse:—«È tanto bella che mi rammenta la mia Uliva.»—Informata la Regina madre di questa impressione del Re, di questa parola, sente nascere una grande avversione per questa ragazza. E non sapendo come più facilmente poterle nuocere, mandò a chiamare una vecchia strega che era la sua intima confidente. La strega le disse che era difficile nuocere a questa ragazza, perchè la Regina delle fate la proteggeva; ma che l'unico mezzo era quello di salutarla e dirle:—«Bella, tu se' bella! ma se tu avessi l'acqua che balla, che canta e che sona; l'albero del sole; e l'Uccel Bel—Verde[2]; saresti anche più bella.»—La sera appresso, sulle ventitrè, quando la bella Amalia si metteva sul balcone a lavorare, la Regina si affacciò e le disse:—«Bella, tu se' bella! ma se tu avessi l'acqua che balla, che canta e che sona; l'albero del sole; e l'Uccel Bel—Verde; saresti anche più bella.»—Appena dette queste parole alla povera Amalia, che soleva essere di carattere tranquillo e molto allegra, le entrò una smania addosso che non le diede più pace. Principiò a piangere dirottamente; e quando vennero i suoi fratelli, la trovarono immersa nelle lagrime. Uno di essi, chiamato Federico, volle assolutamente saperne la cagione. E quando sente le parole che gli aveva dette la Regina, disse alla sua sorella:—«Tu sarai più bella! Io ti troverò l'acqua che balla, che canta e che suona; l'albero del sole; e l'Uccel Bel—Verde.»—La mattina appresso, prese congedo dalla Regina perchè era guardia, si licenziò dall'Amalia e le lasciò un anello con la pietra turchina e le disse:—«Finchè quest'anello avrà la pietra turchina, spera che io ti porterò quel che ti manca. Se questa pietra turchina diventerà nera, allora io sarò morto e il nostro fratello Alfredo penserà a cercarti ciò che desideri.»—Quindi si partì sopra un bel cavallo e se n'andò fuori della porta. Sceso, uscito fuori delle mura della città, si mise a pensare a che via doveva prendere. Mentre che era pensoso, seduto da una bottega, si presentò una vecchia e gli disse:—«Mi farebbe un po' di carità? Io posso consolarla in quello che desidera. So quello che Ella cerca: e se mi dà retta porterà alla Sua sorella l'acqua che canta, che balla e che suona, l'albero del sole e l'Uccel Bel—Verde.»—Lui disse:—«Ben volentieri farò tutto quello che tu vuoi.»—Allora la vecchia gli dette una boccia che gli attaccò alla cintura per mezzo di un nastro rosso; gli dette una gabbia, un'ascia d'argento e un vasellino contenente della pomata. Gli disse poi:—«Voi camminerete in fondo in fondo a questa strada tre giorni e tre notti senza riposarvi; alla fine del terzo giorno vi troverete in un gran prato che attraverserete. Quindi entrerete in un viale costeggiato di molte statue. Passate a diritto, senza voltarvi nè da una parte nè da un'altra. Finito il viale entrerete nel bosco dove c'è la fontana dell'acqua che balla, che canta e che suona e l'albero del sole con sopra l'Uccel Bel—Verde. Presentate la gabbia e l'uccello entrerà in gabbia; chiudetela, perchè non voli via. Presentate la boccia e si riempirà subito d'acqua: turatela, perchè non esca di dentro. Toccate l'albero del sole con questa accettina, toccate un ramo e vi si staccherà subito.»—Mi sono scordato che quando gli dette il vasellino, gli dette anche un pennello, questa vecchia a Federico.— «Quando vi siete caricato di tutta questa roba, ritornate nel viale delle statue e col pennello intinto nella pomata, toccate le statue che saranno alla vostra diritta.»—Mi sono scordata un'altra cosa: nel prato doveva lasciare il cavallo prima d'entrare; doveva smontare da cavallo quando lui entrava nel viale delle statue.——«Farete tutto ciò con la massima velocità, senza mai voltarvi indietro. Sentirete urli, lamenti, preghiere: non vi voltate indietro. Raggiungete il vostro cavallo nel prato, salite e tornate a Parigi. Se vi voltate, siete morto.»—Federico, pieno di gioja, montò sul suo cavallo e fece tutto quanto la vecchia gli avea detto. Ma appena ebbe toccata qualcuna delle statue, quelle riebbero la vita, e piene di gioia e di riconoscenza, chiamavano, abbracciavano Federigo, per dargli una prova della loro consolazione. Federigo non ebbe la fermezza di non voltarsi: un momento si voltò e rimase statua anch'egli[3]. Il quarto giorno la povera Amalia guarda il suo anello: il suo anello era divenuto nero, la pietra; segno certo che Federigo più non ritornava. Disperata e piangente, torna Alfredo e gli racconta che la pietra era diventata nera e che Federigo era morto. Allora Alfredo gli dice:—«Io voglio seguitare la via di Federigo. O lo vendico e trovo l'acqua che canta, che balla e che suona, l'albero del sole e l'Uccel Bel—Verde; oppure voglio morire per vederti contenta.»—Quindi preso congedo dalla Regina che glielo diede con la massima consolazione: dato un anello con la pietra verde alla povera Amalia, che era indizio della sua vita se non cangiava colore; si partì dall'amata sorella nella speranza di farla felice. Appena uscito fuori di porta, si presenta la solita vecchierella, gli fa le solite offerte del fratello e gli dice che se avesse avuto il coraggio di non voltarsi, avrebbe salvata la vita anche a Federigo. Pieno di speranza e di sicurezza intraprende la strada; percorre velocemente la via; e dopo, ma dopo aver fatto tutto quanto la vecchia gli aveva detto, egli pure cade nelle lusinghiere parole degli amici, si volge indietro e resta statua di marmo. Al quarto giorno la povera Amalia guarda il suo anello fatale e vede che anche il suo secondo fratello è morto. Nessun desiderio la lega alla vita; vuole seguire la sorte de' suoi fratelli. Si veste da uomo, monta sur un cavallo, esce fuori della porta e le viene incontro la solita vecchina, che l'ammonisce dei soliti oggetti per poter salvare tutti que' giovani e per poter fare invidia alla Regina con tutti gli abbellimenti che l'avrebbero resa più bella. Amalia monta a cavallo; percorre la via: traversa il prato; passa il viale delle statue; vede l'acqua che canta, che balla e che suona, l'albero del sole e l'Uccel Bel—Verde; in un attimo se ne impadronisce; col suo gran pennello unge tutte le statue che ha a diritta; e non badando nè a gemiti, nè a lamenti, nè a parole d'affetto, raggiunge il suo cavallo, ci monta ed è salva. Tutti i giovani liberati da lei sono già nel prato; tutti le rendono mille grazie del bene ricevuto; chi le dà collane, chi corone, chi anella: son tutti figli di Re incatenati da una trista fata che aveva fatto questo incantesimo. Il quarto giorno la strada del Re è popolata di gente. L'acqua che canta, che balla e che suona richiama tutta la popolazione; l'Uccel Bel—Verde chiacchiera con tutti quelli che lo interrogano[4]; l'albero del sole riflette i raggi e si volge sempre dalla parte ove il sole lo illumina. Il Re stesso si sente commosso a tanta gioja, s'affaccia, vede la bella giovane che gli rammenta la sua Uliva, vede tutto il popolo esultante a tanta festa, a tanta bellezza. Dopo diciotto anni si fa radere la sua barba, cambiare le sue vesti in più ricche vesti, e dice che desidera di vedere da vicino la bella Amalia. La Regina madre temendo di perdere il trono e che il Re suo figlio debba prendere un'altra moglie, manda a chiamare la solita strega e gli dimanda cosa può fare per ammazzare questa sua nemica. La strega gli dice che inviti tutti a pranzo, l'Amalia, Federigo, Alfredo, e che avveleni il pranzo. Essa finge di voler compiacere il Re e di voler invitare i giovani a pranzo da lei. Amalia accetta con gioia: ma chiede la grazia di portare l'Uccel Bel—Verde, perchè l'Uccel Bel—Verde l'aveva già avvertita. Il Re, beato di questa dimanda. Il pranzo è imbandito, ma i giovani non mangiano altro che quello che l'Uccel Bel—Verde becca. Gli aveva detto che non dovevano mangiare altro che quello che lui avrebbe beccato. Alla fine del pranzo l'Uccel Bel—Verde chiede di poter contare una novella. Il Re è beato, la Regina madre si turba. L'Uccel Bel—Verde principia la novella raccontando la cacciata del Re; il ritrovamento della Uliva; il parto della Principessa che non aveva fatto tre cani, ma tre bei figli; ma che la Regina li aveva mandati in un bosco per essere ammazzati. Quello che doveva ammazzare i bambini ne ebbe compassione, li fece educare e poi li fece impiegare guardie della Regina. La Principessa del Re languiva da diciott'anni dentro una prigione e l'unico servo fedele della Regina era consapevole di questo misfatto. A questo racconto la Regina sviene; il Re monta in furore; si percorre il palazzo reale; si trova la povera Uliva quasi in fin di vita. L'uccello dice di essere una fata e di essere venuto per salvare quelli innocenti. La Regina madre muore di dolore. Il Re ritorna nel suo florido stato; amato dalla moglie e dai figli è ricompensato di diciott'anni di patimenti. La Regina è riconosciuta per figlia del Re d'Inghilterra; e una pace durevole si strinse fra quelle due nazioni.

NOTE

[1] A questa novella ed alla precedente, annota il Liebrecht (art. cit):—«Zu Grimm. K.—M. N.º 96. De drei Vügelkens; vgl. zu Gonzenbach N.º 5. Die verstossene Königin und ihre beiden ausgesetzten Kinder. Das von Grimm und danach von Köhler gemeinte Märchen der 1001 Nacht (von den beiden neidischen Schwestern) befindet sich in der Uebersetzung (Breslau, 1836) Bd. x. S. 3. ff. (Nacht 426).»—La fiaba presente è una variante importantissima della precedente, dettata da colta signora. Difatti non ci trovi sgrammaticature, non idiotismi; tutto va per la piana e secondo le regole. Ma.... io antepongo il dettato della mia povera ciana analfabeta. In questa forma, ha maggior somiglianza con la Novella Prima della giornata decima del Pecorone:—«Il Re d'Inghilterra sposa Dionigia, figliuola d'un Re di Francia, che trova in un convento dell'Isola. Partorisce due maschi in lontananza del marito; ed obbligata, per calunnie appostele dalla suocera, a partirsi, con essi va a Roma. In quale occasione riconobbero i due Re con estrema gioja, l'uno la moglie e l'altro la sorella.»—Confronta anche per alcune parti con la Novella della pulzella di Francia, dove si racconta l'origine delle guerre fra i francesi e gl'inglesi di messer Iacopo di Poggio Bracciolini, occasione d'interminabili polemiche letterarie; e con la Penta Manomozza, trattenimento secondo della giornata terza del Pentamerone.—«Penta sdegna le nozze de lo frate e, tagliatose le mano, ce le manna 'mpresiento. Isso la fa iettare drinto 'na cascia a mare; e, data a 'na spiaggia, 'no marinaro la porta a la casa soja, dove la mogliere gelosa la torna a iettare drinto la stessa cascia; e, trovata da 'no Re, sse nce 'nzora. Ma, pe' trafanaria de la stessa femmena marvasa, è cacciata da lo Regno; e dopò luonghe travaglie, è trovata da lo marito e da lo frate e restano tutte quante contiente e conzolate.»—Così viene a confondersi con la Leggenda di Sant'Uliva (per la quale vedi: La Rappresentazione di Santa Uliva riprodotta sulle antiche stampe, Pisa, fratelli Nistri, 1868, e la dotta prefazione appostavi dal cav. prof. Alessandro d'Ancona; nonchè la Novella della figlia del Re di Dacia, testo inedito del buon secolo della lingua. Pisa, tipografia Nistri, 1866, e la dissertazione premessavi da Alessandro Wesselofsky). Popolarissima è la Istoria della Regina Oliva, figliuola di Giuliano Imperatore e moglie del Re di Castiglia, ad istanza ed esempio delle persone timorate di dio. (Ne ho sott'occhi la edizione di Bologna, 1875. Alla Colomba. Con permissione). Di questa Leggenda avremo occasione di riparlare; frattanto, per tema di dimenticar la citazione, a proposito di Penta od Uliva, che si amputa, mozza, recide le mani, perchè il padre od il fratello le dicono di essersi innamorati di lei, a cagion della bellezza di quelle, porrò qui alcuni versi che Luigi Groto, nel Pentimento amoroso, pone in bocca a Dieromena:

Chiusa in silenzio eterno, in erme tenebre,

Dove nè tu nèd altri più mi veggiano,

Piangerò l'altrui fallo e 'l mio martirio;

E questi occhi che spesso ti mirarono

Come rei mi trarrò dal capo (fossero

Stati ciechi così già alquanto spazio!),

O si risolveran piangendo in lagrime.

E queste man, che sole tocche furono

Da te, come nocenti, (poi che furono

Tocche da man profana, immonda e perfida,)

Troncherò da le braccia, e a me medesima

Che 'l resto conservai renderò grazia.

[2] Uccel Bel—Verde. Vedi Gherardini, Supplimento, Vol. VI, pagina 196.

[3] Impietrimenti, statuificazioni si ritrovano narrati con molto ingegno e spirito, non solo nella fiaba della Posillecheata, che è perfetto riscontro di questa, e dove si racconta argutamente l'origine di parecchie statue che adornavano Napoli (alcune delle quali ci furon poi rubate dagli spagnuoli), anzi pure nella Pietà remmonerata, conto primo della Possillechejata stessa. Trasformazioni in pini ed in istatue nella Cinzia di Filippo Finella (Napoli, M.DC.XXVI). Altre trasformazioni in moltissime favole pastorali, nel Capriccio del Guidozzi (Venezia, M.DC.VIII); ne' Frutti d'Amore di Fra Cristoforo Lauro; nel Fillidoro di Pietro Matteuccio (Venezia, M.DC.XIII); ne' Tormenti d'Amore, Tragicommedia pastorale di Pietro Matteazzi (Venezia, M.DC.V). Questo Pietro Matteazzi è forse tutt'uno col soprammentovato Pietro Matteuccio: egli dice al suo lavoro

Esci, parto amoroso,

Da l'ombra del mio core,

Novo figlio di Febo, al sommo ardore;

Ed or, che l'Orïente

La notte indora in ciel chiaro e lucente,

Quivi t'innalza e intendi:

E poscia cadi, incenerisci o splendi.

Similmente ne' Miracoli d'Amore dello Iacobelli (Roma, M.DC.I). Lo elegantissimo Ieronimo Vida, nella sua Fillira tanto leggiadra, descrive, che non si può meglio, i sentimenti d'un uomo converso in fonte, quando l'amica sua va a specchiarvisi (Atto III. Scena IV. Parlata di Carino che principia:

Che non fec'io per meritar suo amore?)

[4] A proposito di uccelli che parlano. Ortensio Lando narra che:—«un corvo... vide la madonna far una torta et merendar con una sua comadre; et venuto il padrone, il semplice corvo incominciò a dir: Madonna ha fatto torta, madonna ha fatto torta. Il padrone chiede la donna dove sia la torta. La donna con viso turbato et piena di mal talento li risponde che non vi è torta alcuna, et che di lui si maraviglia, come più tosto voglia credere ad un animalaccio che a lei. Acquetasi il buon marito, et fatto ciò che aveva da fare, tornossi fuori. La donna iraconda (sì come sogliono esser quasi tutte) appena fu il marito scostatosi un tratto di pietra, ch'ella se n'andò alla gabbia et spelò il capo al loquace corvo. Non istette molto, che venne un frate a chieder del pane; et cavandosi il cappuccio et essendo nuovamente raso, credette il corbe li fosse stato pelato il capo per aver parlato di torta, et a lui rivolto molte fiate replicò: tu hai parlato di torta, tu hai parlato di torta; et pareva si rallegrasse che il buon frate fosse caduto nella medesima sciagura ch'egli cadde.»—Racconto popolare diversamente narrato dal Firenzuola nella Prima Veste dei Discorsi degli Animali. Altro caso di zoolalia narrato dal Lando è poi il seguente, anch'esso facezia popolare che tuttodì variamente si racconta:—«Eravi un prete, il quale avevasi per suo trastullo nodrito un fanello, addottogli dalla Marca dove sono i migliori che si ritrovino. Et stando un giorno tutto spaventato col becco fra le piume, sopraggiunse il prete et sì gli disse: che fai bestia? Alzò allora il capo il fanello, et disse quel versetto di David pieno di mistero: Cogito dies antiquos et annos aeternos in mente habeo.»—

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